Andarsene dal comunismo, cercare la giustizia (Per la rivista Eretica NDR)

 

Marino Badiale

Università di Torino

 

 

 

Gentile Redazione,

dopo aver letto il primo numero di Eretica, da voi inviatomi, ho pensato di scrivervi una lettera a proposito della nozione di “comunismo”. Ho poi visto che, dal secondo numero, avete attivato un forum proprio per discutere di questo. Si tratta evidentemente di una questione che anche voi sentite cruciale,  e questo mi fa sperare nella possibilità di una discussione seria. La lettura del terzo numero mi ha poi facilitato il compito di scrivere un intervento, perché molte delle tesi che intendevo sostenere le ha già ben argomentate Costanzo Preve nel suo contributo [1], col quale largamente concordo. Mi resta solo da argomentare poche tesi che non si trovano nei testi fin qui pubblicati.

In questo intervento sosterrò che proporre oggi la ricostruzione di una organizzazione comunista o proporre il comunismo come orizzonte a partire dal quale impostare la lotta contro la disumanità del mondo contemporaneo significa commettere un catastrofico errore sia sul piano teorico sia sul piano pratico. Un errore il cui risultato finale è la condanna alla più totale irrilevanza storica.

La sostanza teorica di quanto intendo sostenere è molto semplice, e per spiegarla si può partire da una battuta letta molti anni fa [2]: “ a chi si dice comunista, oggi, bisogna semplicemente chiedere cosa vuol dire”. Personalmente, ho smesso di dichiararmi comunista quando ho capito di non essere in grado di rispondere a questa domanda. Non si tratta qui solo dell’inglorioso fallimento del “comunismo reale del 900”, né del fatto (sottolineato da Preve) che  non abbiamo a disposizione “una salda interpretazione filosofico-scientifica di Marx” [3]. Queste sono piuttosto le premesse che portano necessariamente alla seguente conclusione: non sappiamo più cosa voglia dire “comunismo”. Si tratta di una parola svuotata di significato.

