UNA SINISTRA STORIA PER IL POPOLO DI SINISTRA (di Gianluca Amodio)

non annuncio canti di pace/non mi interessano i fiori dello stile/mangio ogni giorno mille notizie amare/che definiscono il mondo in cui vivo

Dal film "Terra em transe" di Glauber Rocha

[Premettiamo che con l’utilizzo della terminologia "popolo di sinistra" intendiamo riferirci principalmente a quella "moltitudine comunista", di partito e di movimento, che ha partecipato alle ultime elezioni compromettendosi con lo schieramento dell’unione]

E’ da qualche giorno che la Corte di Cassazione ha certificato il risultato elettorale. Nonostante qualche altra probabile mossa oppositiva futura del centro-destra, l’esito delle votazioni politiche è destinato, seppur di misura ed in ritardo, a rinsaldare e rispecchiare le speranze ed i desideri dello storico popolo di sinistra che acclama: <via dal governo della nazione l’oscena destra berlusconiana che ha prodotto uno sfascio in tutti i campi della vita pubblica, dalla morale all’economia!>.

Dopo che i preventivati e tanto attesi festeggiamenti post-elettorali sono stati quasi del tutto rovinati sia a ridosso della chiusura delle urne, sia durante il giorno successivo, quando l’effettiva ripartizione dei seggi ha evidenziato l’esigua differenza quantitativa che definirà i giochi parlamentari, finalmente il predetto popolo di sinistra, in ragione delle valutazioni della Cassazione, ha potuto rivendicare pienamente la propria vittoria politica, affermando: <ormai è certo, la maggioranza è nostra; pazienza se i voti di distacco risultano essere pochi per legiferare tranquillamente e sostenere senza problemi il governo. L’importante è che il bastardo abbia perso… col cavolo che i nostri accetteranno la sua grande coalizione. E comunque, quelli che sono stati eletti lo hanno voluto loro, dunque che presenzino i lavori delle camere per votare… che lavorino!>. Non abbiamo dubbi circa l’andamento del pensiero politico dei militanti di sinistra; purtroppo, le frasi virgolettate non rappresentano una nostra finzione caricaturale, quanto piuttosto la fedele registrazione dei discorsi che si odono o di molte parole scritte in circolazione, da cui traspaiono sia una spaventosa inconsapevolezza tra la militanza di base riguardo ai provvedimenti che il governo dovrà in ogni caso prendere per affrontare le tare strutturali italiane, sia l’assoluta inesistenza di una pur minima analisi articolata intorno al rapporto tattico-strategico intercorrente tra l’azione dei partiti al governo e gli interessi dei centri decisionali del capitalismo italiano. In effetti, quello del popolo di sinistra e  dei suoi comportamenti strandard – dall’ambito prettamente elettorale a quello più ampio di tipo culturale – è un fenomeno italiano a sé stante, tanto datato quanto anomalo, la cui esistenza è reale e non è da sottovalutare per niente, specie se si vuole comprendere almeno parzialmente l’odierna – ma la storia è lunga (Cfr. C. Preve, L’ideologia Italiana) – incapacità soggettiva di pensare e praticare dalle nostre parti una seria e diffusa politica comunista anticapitalistica. A riprova dell’anomalia in oggetto e dell’assenza di una valida (op)posizione critica, basterebbe accennare alla evidente incomprensione, talvolta vera e propria ignoranza, dei militanti di sinistra riguardo a quanto accaduto durante il decennio 1992-2001 in sede economica; se ci si prende il fastidio di andare a vedere cosa è successo e per opera di chi (Cfr. M. Badiale-M. Bontempelli, Il mistero della sinistra), si scopre facilmente che i medesimi personaggi attualmente osannati ed entusiasticamente supportati dal voto del popolo di sinistra – il quale li considera alla stregua di veri difensori delle sorti democratiche italiane, i soli capaci di far progredire il "sistema-paese" – sono in realtà giusto coloro che hanno prodotto il cosiddetto sfascio presente, addebitato esclusivamente invece all’altra parte politica, sempre più definita con categorie simili a quelle in uso presso i demonologi. 

