Il compito dei compiti
IL COMPITO DEI COMPITI
1. Torno, per sommi capi, su alcune importanti questioni già dibattute a lungo da un bel po’ d’anni a questa parte. Vi torno più che altro per ribadire alcune conclusioni, anzi per rafforzarle e ulteriormente delucidarle. Intanto, però, sia chiaro che non si tratta semplicemente di dichiarare l’“uscita dall’ideologia” di tempi ormai definitivamente “trapassati”. Se questa fosse la mia intenzione, mi unirei alle menzognere ciance sulla fine dell’ideologia e altre sciocchezze di questi ultimi decenni di “seconda distruzione della ragione” (se mi si permette di civettare con il vecchio libro di Lukàcs). Come chiarì Althusser saremo sempre dentro un’ideologia; scopriamo quella di altri, di epoche passate soprattutto, mettiamo in luce ciò che quell’ideologia tendeva a mascherare, ma altri dovranno poi far risaltare la nostra e quali problemi essa ha occultato o quanto meno distorto.
Diceva Schumpeter, con analogia riferita agli aeromobili, che l’ideologia è come l’attrito dell’aria: frena il movimento, obbliga ad un surplus di energia consumata per muoversi, anzi per accelerare il movimento stesso, ma consente poi di alzarsi da terra e prendere il volo. Nel suo significato positivo, l’ideologia è punto di vista con cui guardiamo ai “fatti” e ai “processi”; un punto di vista che dipende pure da una scelta di campo, da una presa di partito. Quando facciamo appello all’atteggiamento scientifico da mantenere nelle analisi, non ci riferiamo ad una oggettività assolutamente imparziale che consenta di riprodurre la realtà così com’essa è. Nessuna asetticità è possibile, nessuna esclusione delle nostre “passioni”, che sono invece alimento della ricerca, stimolano l’intuizione di nuove “verità” (in effetti, di nuovi punti di vista), selezionano il materiale concreto che ci si affastella davanti, guidano la disposizione dei vari pezzi da noi scelta nel tentativo di ricostruire il quadro complessivo della situazione, ma sempre secondo l’angolo d’osservazione preferito, ecc. ecc.
I “fatti” e “processi”, che non possiamo riprodurre così com’essi sono, hanno comunque “qualcosa di duro”, di irriducibile e non piegabile ai nostri “voleri” di interpreti; qualcosa che sfugge al senso e alla direzione che ad essi attribuiamo. Questo “qualcosa” si afferma sempre con il passare del tempo. Inizialmente, e talvolta a lungo, la nostra interpretazione sembra reggere, appare piuttosto soddisfacente, poi inizia la constatazione che la nostra presa su “fatti” e “processi” si è fatta labile, è come una mano che cerca di afferrare un pesce direttamente nell’acqua in cui guizza. L’atteggiamento scientifico è quello che ci consente di acquisire il prima possibile la sensazione del mutamento intervenuto, di avvertire la crescente incongruità di date ipotesi e la necessità di intraprendere un’altra strada, sforzandoci di intuire nuove direzioni via via corroborate da indizi, che si colgono però perché abbiamo cambiato l’angolo del fascio d’osservazione. Senza che mai venga meno il lato ideologico, riflesso delle nostre rinnovate passioni.
Solo la cristallizzazione in dottrina di vecchie ipotesi, la loro trasformazione in Principi Immutabili, crea l’ortodossia e le eresie, la fede e il rinnegamento. Quest’ultimo si configura quasi sempre come tradimento, svendita ad altro punto di vista, ad altra scelta di campo, ad altra presa di partito. Può sembrare che, tutto sommato, il fedele sia meno riprovevole del rinnegato. Certo, dal punto di vista del giudizio puramente individuale è così. Tuttavia, è la fede incrollabile in qualcosa di ormai morto, che non consente più una prassi adeguata ai “nuovi tempi”, a favorire il rinnegamento che sorge sempre del crollo di quella fede, con il suo corollario di abietto cinismo privo di qualsiasi passione, di qualsiasi emozione, di qualsiasi volontà di comunque creare il nuovo, il “più grande”, ecc.
Dico questo per far capire che non ha proprio alcun senso rinnegare quanto si era “creduto” in epoche passate; ma creduto in base ad una riflessione, sempre aperta alla problematizzazione e mossa da un punto di vista e da una scelta di campo. Si rinnega solo quando non ci si apre ad alcuna nuova riflessione, quando semplicemente si nega una fede e si passa al nemico d’essa; punto e basta. Per questo motivo, i post-piciisti – di cui abbiamo ancora preclari esempi, alcuni ancora non troppo vecchi, altri che non si decidono a morire, come fanno la gramigna o il fungo velenoso, più duraturi di altre specie vegetali – sollecitano la nausea, il desiderio che crepino. Sono il peggio che l’umanità possa produrre.