Ovviamente, nei diversi contesti storici, questa parola ha avuto un significato ben preciso. Nel suo articolo sul primo numero di Eretica, Preve elenca cinque dei significati che “comunismo” ha avuto, nel corso della storia [4]: il comunismo antico (la cui versione più nota è quella di Platone), quello dei primi cristiani, il comunismo settecentesco, il comunismo di Marx, il comunismo storico del 900. Il punto è che chi oggi vuole riproporre l’idea del comunismo come orizzonte di lotta anticapitalistica non sta pensando né a Platone, né alle prime comunità cristiane, né a Morelly. Chi oggi parla di comunismo come di una prospettiva storico-politica ha come unici referenti reali il comunismo di Marx e il comunismo storico del 900. Non spendo molte parole su quest’ultimo, perché il suo radicale fallimento, pratico e ideale, ne rende ovvia l’improponibilità. Resta dunque, come unica possibilità per riempire la parola “comunismo” di un qualche significato, il comunismo di Marx. Ma il comunismo di Marx, come spiega Preve nel testo citato, e come ribadisce La Grassa [5], si basa su precise ipotesi: sull’ipotesi, che Marx riteneva di aver corroborato scientificamente, che il movimento autonomo del modo di produzione capitalistico produca una unificazione del lavoratore collettivo e una separazione fra il lavoratore collettivo e la proprietà capitalistica. Il comunismo per Marx è conseguenza di questi meccanismi inscritti nel modo di produzione, meccanismi che non garantiscono certo il carattere automatico del passaggio dal capitalismo al socialismo e al comunismo, ma che forniscono però la base oggettiva su cui si innesta la lotta politica dei rivoluzionari. Se viene a mancare questa evoluzione tendenziale del modo di produzione capitalistico, è il senso stesso del comunismo in Marx che diventa incomprensibile. Il punto è, e su questo credo che siamo d’accordo, che a più di cent’anni dalla morte di Marx, dopo che il modo di produzione capitalistico si è esteso al’intero pianeta, non vediamo traccia di questa unificazione tendenziale del lavoratore collettivo. Il che significa che l’ipotesi di Marx è stata invalidata, e che nemmeno il comunismo di Marx può dare un senso, oggi, alla parola comunismo. E allora resta la domanda che ponevo all’inizio: “Sei comunista? Cosa vuol dire?” L’unica risposta possibile, per chi abbia l’onestà intellettuale di tenere conto delle “dure repliche della storia”, mi sembra quella, se la capisco bene, scelta dal gruppo che ha dato vita a “Eretica”: l’idea cioè di fondare un “Laboratorio” nel quale, come in ogni laboratorio che si rispetti, si fa attività di ricerca, e ciò che si sta ricercando è, fra l’altro,  proprio un nuovo significato per la parola “comunismo”. Si tratta di una risposta che denota onestà e coraggio intellettuale, ed è in considerazione di questi aspetti che ritengo possibile un dialogo con il gruppo di Eretica. Ma si tratta di una risposta sbagliata. Per spiegare dove sta l’errore, concedetemi di partire da una battuta: “ma ce l’ha detto il medico che dobbiamo essere comunisti?”. Ovviamente no, non ce l’ha detto il medico. E allora perché essere comunisti? Cosa vuole veramente, chi ha scelto di essere comunista [6]? Cosa volevo io, quando mi dichiaravo comunista? Volevo la giustizia. Volevo un mondo un po’ più giusto o un po’ meno infame e disumano del mondo che vedevo. Sono stato comunista perché pensavo che un qualche tipo di organizzazione comunista della società fosse un modo per garantire una vita più giusta e più sensata agli esseri umani. Ma se è vero, come io credo, che questa è la motivazione profonda di chi si dichiara comunista, ne discende una conseguenza: il comunismo non è un fine ma un mezzo. Un mezzo per realizzare un mondo più giusto. Ma se il comunismo non è un fine, ma un mezzo per la giustizia,  allora, di fronte al fatto che non sappiamo più che significato dare alla parola “comunismo”, il problema non è quello di cercare un nuovo significato per la parola, un nuovo modo per rendere attuale una prospettiva comunista. Se il comunismo è un mezzo e la giustizia è il fine, la discussione deve essere non sul comunismo ma sulla giustizia. Il programma non può essere “discutiamo per ridare un significato alla parola comunismo”, ma deve essere “discutiamo per capire come rendere il mondo un po’ più giusto, un po’ meno disumano”. E se iniziamo questa discussione ci rendiamo subito conto dell’insensatezza di una proposta comunista, oggi: perché se dobbiamo discutere dei mezzi per realizzare la giustizia o per diminuire l’ingiustizia, a chi ci propone il comunismo bisogna chiedere “perché il comunismo è un buon modo per realizzare la giustizia?”. E cosa mai potrà rispondere chi non sa nemmeno cosa voglia dire oggi comunismo? Risponderà “non lo so, per la verità non so neppure bene cosa voglia dire comunismo, ma ci stiamo lavorando nel nostro laboratorio”. E si sentirà a sua volta rispondere “in tal caso, se nemmeno sapete cosa state proponendo, la vostra proposta non è una proposta. Vogliamo discutere seriamente?”

Se quello che oggi dobbiamo fare è cercare di capire come diminuire l’ingiustizia del mondo, parlare di comunismo è solo una distrazione. Ciò di cui abbiamo bisogno non è un “laboratorio per un altro comunismo”, ma un laboratorio per un mondo più giusto.

Questo può essere sufficiente per quanto riguarda l’aspetto teorico della questione. Si potrebbe fare un esame particolareggiato di alcune delle possibili definizioni di “comunismo” nel mondo contemporaneo, per mostrarne il carattere in sostanza vuoto, ma per non appesantire il mio intervento lascio questo esame ad un eventuale contributo successivo.