D’altra parte, se lo schifo che noi proviamo per lo schieramento di centro-destra è elevatissimo – di tipo epidermico, per intenderci -, cerchiamo ancora di mantenere in vita il discernimento politico basato sull’adozione della ragione, invece che sulla classificazione dei fenomeni in base alla simpatia o antipatia. Di conseguenza, ci mettiamo alla prova  articolando qualche ragionamento. A tale fine, riteniamo inevitabile che qualunque individuo razionale che voglia parlare degli accadimenti politici degli ultimi anni, debba ammettere preliminarmente che il ceto politico che ha occupato i posti di comando dal 1992-93 fino alle elezioni del 2001, deliberando dunque in sede governativa e legislativa ed indirizzando in tal modo le dinamiche socio-economiche italiane, è stato quello oggi rintracciabile tra i dirigenti dei differenti gruppi che formano il centro-sinistra. Bene, un’ammissione del genere, una mera  constatazione, dovrebbe essere propedeutica all’assunzione di ogni posizione o scelta politica, ed invece proprio questa basilare operazione mentale di riconoscimento viene decisamente negata dall’onesto popolo di sinistra. Non ci è dato sapere quale sia la motivazione profonda determinante un comportamento di questo tipo; probabilmente, la sua individuazione pertiene agli psicologi sociali osservatori delle dinamiche politiche collettive. Tuttavia, una cosa è certa: la moltitudine delle libere singolarità con diversi riferimenti ideali e letterari si ricompone e si muove all’unisono, specie in occasione della ricorrenza elettorale; si ricompatta insomma alla maniera di un vero popolo istituzionalmente responsabile: decide di far fronte comune e di appoggiare il futuro governo dell’Unione…per salvare il paese!  Giunti a questo folle punto – una vera e propria calamità per chi si ostina a ragionare politicamente cercando di adottare seri canoni critici – vogliamo solo brevemente ricordare il contenuto storico che il metodo(?!) seguito dalla sinistra intera ha rimosso completamente. Non possiamo che iniziare la nostra sintetica rassegna se non richiamando sommessamente un aspetto contraddittorio, a tratti comico: dopo le inchieste giudiziarie sulle tangenti ai politici avviate a partire dal ’92 principalmente dalla procura di Milano, per non pochi anni la lotta politica di sinistra si è svolta intorno all’idea per cui la dirigenza proveniente dal disciolto P.C.I. era moralmente superiore a quella degli altri partiti, in particolare ai corrotti e fin troppo mondani socialisti; piccolo paradosso iniziale: G. Amato, ex collaboratore di ferro di Craxi, è non da oggi uno dei personaggi più influenti nei Democratici di Sinistra, strenuo fiancheggiatore di D’Alema nelle note sortite di stampo riformistico. La ragione di questo avvicinamento? Stando alle apparenze, si dovrebbe riscontrarla nella riallocazione ideologica compiuta a livello europeo dal partito dei D.S. verso la metà degli anni ’90, quando si straparlava di socialismo e, come detto, Amato era per l’appunto una personalità socialista di spicco. Tuttavia, la ragione essenziale va vista nella capacità dimostrata da questo politico nel gestire da presidente del consiglio una delle situazioni più caotiche per il sistema capitalistico italiano dal dopoguerra, i cui sintomi più visibili furono l’uscita della lira dalla rigidità dei cambi imposta dal Sistema Monetario Europeo nel settembra ’92 e la mole del debito pubblico in continuo rialzo, ben oltre il rispetto dei parametri fissati in ambito europeo. Alla fine, gli effetti della svalutazione monetaria decisa formalmente in autonomia dalla Banca d’Italia – in effetti in piena sintonia con il governo – produssero una immediata ripresa produttiva, come da tradizione, riportando i saggi di profitto celermente verso l’alto; nel frattempo però, la manovra finanziaria adottata dal socialista Amato, la quale nel complesso raggiungeva la strabiliante cifra di oltre 90 000 miliardi di lire, rappresentò una formidabile scure in capo a tutti i settori pubblici, tanto che la si potrebbe ritenere il punto di inizio – ma anche di non ritorno – della fine del ruolo attivo dello stato in