Quando i ripetuti fallimenti, lo sbriciolarsi della nostra prassi retta da vecchie ipotesi, diventano ormai fin troppo evidenti, non vi è alcun rinnegamento nel ripensarle, nel riproblematizzarle, nel tentare nuove vie che implicano riflessione critica e posizione – cauta e non dogmatica, non tetragona a possibili cambiamenti in corso d’opera – di nuove ipotesi, che diciamo teoriche solo perché non attengono all’immediatezza del vivere quotidiano, perché si sforzano di attribuire nuove “strutture” (di rapporti) a “fatti” e “processi” di cui cerchiamo di venire a capo. Solo gli ossificati, gli sclerotizzati, non distinguono tra il rinnovamento scientifico, anche soltanto tentato, e il rinnegamento puro e semplice. Noi però dobbiamo evitare l’interlocuzione sia con gli sclerotizzati che con i rinnegati, due facce della stessa medaglia, rappresentata dal fallimento e perdita di presa della vecchia prassi guidata dal superato e ormai inservibile impianto teorico.
2. Oggi non ha più alcun significato tutta la prassi e teoria del vecchio comunismo e marxismo; ormai da anni e anni sto tentando di porre in evidenza tale conclusione inevitabile. Se non hanno più significato, non bisogna però arrestarsi a mezza via; è inammissibile l’abbandono del vecchio percorso sia teorico che pratico, mantenendo ancora in piedi le vecchie denominazioni. Posso capire che, per lunga abitudine ai titoli, chi ha praticato una professione per tutta la vita venga ancora appellato con quel titolo anche quando non è più in attività. E’ a mio avviso sbagliato, ma è un errore del tutto consuetudinario e non provoca danni. Se però si capisce che comunismo e marxismo sono finiti, che la loro prassi e apparato teorico (implicante una certa visione dei “fatti” e “processi”) sono ormai ineffettuali, non consentono di capire più nulla del nuovo, non si può continuare a usarli come denominazione, perché ciò provoca effetti nocivi.
Io sono stato marxista, non rinnego quell’impostazione (perché altrimenti passerei semplicemente ad altra), la ritengo sempre un punto di riflessione per importanti rielaborazioni; non posso però più definirmi semplicemente marxista. Il marxismo vedeva due classi contrapposte lottare nel capitalismo e le identificava come borghesia (insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione) e proletariato o classe operaia (i venditori di sola merce forza lavoro dietro un salario, che rappresenta….ecc. ecc. con tutta la questione del pluslavoro/plusvalore e corollari vari). Potevano essere pensate altre contraddizioni secondarie, ma non a caso venivano così definite; esse facevano solo da supporto, prendevano in date contingenze storico-peculiari il davanti della scena, ma solo per una sorta di trasferimento della rilevanza (rivoluzionaria) dalla primaria alla secondaria venuta transitoriamente in auge, che quindi riceveva dalla primaria l’investitura di momentanea “causa principale” del sommovimento rivoluzionario.
Io invece pongo in secondo piano la questione della proprietà o non proprietà (sia pure non in senso soltanto formale, ma come autentico “potere di disporre”) dei mezzi di produzione, non mi attengo allo schema duale antagonistico primario, di cui tutto il resto sarebbe mera complicazione temporanea secondaria; ad esempio dovuta al non ancora completo sviluppo del modo di produzione capitalistico, che però dovrebbe alla lunga andare “perfezionandosi” nella direzione prevista da Marx. Aggiungo inoltre che tale previsione si è rivelata errata in radice, affermo che la cellula (non economico-produttiva, ma sociale) del capitalismo non è la fabbrica, ma semmai l’impresa; e tuttavia non quale cellula fondamentale di una società, ma solo della sua sfera economica, di cui contesto la predominanza (sia pure “in ultima istanza”) sul resto della società, il che implica la rimozione del concetto di modo di produzione capitalistico quale “nocciolo strutturale interno” della formazione sociale. Se io sostengo tutto questo, con le varie altre conseguenze che via via ne ho tratto, è ovvio che non sono più un effettivo marxista. Certamente, però, dal marxismo sono partito per tutte le mie ri-elaborazioni, non sono passato per le altre teorie (con ideologie “annesse”) nemiche del marxismo; tuttavia sono ormai oltre la soglia della teoria d’origine.
