RIPENSARE E NON RESTAURARE IL MARXISMO
La storia dovrebbe sempre insegnare qualcosa, se non altro per evitare di incorrere negli stessi errori che, nel caso del marxismo storico, insieme ai desideri e alle aspettative delle masse diseredate hanno determinato il crollo di un impianto teorico che si pensava definitivo e dato una volta per tutte.
I due cancri che hanno afflitto il marxismo e che lo hanno ridotto ad un moribondo devono essere individuati in due prospettive teoriche – alternatesi quanto a presa sugli strati intellettuali che se ne facevano fautori e depositari, nonché traduttori per il più vasto movimento comunista – quali sono l’economicismo e il politicismo.
Cerchiamo di analizzare brevemente queste due derive del pensiero marxista che, per quanto distanti negli esiti ultimi verso i quali protendevano, erano legate tra loro come terminali estremi di una stessa logica che il filosofo Costanzo Preve definirebbe “antitetico-polare”.
Il marxismo economicistico, schiacciato com’era sulla centralità dei rapporti proprietari nell’ambito del sistema di produzione capitalistico e sulla forma di merce dispiegantesi in tutta la sua piena realtà, divaricava la sua analisi su due elementi ritenuti determinati per la comprensione del modo di produzione capitalistico: 1)le unità produttive in concorrenza sul mercato 2)il rapporto conflittuale tra possessori dei mezzi di produzione e forza-lavoro salariata non proprietaria.
Mentre la prima contraddizione portava a definire la classe capitalistica come una massoneria unitaria dove le contraddizioni, seppur esistenti, venivano ricomposte in virtù di coordinate di fondo legate alla riproducibilità sistemica(il marxismo economicistico era, pertanto, interessato solo a seguire la direzione dei processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali, le cadute del saggio di profitto e la validazione della teoria del valore-lavoro tramite complessi calcoli matematici che facessero letteralmente tornare i conti circa la trasformazione dei valori nei prezzi (di produzione)), la seconda assumeva una visione deterministica che, partendo dalle stesse contraddizioni insite nel processo produttivo capitalistico, avrebbe inevitabilmente condotto alla formazione di un soggetto antagonistico e unitario definito “lavoratore collettivo cooperativo”(G.I.), dal primo ingegnere all’ultimo manovale. La sintesi sistemica tra le due separazioni veniva affidata ad un organo terzo di ricomposizione degli antagonismi di classe che, in virtù della sua natura mediatoria, riconduceva ad unità sia i conflitti interdominanti sia quelli tra decisori e non decisori. Ovviamente essendo lo Stato strumento specifico della borghesia, tale mediazione non avrebbe potuto che essere sbilanciata e ideologica, nel senso che Marx attribuiva alla parola. Come si evince da tale disamina la sfera economica veniva considerata come determinante in ultima istanza, mentre la politica e l’ideologia (nonché la cultura) erano ritenute un coacervo di sovrastrutture tese al nascondimento e alla mistificazione dei reali processi dipanatesi nell’ambito della struttura(economica). Ma ben presto tutte le supposizioni date per scontate da questa teoria verranno a cadere: non si ha menzione di nessuna concentrazione finale che abbia ridotto la società ad una massa di diseredati contro un trust di onnipotenti capitalisti cedolari, i rapporti di proprietà, così come venivano pensati, non si sono rivelati determinanti nella polarizzazione del conflitto tra sfruttati e sfruttatori dato anche il diffondersi della proprietà azionaria (che rendeva decisiva la possibilità di disposizione sui mezzi di produzione piuttosto che la loro proprietà giuridica) e della delega della cosiddetta “razionalità strumentale”, all’interno del processo produttivo, a managers e tecnici che organizzano il prelevamento del plusvalore (mentre la proprietà poteva concentrarsi sulla “razionalità strategica”). Dunque la proprietà capitalistica lungi dal disinteressarsi dei processi produttivi per diventare una pura classe di rentiers, ha utilizzato i profitti per l’approntamento di strategie volte alla conquista di nuovi mercati e nuove zone di influenza. Infine, la teoria del valore-lavoro, tutta tesa al dis/coprimento quantitativo dei metodi attraverso i quali i capitalisti succhiavano plusvalore nell’ambito delle innovazioni di processo, ha fatto perdere di vista tutto un universo, quello delle innovazioni di prodotto che, invece, creano nuove branche produttive e nuovi mercati dinamicizzando il sistema ( il quale non imputridisce affatto, contrariamente alla “profezia”).