campo economico. Si è detto della rilevanza assunta all’epoca, in occasione delle forti turbolenze valutarie, dalla  banca centrale italiana; è bene precisare però che il governatore che presiedeva l’istituto nel ’92, C. A. Ciampi, attuale presidente della repubblica,  nel 1993 formerà un governo "tecnico" che troverà un largo consenso, dal PDS a tutti i centristi. In inevitabile continuità con il "risanamento" della finanza pubblica, fu apprestata una ingente manovra finanziaria per ben altri 70 000 miliardi di lire. Tuttavia, i provvedimenti che la memoria del popolo di sinistra dovrebbe riportare in superficie sono altri due: dapprima il cosiddetto "accordo di luglio", vero e proprio modello di riferimento per le relazioni industriali di natura triangolare e concertativa. Ancora oggi sostanzialmente operativo, esso pose le basi per quel graduale e consistente impoverimento relativo che ha coinvolto i ceti a reddito medio-basso italiani fino ad oggi: fu introdotto, contando sul convinto assenso della solita triplice confederale, il meccanismo dell’indicizzazione salariale agganciata all’inflazione programmata in ragione delle stime economiche prodotte dal governo. Con buona pace dell’economista E. Tarantelli, vero ideatore e fautore del marchingegno, il tentato furto avrebbe dovuto essere del tutto evidente ai lavoratori, ed in effetti qualche sommovimento si verificò – come d’altronde aveva preso il volo qualche bullone diretto alla CGIL di B. Trentin l’anno precedente a causa dell’abolizione della scala mobile residua – . Tuttavia, l’atavico ed onnipresente senso di responsabilità dei compagni di provenienza "picciista" continuò a fare breccia, anche se in quell’occasione l’interesse nazionale dai "comunisti italiani" storicamente tanto acclamato e difeso (Cfr. C. Preve, L’deologia italiana) aveva ormai perduto ogni colorazione tendente al rosso, assumendo finalmente le definitive grigie sembianze della neutralità tecnica-tecnocratica. L’altro elemento che dovrebbe sovvenire criticamente alla mente dei sinistroidi, è il piano di privatizzazioni delle banche di proprietà pubblica, portato a compimento proprio durante il governo Ciampi, quando la Comit ed il Credito Italiano, fino ad allora in dote all’Iri, furono poste sul libero mercato, con la duplice intenzione di accrescere la borsa valori nostrana, tradizionalmente piccola e stagnante, e di permettere ad alcuni grandi gruppi capitalistici italiani di gestire e movimentare ingenti disponibilità finanziarie, ottenendo finanziamenti a debito oppure investendo attivamente nelle quote privatizzate. Un particolare che ci preme sottolineare è la stretta vicinanza, oltreché la reciproca identità di interessi, di tre personaggi politici attivissimi durante tutto il ’93 nel dirigere la suddetta operazione di privatizzazione: Ciampi, lo si è detto, fungeva da presidente del consiglio; poi vi era Romano Prodi, fresco di nomina a capo dell’Iri, una carica dipendente dalla volontà del governo; infine, alla presidenza del comitato ministeriale appositamente creato per effettuare le privatizzazioni si trovava M. Draghi, che oggi dirige la Banca d’Italia. Non vi è alcun dubbio che all’epoca si produsse una forte sinergia e si verificò una piena convergenza di interessi e di vedute tra l’attuale governatore della Banca centrale (all’epoca nei ranghi del ministero del tesoro) e il futuro presidente del consiglio Prodi (vero e proprio liquidatore nei primi anni ’90 delle proprietà  dell’Iri), non dimenticando l’abile regia di C.A. Ciampi, la cui carriera storica ha attraversato appieno i vertici dei più rilevanti apparati statali, dalla Banca d’Italia alla presidenza della repubblica, passando per la presidenza del consiglio ed il ministero del tesoro. Dunque, non vi dovrebbero essere incertezze di alcun tipo circa la rilevanza del contributo che simili personaggi, grazie alle forze politiche retrostanti – l’odierno centro sinistra – hanno fornito alla riconfigurazione degli assetti capitalistici italiani… e visto quanto accaduto in passato, il futuro dovrebbe essere per lo meno da lezione… invece, il popolo di sinistra pare proprio