Egualmente per il comunismo; che non ha mai voluto essere, per i veri comunisti, una semplice mozione di sentimenti, una volontà di andare verso il popolo, una carità pelosa per i diseredati e i non abbienti. La lotta prevista non era tra ricchi e poveri. Il movimento comunista era convinto che il capitalismo avrebbe creato, per sua dinamica interna, una società formata in prevalenza da “produttori”, sia pure variamente gerarchizzati e con “strati cuscinetto” (i ceti medi così erano pensati; ad es. nelle “Teorie sul plusvalore”) mantenuti, per svolgere alcune mansioni utili alla società, dal pluslavoro/plusvalore dei produttori. La proprietà avrebbe perso progressivamente ogni funzione produttiva (con formazione della classe dei rentier, ecc.) e alla fine sarebbe stata esautorata dal potere ed eliminata o riassorbita nella società ormai controllata (ma perché in grande prevalenza formata) dal corpo lavorativo dei produttori associati (“dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” ne “Il Capitale”, libro III, cap. XXVII). In ogni caso, i “poveri”, i “diseredati”, gli “affamati”, facevano in maggioranza parte del cosiddetto “lumpenproletariat”. I comunisti veri li hanno sempre considerati massa di manovra dei reazionari; individui da “disperdere”, altro che “accoglierli” e coccolarli.
La mia visione, soprattutto concernente la formazione dei “funzionari del capitale”, è ben lontana da simile concezione. Posso denominarmi comunista? E in nome di che? Della mia bontà (inesistente invero) verso gli umili e oppressi, verso gli ultimi che saranno i primi? Non diciamo fesserie. Non a caso, quelli che oggi – senza più un qualsiasi orientamento teorico definito, solo per sclerosi e incapacità di cambiare – continuano a definirsi comunisti, devono poi insistere con la contraddizione principale, quella duale antagonistica. Non sanno però più dove trovarla e si limitano ad un eclettico e pasticciato affastellamento di tante contraddizioni duali prive di gerarchia e di interrelazionalità; perché in un sistema ogni interrelazione tra due elementi o campi dovrebbe essere, a sua volta, messa in relazione con le altre secondo una certa gerarchia di rilevanza dei loro effetti, stabilendo pure l’area interessata da ognuna delle varie interrelazioni duali e la relazione tra queste diverse aree.
Figuriamoci! A seconda dei momenti e delle convenienze, si blatera di conflitto capitale/lavoro, di contraddizione tra produzione e finanza, tra le multinazionali e le moltitudini, tra i dittatori e i popoli, e via dicendo banalità indegne di qualsiasi considerazione da parte di chi sappia realmente pensare. Il tutto dove confluisce? Dove si trova più conveniente accucciarsi per continuare a sproloquiare dalle cattedre universitarie, dagli “uffici di direzione” di piccoli partiti che chiedono qualche “stanza” nel “condominio” abitato dai più grandi, oggi tutti pagati dai peggiori “funzionari del capitale”. Gli avvenimenti dell’ultimo decennio hanno evidenziato in modo addirittura clamoroso la giustezza delle nostre previsioni sulla degenerazione dei rinnegati e venduti, che un quarto di secolo fa cambiarono nome e poi degenerarono in forma accelerata, divenendo oggi il vero cancro che può condurre a morte la nostra civiltà. Non metto in dubbio che esistano sempre più sparuti gruppettini di ancora “comunisti” (del puro sentimento). Tuttavia, sono destinati a sparire nel nulla o, in una ulteriore ondata (una successiva c’è sempre), seguiranno la strada dei predecessori. Non c’è nulla da fare; quando si resta abbarbicati disperatamente a quanto è ormai morto e sepolto, questa è la fine.
Oggi non funzionano più, nemmeno per un grammo o per un secondo, le vecchie contraddizioni; tanto meno ha senso discettare sulla principale e le secondarie. Dobbiamo scegliere una strada temporanea, una impostazione che valga transitoriamente fin quando non sia riuscita adeguatamente – e secondo i canoni “scientifici”; e mi auguro che non si debba sempre ripetere di quale tipo di canoni si tratti, non certamente della pretesa di “riprodurre il concreto”, il reale – la formulazione di un’altra teoria in grado di afferrare alcuni tratti salienti della nuova fase storica (di transizione) in cui siamo immersi.
