GLI STRATEGHI DEL CAPITALE

Gianfranco la Grassa è sicuramente tra i pensatori più innovativi del pensiero marxista, e, insieme al filosofo Costanzo Preve (che ha ultimamente pubblicato un interessante saggio dal titolo “Il Potere del Popolo” Arianna ed.), si è impegnato nella decostruzione di quelle categorie marxiane (o meglio, dell’uso che ne ha fatto la marxologia ufficiale) arenatesi sulle sponde dello storicismo e dell’economicismo. La Grassa individua quale fattore dominante, di dinamicità estrema, del modo di produzione capitalistico, il conflitto strategico interdominanti, allontanandosi così dalla pletora di teorizzazioni sul conflitto Capitale/lavoro(quale contraddizione “ossea” alla base della futura dissoluzione sistemica) e sulla Classe Operaia (con annessi scivolamenti ipersoggettivistici e moltitudinari, laddove l’incapacità della stessa di fare la rivoluzione è divenuta inequivocabile con la dissoluzione dell’URSS) quale formazione intermodale per il passaggio ad una società non capitalistica.

Pubblichiamo la recensione al libro di Edoardo De Marchi per il Manifesto del 28 marzo, invitandovi, ovviamente, a comprarlo.

Gli strateghi del capitale», un saggio del filosofo Gianfranco La Grassa, con un occhio fisso sui risvolti politici della dimensione teorica

EDOARDO DE MARCHI
Nel panorama teorico-politico dell’ultimo ventennio Gianfranco La Grassa, pur occupandosi dei problemi più generali delle dinamiche capitalistiche, lo ha sempre fatto con l’occhio attento ai risvolti politici della dimensione teorica. Nella consapevolezza che la tradizione marxista era una formazione ideologica irrevocabilmente datata, egli ha però sempre considerato il proprio percorso all’interno del marxismo come una garanzia da fughe frettolose e regressive. Scostandosi dalla linea interpretativa del «capitalismo lavorativo» sostenuta negli anni ’80 mira oggi a porre in primo piano la conflittualità intercapitalistica. Gli strateghi del capitale (manifestolibri, pp. 191, * 18) sintetizza tali recenti sviluppi, evidenziando i presupposti teorici e le conseguenze della svolta, che pur mantiene la critica già rivolta alla visione marxiana relativa ai limiti storici del capitalismo. Secondo La Grassa, Marx vedeva infatti una spaccatura della società fra una classe di rentier e l’insieme di coloro che creano la ricchezza come conseguenza dello sviluppo capitalistico. Un insieme costellato da contraddizioni e diversità di interessi, comunque minori rispetto al crescente antagonismo nei confronti dei rentier. Di contro ad essi si sarebbe formato un lavoratore collettivo, il «soggetto rivoluzionario» della trasformazione in direzione del comunismo. La tesi di La Grassa ai tempi del capitalismo lavorativo sottolineava l’erroneità di tale previsione sostenendo che il veicolo dei rapporti capitalistici entro l’impresa non era più costituito dalla proprietà quanto invece dalla piramide burocratica aziendale, il principale agente dell’estrazione di plusvalore. Tale posizione viene oggi ridimensionata. Per la Grassa, il capitalismo non ignora certo la necessità di massimizzare il profitto, ma non la considera come fondamentale e la subordina come mezzo ad altri fini strategici. Sarebbe tuttavia riduttivo pensare all’innovazione (organizzativa e tecnologica) come strumento per minimizzare il costo di riproduzione della forza-lavoro e massimizzare per contro l’estrazione di plusvalore relativo. Piuttosto, l’innovazione «promuove l’apertura di interamente nuovi spazi economico-sociali, e culturali, in cui si precipitano colossali investimenti, con il periodico rinfocolarsi della competizione intercapitalistica (tra dominanti), che sgretola il monopolio pur nell’ambito di una crescita delle dimensioni imprenditoriali». La continua apertura di nuovi spazi economici costringe i gruppi capitalistici a un’incessante lotta per la supremazia, acquistando posizioni di predominio strategico attraverso le alleanze e/o la lotta, escludendo gli avversari dall’accesso a determinati settori, oppure fiaccandoli e costringendoli ad accettare accordi in una collocazione subordinata. La razionalità strategica con cui vengono gestiti tali conflitti e gli apparati in cui essa si incarna sono sovraordinati alla razionalità tecnico-strumentale e agli apparati che reperiscono le risorse, i quali rappresentano in definitiva strumenti in vista di un fine più alto e complesso. Una volta acquisito che la molla dello sviluppo capitalistico non è il conflitto tra dominati e dominanti, ma quello interno a questi ultimi per la supremazia e che non è mai stato in atto un processo oggettivo che determina la formazione del lavoratore collettivo di marxiana memoria, quali conseguenze ne derivano nel ripensamento delle tradizioni politiche e delle strategie del movimento operaio? Per rispondere a tale interrogativo, l’autore torna a Lenin, o meglio a quella che La Grassa considera la vera nuova acquisizione leniniana, pur se mai portata al livello della esplicita teorizzazione, ossia una concezione della rivoluzione anticapitalistica in cui la classe operaia perde il suo posto decisivo e quasi esclusivo. Pur mantenendosi all’interno della distinzione tradizionale tra classe in sé e per sé e non disdegnando in certi casi spiegazioni ad hoc come quella dell’aristocrazia operaia, Lenin mise di fatto in discussione la centralità del soggetto della trasformazione pensato dal marxismo sostenendo con chiarezza che la classe operaia, lasciata alla sua spontaneità, non aveva consapevolezza dei suoi compiti rivoluzionari, prerogativa piuttosto del partito come avanguardia. Se tale risposta alla lunga non ha dato gli esiti sperati, ciò non deve far tornare indietro rispetto all’acquisizione decisiva: la contraddizione capitale/lavoro, lasciata a se stessa, è semplicemente capace di lotte redistributive, ma non di rivoluzionare l’assetto dei rapporti di produzione capitalistici. Il passo successivo, mai fatto da Lenin, consiste nel riconoscimento che quella trasformazione non è necessitata da alcuna legge storica, in quanto non intrinseca alla dinamica della formazione sociale capitalistica. Ciò non significa che non esistano le possibilità di una svolta rivoluzionaria, ma che le situazioni di crisi non si configurano come processi indirizzati ad uno sbocco anticapitalistico. L’ineguaglianza dello sviluppo capitalistico provoca infatti congiunture storiche di forte crisi, soprattutto nelle situazioni in cui si addensano le contraddizioni tra gruppi dominanti; crisi che ne portano in primo piano la divaricazione tra pochi gruppi privilegiati e la maggioranza della popolazione, ma non è detto che questa percepisca le radici delle proprie difficoltà e ne tragga adeguate conseguenze. Nella molteplicità di giochi possibili e di risultati la scelta rivoluzionaria «è effettivamente soggettiva e chi la compie non rappresenta alcuna avanguardia di una classe sociale cui il processo storico avrebbe affidato compiti specifici (e salvifici)», cosi che la ricerca di un’alternativa al capitalismo mantiene il carattere di una scommessa dall’esito aperto.

il manifesto
28 Marzo 2006