ostinarsi nel non considerarli "solamente" alla stregua di agenti capitalistici, seppur di tipo particolare, "politico-strategico" (Cfr. La Grassa, Discussione sugli agenti strategici). In definitiva, il ruolo da essi svolto è quello di una grande borghesia di stato (Cfr. G. Fullin, Della "Borghesia di Stato") che ha gestito una importante quanto delicata fase di transizione dell’accumulazione capitalistica italiana, muovendosi in proprio e rispondendo personalmente dei rischi relativi all’azione di governo, ed è questo, ci pare, il senso che si deve attribuire alla partecipazione diretta, in prima persona, dei cosiddetti tecnici al gioco politico. Certamente, questo spezzone di borghesia pubblica – che dal vertice osservato si espande scendendo piramidalmente  ricoprendo tutti i gradi dei diversi organigrammi politici e sindacali – ha negoziato il riassestamento delle condizioni (ri)produttive sistemiche con i maggiori gruppi capitalistici operanti in quanto aziende private, non foss’altro che per ottimizzare l’allocazione delle attività pubbliche in via di privatizzazione.  In tal senso, ovvero nello svolgimento dell’azione spartitoria – che risulterà di corto respiro, tatticamente fallimentare -, si è ben distinto proprio quel ceto politico che non più di quindici anni fa si autoproclamava  comunista – nonostante molti da tempo lo definissero più appropriatamente solo "picciista" -, col quale il popolo di sinistra ha continuato a mantenere una relazione ambigua contraddistinta da "sofferti" avvicinamenti e successivi allontanamenti: <alla fine sono pur sempre stati dei compagni, anche se oggi sbagliano…> – a tal proposito, per visualizzare la suddetta ambivalenza è significativa l’immagine del festoso abbraccio collettivo, popolare e democratico che ricorre durante le marce per la pace nel mondo, frequentate con puntuale regolarità anche da chi ha condotto l’Italia in guerra, posizionandola attivamente nei ranghi della Nato! Comunque, abbandonando i vergognosi cieli della pace perpetua intesa esclusivamente in senso noumenico e passando al viscido terreno degli affari terreni, vogliamo solo brevemente richiamare le vicende della privatizzazione della Telecom e l’ingarbugliato reticolo di interessi politici ed economici che ha avuto seguito, di cui la militanza di base o ignora l’esistenza oppure è colpevolmente dimentica: la storia inizia quando l’imprenditore Colaninno, allora a capo dell’Olivetti, in compagnia del capitalista finanziario Gnutti, responsabile dei movimenti della finanziaria Hopa, ricevettero in dono dal governo D’Alema il complesso industriale Telecom, di lì a poco comunque passato di mano e giunto in quota alla Pirelli. Per l’occasione – una vera e propria iniziazione capitalistica per chi aveva avuto la colpa di essere stato comunista, ma ormai era teso solo ad introdursi nelle stanze del capitalismo (do you remember Mr. Cuccia & D’Alema together?) -, gli imprenditori partecipanti alla spartizione del bottino furono qualificati come "capitani coraggiosi". Chissà come però, dopo qualche anno, a riprova dell’assenza di codardia, che nel frattempo non aveva di certo impedito l’incasso della cessione Telecom lautamente valutata, uno degli impavidi di cui sopra, il finanziere politicamente ubiquo Gnutti, lo si ritroverà al centro del campo di relazioni imbastite affinché la Banca Nazionale del Lavoro, altro istituto ex statale, non addivenisse sotto il controllo di qualche gruppo bancario straniero. In vista di tale finalità era massicciamente intervenuto il gruppo assicurativo Unipol, riconducibile in tutto e per tutto a quelle brave persone che non sono altro i Democratici di Sinistra. L’esito finale di questo tentativo posto in essere per arginare l’arrivo dei dominanti stranieri non ha avuto riscontri positivi, e se non sono approdati i capitali del Banco di Bilbao, alla fine sono giunti improvvisamente ma con successo quelli francesi di BNP-Paribas. Si è tanto discusso della validità del piano industriale presentato da Unipol, della sostanziale convenienza che sarebbe scaturita dalla creazione di un grande ed omogeneo polo bancario-assicurativo, mai sorto in