3. D’altra parte, dovremmo essere consapevoli che “l’analisi comincia sempre post festum” o che “la Nottola di Minerva s’alza al tramonto”. Quindi, per favore, non sentiamoci umiliati se ancora non siamo in grado di elaborare categorie per conoscere ciò che balza in più netta evidenza solo quando date forme sociali di una fase storica di “transizione” – che avevamo sperato, ma del tutto invano, fosse al socialismo e comunismo – si saranno maggiormente “stabilizzate” (modo di esprimersi approssimativo, sia chiaro, poiché nulla è mai stabile, ma solo cangiante con tempi più rapidi o più lenti). L’importante, al momento, è abbandonare definitivamente le concezioni che da tempo immemorabile esprimono ormai solo delle speranze, dei desideri sognati. Niente più comunismo, niente più marxismo del tipo di quello dibattuto nel XX secolo. Usciamo però dal comunismo e dal marxismo senza rinnegarli; e anzi rispondendo a brutto muso a tutti coloro che – complici di stermini interminabili compiuti dal capitalismo – ci vengono a fare la lezione sui crimini del comunismo. Mi dispiace, da questo punto di vista affermo con nettezza che il “comunismo” (mai esistito in realtà nel suo senso proprio) non è riuscito a saldare il conto dei massacrati con i criminali del capitalismo.
Il “primo assalto al Cielo” è comunque da lunga pezza fallito. La dinamica sociale ha condotto da tutt’altra parte. E i “fu” comunisti hanno commesso l’unico vero grande delitto che vada loro ascritto: hanno rinnegato e tradito, si sono venduti e si sono serviti delle categorie di un pensiero e di un’azione già rivoluzionari per rendersi complici e coprire i crimini, ancora più bestiali, di nuove classi dominanti, non più così semplicemente definibili e inquadrabili come nella vecchia impostazione sia pratica che teorica. Questa la “realtà” dei “fatti” e dei “processi”. Quel “qualcosa” di duro, di non domabile a piacimento – che in essi esiste, pur se sempre sgusciante e solo acquisibile transitoriamente dal nostro pensiero – ha messo in scacco vecchie pratiche (“pratiche” e “teoriche”). Non ricominciamo dal nulla, ma dobbiamo pur tuttavia ricominciare. Quello che diciamo, quello che elaboriamo, lo è nella consapevolezza di questa “transitorietà”. Iniziamo semplicemente una strada; avendo comunque già provato molte volte la nostra capacità di “indovinare” (parola non adeguata ovviamente) gli avvenimenti in corso; certamente ben di più degli infami e ignobili simil-pensatori che hanno invaso tutti i media finanziati da classi dominanti indubbiamente criminali.
Abbiamo piena coscienza, guardando ciò che vediamo intorno a noi, di una società divisa in gruppi che comandano e altri che forniscono la “carne da cannone” (magari solo metaforicamente, ma sempre più anche letteralmente). Non è però una società divisa così come voleva il marxismo e la prassi comunista del XX secolo. Non dimentichiamo che una divisione esiste, ma ci rendiamo conto che è molto più complicata di quanto lo schema duale antagonistico – sia pure con tutte le “aggiunte”, mere ipotesi ad hoc, ipotesi cioè di banale “aggiustamento”, relative alle contraddizioni secondarie che si articolerebbero con quella principale, rimasta immutata per un secolo e mezzo – consenta di indagare. Di conseguenza, teniamo conto degli strati e segmenti di una società dei “funzionari del capitale”, teniamo conto che l’Evento del 1917 ha messo in moto altre trasformazioni in direzione di nuove società (ancora però non stabilizzatesi, come sembra proprio evidente); e tuttavia dobbiamo intanto afferrare non la presunta “contraddizione principale”, ma solo quella che balza con maggiore evidenza “empirica” agli occhi, quella che dobbiamo intanto affrontare nei suoi vari dilemmi.
Ebbene, tale contraddizione è quella che pone al centro dei “Crimini contro l’Umanità” (per usare il linguaggio con cui i Criminali Globali cercano di colpevolizzare coloro che si oppongono loro) gli Stati Uniti d’America. I prepotenti che li governano, di volta in volta, vanno identificati come il Nemico Principale, seguendo e cercando di afferrare i loro vari cambi di strategia per la preminenza mondiale. Sappiamo che contro di loro, al momento, possono ergersi soltanto altri prepotenti (del tutto minori perché meno dotati di forza), che tendono a fare gli interessi di dati gruppi tendenti al predominio. Lo sappiamo benissimo. Tuttavia, tra questi gruppi di predominio, in ogni formazione “particolare” – che, malgrado i nascondimenti operati da tutti i traditori filo-statunitensi, sono ancora paesi, Stati, nazioni – ve ne sono alcuni operanti come quinte colonne del Nemico Supremo; altri che invece, in certi paesi di più e in altri di meno, agiscono per una autonomia, maggiore o minore, da tale Nemico principale.
