RIFORMA DELLE PENSIONI, FONDI INTEGRATIVI E INVESTIMENTI A RISCHIO
Sembra davvero strano come nella TV pubblica delle Fictions e dei Reality Shows a caterva riescano a sopravvivere programmi d’informazione pubblica come “Report” di Rai 3.
La televisione pubblica dovrebbe fare soprattutto questo visto che è un servizio a pagamento di canone, invece, questo stesso programma viene spesso boicottato dagli sponsors (come accadde dopo l’indagine sulla truffa delle acque minerali) i quali, ovviamente, non possono essere contenti della distruzione della loro immagine.
Ma veniamo a ieri sera. I vari giornalisti freelance che lavorano a Report si sono presi la briga di capire se i fondi pensione (sui quale a partire dal 2008 finirà il TFR dei lavoratori con il gioco del silenzio/assenso) sono davvero in grado di integrare la pensione concessa dall’INPS per la vecchiaia e che, riforma dopo riforma, giungerà a coprire solo il 40% dello stipendio, rispetto all’attuale 80%.
In realtà la prima cosa che balza agli occhi è l’enorme massa monetaria che i gestori dei fondi si troveranno tra le mani, circa 13 mld di euro. Si tratta di una cifra cospicua con la quale ci si può muovere in borsa comprando, vendendo, differenziando. Il problema è che nonostante si compri, si venda e si spalmi il rischio su svariati investimenti, alla fine i fondi fanno sostanzialmente perdere (un assicurato investimento…a perdere!) rispetto ai più sicuri investimenti in BOT, CCT e BTP poco redditizi ma che non ti corrodono il fegato.
Ovviamente, le banche, le società di gestione dei fondi integrativi e le assicurazioni sono tutte collegate e sono proprietarie di pacchetti azionari trasversali con un intreccio di interessi che fa vincere sempre il banco e fa perdere gli scommettitori. I costi delle operazioni che non fruttano non pesano sul loro portafoglio, ma su quello composto dai prodotti finanziari venduti ai risparmiatori. Il San Paolo di Torino ha interpretato nel migliore dei modi questo raggiro, difatti vendeva pacchetti ad alto rischio ai clienti della banca e con il denaro rastrellato faceva scommesse alquanto rischiose in cerca degli investimenti più redditizi. Nel frattempo aveva creato un fondo sul quale faceva confluire i guadagni utilizzando un geniale escamotage, vale a dire, non dichiarava all’inizio dell’operazione quali soldi stesse utilizzando per l’investimento (quelli dei risparmiatori o del proprio portafoglio) ma lo faceva solo ad investimento concluso. Quindi, se l’investimento fruttava la banca dichiarava di aver rischiato in proprio, mentre se i titoli si deprezzavano, il tonfo finanziario veniva scaricato sui fondi costituiti con i soldi dei clienti. Naturalmente, nonostante le denunce alla Consob e una multa del Ministero, il San Paolo non ha pagato un centesimo a nessuno perché il ricorso è arrivato fuori dai tempi stabiliti dalla legge. Ancora una volta i nostri amministratori si rivelano fin troppo distratti.
Ma la questione non è ristretta al sono San Paolo, quasi tutte le banche sono lanciate nel nuovo business, tra queste anche Banca Intesa di Bazoli. Ai promotori finanziari i giornalisti di Report hanno chiesto se gli investimenti che proponevano ai clienti erano sicuri e redditizi, ma la risposta era sempre la stessa e cioè né l’uno né l’altro. Peraltro la Banca invitava i promoters a scoraggiare l’acquisto, da parte dei clienti, dei titoli del debito pubblico (con la scusa del loro rendimento infimo) e li invogliava a puntare soprattutto sui propri prodotti finanziari ad alto rischio (celando ai malcapitati i costi reali e gli svantaggi in caso di caduta del titolo in borsa). Ma le banche, si sa, puntano a fare profitti come ogni altra impresa, operando nel marxiano circuito del D-D’. Più profitti equivalgono a maggiore capacità di approntamento delle strategie volte al potere e al dominio sulla società, ovviamente operando non nell’ambito della produzione di beni ma nel settore dove il denaro riproduce sé stesso.