Italia in precedenza per degli storici veti incrociati. Comunque, oltre ai discorsi basati sulle previsioni riguardanti la ipotetica redditività attesa, una cosa ci appare indubitabile: i dirigenti della sinistra sono completamente immersi nel processo di creazione del valore a livello strategico politico-finanziario, ovvero in un ambito "alto", difficilmente scrutabile, le cui dinamiche di movimento e di potere sono talmente astruse che solo la lettura di qualche verbale giudiziario – o del contenuto di qualche telefonata scientemente pervenuta alla stampa, del tipo "Fassino & Consorte" – può permettere l’emissione di un giudizio preciso.  Ancora un particolare, a chiusura dell’insieme di vicende cui si è accennato: il suddetto finanziere Gnutti, all’epoca dei fatti, si trovava casualmente a ricoprire contemporaneamente la carica di membro del consiglio di amministrazione sia in Unipol che nel Monte dei Paschi di Siena, banca sulla quale è futile aggiungere qualcosa. In poche parole, l’ex "capitano coraggioso", divenuto in seguito un mero capitano di ventura, assurto in odio per il caso Unipol proprio ai moralisti di sinistra cui è apparso un rappresentante dell’oscena speculazione, alla fine si deve constatare che ben frequentava entrambe le casseforti istituzionali dei fautori-campioni del progresso nazionale. Ci sembra allora giusto ed inevitabile, giunti a questo punto del discorso, rilevare la presenza di un enorme cortocircuito politico – e la definizione è di quelle gentili! – che attraversa l’intero popolo di sinistra e che non riteniamo assolutamente addebitabile ad una nostra errata valutazione o, peggio ancora, ad un nostro pregiudizio ultra radicato: da una parte, come chiunque potrebbe facilmente accertare tramite un mero scambio di parole, i militanti di sinistra perseverano nel pensare i provvedimenti presi dagli agenti capitalistici pubblici come delle azioni prodotte in  difesa dell’interesse generale, tradizionalmente contrapposto a quello dei singoli capitalisti ( stato Vs mercato); dall’altra parte, i sinistroidi sono pur costretti ad ammettere il carattere particolare – nel senso "partigiano" e mercantile – del profitto tratto da alcuni destinatari dei medesimi provvedimenti di privatizzazione, in sintesi da parte degli accaparratori dei beni posti in vendita dai differenti governi. Si riscontra insomma che le considerazioni del popolo di sinistra sull’azione statale in ambito economico sono sospese tra l’inevitabile contingenza di interessi particolari e l’irrinunciabile permanenza dell’interesse pubblico a supporto dell’agire statuale, espellendo del tutto dalla riflessione ogni possibile analisi che veda l’organizzazione statale al di là del suo ruolo di regolatore ciclico, e che quindi la riconosca  quale puntuale elemento necessario ad imprimere lo sviluppo al processo accumulativo capitalistico.   Riconosciamo, d’altronde, che la persistenza nella cultura di sinistra (compresa quella estrema) di questo tipo di contraddizione oppositiva incentrata sul contrasto particolare/generale è atavica, presente finanche durante periodi passati ben più duri nella pratica e molto più proficui ed onesti nella ricerca teorica. Per cui, sarebbe assurdo aspettarsi una seria e diffusa analisi di questa problematica al giorno d’oggi, vista l’esiguità delle forze in circolazione. Dal canto nostro, ci limitiamo a rilevare che l’opposizione particolare/generale intorno al ruolo assunto dall’organizzazione statale deve essere giocata senza remore in relazione alle dinamiche strutturali presenti sia in una formazione sociale capitalistica, sia rispetto alla sua  radicale ridefinizione in una eventuale formazione sociale di transizione (Cfr. C. Preve, Note sul maoismo). Probabilmente, abbiamo ampliato eccessivamente lo spettro della discussione, ma tramite il richiamo all’ardua tematica dello stato ci apprestiamo a porre un interrogativo sì retorico, ma essenziale per la prosecuzione dei nostri pensieri: cosa onestamente può attendersi il popolo di sinistra da un’azione di governo unitaria, ovvero da una cogestione istituzionale degli apparati statali esercitata in questo momento storico? Difficile dirlo!In effetti, a noi basta ed avanza la rassegna dei misfatti compiuti nel passato per non desiderarne di simili nel futuro.  