Certamente, operando in Italia, dobbiamo prestare massima attenzione alla strutturazione in raggruppamenti (strati e segmenti) della nostra società nazionale; pur mancando di una teoria generale delle contraddizioni interne alla formazione dei “funzionari del capitale” (una teoria in grado di sostituire infine quella ormai vetusta dell’analisi di classe e della lotta tra classi), non possiamo evitare di affrontare l’articolazione interna di una società di tipo “occidentale” (a “capitalismo avanzato”), ricca di “ceti medi” (oggi in tendenziale differenziazione “in verticale”), così com’è la nostra. Tuttavia, nel momento attuale – in cui vanno configurandosi nuovi decisivi assetti dei rapporti di forza tra aree, ma soprattutto paesi, nel mondo – ha pur sempre la prevalenza un obiettivo da dichiarare prioritario: sempre più netta autonomia nei confronti degli Usa. Essi sono ormai un grave pericolo e ostacolo non certo per il raggiungimento del socialismo e comunismo (questi temi dimentichiamoli definitivamente, trattandoli da semplici argomenti di storia di tempi andati), ma per il mantenimento dell’autonomia di ogni singola area, di ogni singolo paese; difendiamoci dalla voracità statunitense. Del resto, anche dal punto di vista interno ad ogni paese, i gruppi dominanti più oppressivi, più parassitari e sanguisughe rispetto alla maggioranza della popolazione (non del “popolo”, questa maschera di tutti i traditori), sono quelli che si pongono alle dipendenze degli Usa; da essi sono quindi aiutati a mantenere la loro preminenza interna.
Lotta decisa quindi contro gli Stati Uniti e i loro corifei [[nei corpi di ballo moderno, sono i ballerini o le ballerine delle ultime file, che accompagnano l’azione dei primi danzatori con piccoli movimenti e gesti ritmici e coreografici, senza eseguire una vera e propria danza in proprio]] nei vari paesi. Questo, in fondo, il succo dei due scritti che ho citato all’inizio; ma anche di altri che posso redigere in futuro, perché non rammento dati fatti per il semplice gusto (nostalgico) del ricordo, ma per segnalare una possibile via per il futuro. Inoltre, la memoria di eventi passati serve anche, più concretamente, a sollecitare l’odio verso i rinnegati spudorati e infami, servi di ben più di “due padroni”, che ancora vivono tra noi; e che il “poppolo” vede alle cerimonie, credendo alla loro aria bonaria, mentre sono esseri mefitici, di cui ricordare i misfatti, la vigliaccheria, l’attitudine al tradimento. Ricordiamo che questi esseri esiziali sono sempre fra noi, stanno agendo in pieno, anche in queste ore, in questi minuti. Ricordiamo questi vili e infami per odiarli con quella passione che deve sempre accompagnare la “ragione scientifica”. Altro che “oggettività” fredda e distaccata. Questa è inganno e solo inganno. Non si smaschera nessuno senza passione, ci si vende soltanto al migliore offerente.
Inutile negarlo. Come spesso avviene nella storia, quelle forze che un tempo avevano un minimo di funzione positiva – pur nell’ambito di una società di cui essi sostenevano comunque l’assetto capitalistico – diventano alla fine i più pericolosi e terribilmente negativi quando detta società arriva alla sua putrefazione. Oggi, quei settori politici ancora definiti – del tutto impropriamente – “sinistra” sono il vero cancro di una società “occidentale” (essenzialmente Usa ed Europa) in gravissima crisi, quasi mortale. Eppure, mantengono una prevalenza in campo economico come (in)culturale; questo aggrava il pericolo per l’intera umanità. Questa “sinistra”, se si desidera la salvezza, deve essere proprio soppressa con metodi definitivi. Tuttavia, chi si erge contro di essa? Un’altra forza, che non conosce il senso del ridicolo – drammatico ridicolo – definendosi “destra”. Ci salveremo solo se infine crescerà, con maggiore consapevolezza del “Tutto”, un’organizzazione politica, capace di forte presa su quote decisive della popolazione (soprattutto degli strati disagiati, non certo quella dei “quartieri alti”), che spazzi via IN SENSO LETTERALE tutto questo ciarpame politico e intellettualoide; con capacità di ripulire pure i settori economici, industriali in primo luogo. Non siamo a pochi anni dalla possibile “catastrofe”; ma nemmeno abbiamo davanti l’intero secolo XXI. Ci si sbrighi a fare un repulisti GENERALE, che resterebbe veramente nei prossimi secoli come grande pagina di storia e di rinascita di una civiltà.