Chiaramente le banche sono tutte uguali, e, la tua banca, non è mai diversa (come, invece, recitava uno spot di questi ultimi mesi) per cui tutte sono invischiate nell’arraffamento dei risparmi della “gente”, bene diceva insomma B. Brecht: “c’è più dignità nello svaligiare una banca piuttosto che nel fondarla”.
Ma torniamo al punto di partenza, la (contro)riforma delle pensioni che ha previsto, tra i tanti cambiamenti, anche lo storno del TFR ai fondi integrativi con la regola del silenzio/assenso, si dice per una vecchiaia più sicura, ma “si dice” appunto( i più attenti avranno già capito di che razza di riforma si tratta).
Sulla riforma delle pensioni e del TFR ci hanno messo le mani un po’ tutti quanti, da destra e da sinistra (quest’ultima con più vigore), e le riforme sono sempre andate nel senso di una diminuzione degli oneri a carico dello Stato, o meglio, dell’Istituto pubblico (INPS) che eroga i trattamenti pensionistici. Certo, non possiamo qui percorrere tutte le tappe legislative che hanno riformato il sistema pensionistico in Italia, ma rimandiamo opportunamente ad un qualsiasi manuale di Diritto del lavoro e Legislazione Sociale. Concentriamoci invece sulla riforma del TFR.
Attualmente la determinazione dell’importo del TFR si basa su accantonamenti di quote della retribuzione spettante in ciascun anno, sommati e indicizzati (75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo accertato dall’Istat rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente).
Il TFR ha sempre avuto lo scopo di differire una parte della retribuzione alla cessazione dell’attività lavorativa per superare le difficoltà economiche, che eventualmente, possono derivare al lavoratore dalla conclusione dell’attività lavorativa medesima (ricordiamo che del TFR può anche essere richiesta un’anticipazione, non superiore al 70%, per spese sanitarie o per l’acquisto della prima casa). Si tratta, insomma, di un risparmio forzoso imposto dallo Stato così come si impongono le cinture di sicurezza sulle auto per la salvaguardia dei guidatori. Tale principio viene, però, ridimensionato con il D.Lgs 124/93 istitutivo delle forme pensionistiche complementari. Quindi, con l’entrata in vigore di tale D.Lgs, tutti i lavoratori impiegati a partire da questa data, una volta optato per l’adesione al fondo, sottostanno alla regola dell’integrale e obbligatoria devoluzione allo stesso degli accantonamenti annuali del TFR spettanti. La L. 243/03 ha successivamente previsto l’integrale devoluzione al fondo pensione degli accantonamenti del TFR con il meccanismo del silenzio/assenso. Ma se un lavoratore non esprime entro 6 mesi la sua volontà di aderire ad un fondo pensioni specifico dove vanno a finire i suoi soldi? Su quale fondo pensioni? La normativa dispone allora un privilegio a favore di quei fondi individuati o promossi dalle Regioni, tramite le loro strutture pubbliche o partecipate, o i fondi negoziali o aziendali o, ancora, i fondi cooperativistici. La legge impone, inoltre, che al lavoratore devono essere forniti tutti gli strumenti informativi necessari al fine della verifica dei rendimenti effettivi del capitale investito e dei rischi connessi all’investimento stesso. Peccato che, come abbiamo potuto vedere ieri sera, se va bene il capitale si mantiene intonso, più facilmente si possono perdere dei soldi.
E’ evidente che gli investimenti sono vantaggiosi solo per i decisori delle strategie finanziarie (banche, assicurazioni, società di gestione finanziaria) mentre il popolo “che non è mai un cazzo”, per dirla con le parole del prete eretico del film “Il marchese del grillo”, si trova sempre tra l’incudine dello Stato e il martello delle strategie interdominanti.
Detto per inciso, la maggior parte delle società che dovrebbero vigilare sui bilanci delle aziende quotate, sulle quali i nostri “bravi” gestori dell’investimento metteranno i nostri risparmi di una vita, sono le stesse che dichiaravano la solvibilità di Parmalat e Cirio quando queste imprese erano già belle che fallite. Persino il fondo COMETA, che gestisce i fondi dei metalmeccanici, si affida ai giudizi di solvibilità emessi da questi lestofanti, e alle banche che usufruiscono dei relativi servizi (e che, in entrambi i casi citati, non mancarono di disfarsi delle azioni nel proprio portafoglio qualche mese prima del crack). Ancora una volta siamo in ottime mani.