Sull’altro fronte, quello che potremmo definire sovrastrutturale o politicista, l’attenzione era riversata soprattutto sugli AIS, gli Apparati Ideologici di Stato, sul loro ruolo di riassorbimento dei conflitti e di inglobamento dei gruppi dirigenti operai nella prospettiva capitalistica, al fine di serrare qualsiasi prospettiva di rivoluzionamento della società. Certo, rispetto all’economicismo, questa scuola di pensiero ebbe il merito di invertire la rotta circa l’oggettivo svilupparsi delle soggettività antisistemiche nell’ambito del processo di produzione capitalistico. Anzi l’abbandono della definizione del concetto classe in sé portò ad un rinvigorimento della lotta antisistemica contro i gruppi capitalistici dominanti e contro l’ “ossidazione” e il defezionismo dei gruppi dirigenti del movimento operaio ufficiale. Tuttavia questa lotta veniva intesa come mero squarciamento ideologico del velo protettivo che ammantava la natura dei rapporti nell’ambito della società capitalistica. Anzi l’aspetto ideologico divenne persino più importante di quello strettamente politico, tanto che gran parte delle energie venivano schiantate contro gli apparati tramite i quali il sistema trasmetteva la propria ideologia, vedi appunto l’apparato scolastico.
Questo parallasse, che spostava l’angolo della visuale rispetto al punto di osservazione dell’economicismo, faceva però perdere aspetti di complessità dell’analisi che erano messi in evidenza dal marxismo ortodosso, pur in maniera riduttiva, circa le contraddizioni intercapitalistiche (e della competizione tra imprese nel mercato).
Nonostante la classe era intesa essa stessa come una processualità che si formava nel conflitto contro i dominanti, la dicotomia Borghesia/Proletariato restò il fulcro prevalente dello scontro in atto. Da tale impasse emerse una quasi rinuncia al ripensamento delle contraddizioni sistemiche e del ruolo delle classi dominanti.
Dato quello che abbiamo descritto, con brevità eccessiva ma esistono molti buoni testi dove rintracciare il dibattito in questione, appare evidente che le nuove generazioni chiamate a raccogliere l’eredità, fatta di fallimenti ma anche di importanti acquisizioni teoriche, dei marxismi precedenti non possono e, soprattutto, non devono temere di innovare e di ripensare la teoria e la pratica (anticapitalistica). Purtroppo la scarsità e la debolezza del pensiero critico che si riscontra a causa di questa sconfitta epocale è già divenuta un’arma nelle mani dei funzionari del capitale e della schiera di intellettuali codini al loro servizio (provenienti soprattutto dalle fila dei gruppuscoli ultrasinistri che negli anni ’70 si autoproclamavano avanguardia della “Classe”).
Insomma, dovremmo trasformare tutti questi punti di debolezza in punti di forza, dovremmo compiere una sorta di analisi SWOT per ridefinire un nuovo campo di azione che sia libero da sedimentazioni passate ma che abbia una buona saldezza per gli spostamenti delle “truppe”.
La parola d’ordine è: elaborare il lutto e seppellire i morti. Cercheremo in futuro (speriamo non troppo lontano) di evidenziare meglio le nostre proposte e di trovare le convergenze giuste con altri soggetti che tentano di ricostituire una prospettiva anticapitalistica, partendo proprio da una reinterpretazione di quello che è oggi la complessità del sistema.
Ps. Consigliamo, per un approfondimento di questi temi, e per un giusto tentativo di re-interpretazione del capitalismo il testo di G. La Grassa “Il Capitalismo Oggi” Ed. Petite Plaisance, che va proprio nella direzione da noi auspicata. Si tratta di un buon punto di partenza per la costruzione di una teoria più vicina alle modificazioni intervenute nella formazione sociale capitalistica e che sono coincise con l’affermarsi della superpotenza americana. Rinviamo, inoltre, sempre nella direzione indicata da questo riorientamento teorico, al post apparso su questo blog “Discutendo di teoria con G. La Grassa” di G. Amodio.