Giusto a proposito della nostra sintetica e parziale ricostruzione degli eventi passati, vogliamo precisare che l’enfasi posta nello scritto in relazione al processo di privatizzazione non deve essere confusa con una nostra accettazione acritica delle categorie "proprietà pubblica" e "statalizzazione". In breve: tanto è stato di matrice capitalistica l’Iri delle origini fasciste quanto quello dei successivi anni repubblicani, e naturalmente lo stesso vale per le "gloriose" nazionalizzazioni degli anni ’60!   Piuttosto, abbiamo sottolineato la continuità del fenomeno solo perché l’attuale "sinistra radicale" – leggi P.R.C. – non fa altro che blaterare contro il ciclo(ne) privatistico neoliberistico, ma poi, in deficit assoluto di coerenza, si presenta nella stessa coalizione di governo che pragmaticamente, senza fanfara ideologica made in Usa, ha privatizzato a più non posso, dopo aver notevolmente peggiorato il tenore di vita dei lavoratori appartenenti ai ceti medio-bassi, ed in quest’ultimo caso la responsabilità del P.R.C. è anche diretta: vedi, ad esempio, il "pacchetto Treu"!).  Il passato prossimo, dicevamo, dovrebbe risultare ai nostri occhi abbastanza nitido, ma il popolo di sinistra non la pensa allo stesso modo, e dal campo dell’epistéme ci fa ripiombare in quello della magmatica doxa. Opinione per opinione, proviamo allora a volgere lo sguardo dalla scienza del passato verso l’arte del futuro politico che attende i militanti di sinistra: siamo alla fine di aprile, il governo nei migliori dei casi diverrà operativo dopo metà maggio, dopo di che la compagine ministeriale, qualunque sia la sua composizione, dovrà in tutta fretta (entro settembre) occuparsi di redigere il Dpef, approntando molto probabilmente in contemporanea una manovra finanziaria correttiva 2006 che potrebbe ammontare a più di 7 miliardi di euro. Naturalmente, entro dicembre la finanziaria 2007 dovrà pur trovare forma e sostanza… Insomma, il governo, in poco meno di un anno, dovrà attuare tagli alle spese ed aumentare la fiscalità (quale?!). Ipotizzando un andamento della produzione basso e costante – le ultime stime dell’ Fmi sono di 1,2% di Pil per il 2006, e di poco più per l’anno seguente -, il rapporto disavanzo/produzione nazionale tenderà verso il 4% per il 2006 ed il 4,3% nel 2007, sempre ben oltre i canonici parametri di Maastricht, e questo non potrà che produrre tensioni e pressioni sul governo sia in sede tecnocratica europea che in ambito internazionale in occasione delle valutazioni promosse dalle agenzie di rating sulla sostenibilità-solvibilità del debito pubblico. A tale riguardo, evidenziamo che se nel 1992 il debito pubblico incideva sul Pil per il 108,6%, il prossimo anno si stima che si attesterà intorno al 107%. Pensiamo che la serie numerica riportata sia decisamente impressionante se considerata alla luce delle inevitabili incombenze governative future; quindi, ci chiediamo da quale capitolo di spesa e da quale dicastero ministeriale potrà prendere vigore una prassi riformistica come quella sbandierata durante la campagna elettorale dai massimi rappresentanti del popolo di sinistra. Ci sembra proprio che tiri una brutta aria, come quella del ’96, satura di sacrifici, i quali come da copione verranno non imposti…ma concertati! Dieci anni fa lo spauracchio fu l’entrata nell’eurozona, domani sarà quello di uscirne coercitivamente. All’epoca, grazie ai partiti di sinistra e al connesso popolo di militanti, la già citata "legge Treu" introdusse massicce dosi di flessibilità, ma poi è intervenuta la legge Biagi – Requiescant In Pace – ed il centro sinistra l’ha assunta come modello negativo portatore di precarietà. Ecco!, forse questo è un terreno sul quale il popolo di sinistra potrà farsi valere, ottenendo una probabile e meritoria conquista sociale: l’abrogazione dell’indecente "legge 30" ripristinerà  la contrattualistica precedente, notoriamente avversa ad ogni pratica di sfruttamento del lavoro. I lavoratori ringrazieranno!