 

Per quanto riguarda l’aspetto pratico, ho davvero poco da aggiungere a quanto detto da Preve [7]. Richiamarsi al comunismo oggi significa unicamente attirare i piccoli gruppi settari di adoratori del Verbo del Vero Comunismo (che a seconda della setta di appartenenza è quello di Mao oppure di Bordiga oppure di Trotzki ecc.), e soprattutto significa allontanare tutti gli altri, gli esseri umani normali di cui sono fatte, al 99,9999 per cento, le società umane, comuniste o meno  che siano. Perché farsi del male in questo modo? Sono circa 80 anni che i piccoli gruppi di “comunisti di sinistra”, gli eretici dell’ortodossia comunista, riproducono le loro dinamiche settarie, diffondondo volantini, stampano rivistine, fondano partitini e movimentini. Tutto ciò ha prodotto talvolta qualche pensiero interessante, ma mai, assolutamente mai, qualcosa di effettivo sul piano della storia reale. Su questo piano il variegato e differenziato mondo degli eretici del comunismo semplicemente non esiste. Ma se tale mondo continua a riprodurre le sue dinamiche dopo che la sua totale insignificanza storica è divenuta del tutto palese, ciò significa una cosa sola: alla persona che aderisce a questo mondo non importa assolutamente nulla degli ideali che proclama. Se gliene importasse, non potrebbe riprodurre sempre quelle stesse dinamiche che hanno mostrato a iosa la loro totale inefficacia. Al “comunista della piccola setta” non importa nulla delle ingiustizie del mondo. Si tratta di una persona che cerca unicamente la rassicurazione identitaria della piccola setta. E’ bello ritrovarsi fra quattro amici fidati a parlare di comunismo, ma questo non è né teoria né prassi, ma, appunto, semplice rassicurazione psicologica.

Quello che ci si può aspettare da questo mondo è spiegato benissimo nei due interventi dei CARC che avete ospitato nel n.2 della rivista. Vi invito a rileggerli attentamente. Quello è il comunismo, oggi, e nient’altro. E se il confronto è sul piano del  comunismo ha torto Eretica e hanno ragione i CARC (o gli altri analoghi gruppetti, magari di un “ismo” diverso dal maoismo dei CARC): perché i  CARC hanno un’idea “chiara e distinta” di comunismo, Eretica no. Certo, i CARC sono, sul piano teorico e politico, dei morti viventi lontani anni luce dalla vita reale, dal mondo delle persone che lavorano, amano, soffrono, lottano. Ma appunto: se insistete a parlare di comunismo, oggi, non potete che attirare gente così, e il vostro epitaffio sarà “cercavano il comunismo, e hanno trovato i CARC”.

Oggi il richiamo al comunismo è una catena mentale che impedisce di contrastare con efficacia l’egemonia intellettuale del mondo capitalistico e blocca coloro che hanno “fame e sete di giustizia” in una condizione ultraminoritaria. Abbandonando il comunismo ai morti viventi, agli adoratori della Grande Talpa, chi cerca la giustizia non ha che da perdere le proprie catene, e un mondo da guadagnare.

 

[1] C.Preve, “Il comunismo? Ipotesi plausibile. I comunisti? Dio ce ne scampi!”, Eretica n.1-2006, pag.57-62.

[2] Purtroppo non ricordo dove l’ho letta. Mi sembra si trattasse di un articolo di Alfonso Berardinelli.

[3] C.Preve, cit., pag. 59.

[4] C. Preve, “Democrazia e comunismo”, Eretica n.1-2005, pag. 8-16.

[5] G.La Grassa “Se il capitalismo non muore il comunismo non nasce”, Eretica n.1-2006, pag. 50-56. In questo intervento sono citate alcune delle numerose pubblicazioni nelle quali La Grassa ha argomentato distesamente le sue tesi sul comunismo di Marx.

[6] Intendo chi lo è, o lo è stato, in sincera coscienza, escludendo i tanti arrivisti, i mascalzoni, quelli che seguivano il gregge, quelli che dovevano “uccidere il padre”, i semplici pazzi ecc. ecc.

[7] Si veda in particolare il §8 dell’articolo citato alla nota 1.

 

 

Genova, maggio 06.