PRIME RIFLESSIONI SUL MANIFESTO "COSTRUIRE LA TERZA FORZA"

Paolo: il mio è un primo e breve commento, inevitabilmente un po’ approssimativo. Apprezzo lo sforzo di analisi che è dietro la proposta di costituzione di una terza forza. Ancor più convengo con la necessità e l’urgenza, visto il decadimento della politica attuale, di partire fin ad subito anche a costo di scontare una iniziale posizione di minoranza. Credo che La Grassa abbia
centrato il problema quando ha proposto di riportare la Politica al centro delle analisi e delle decisioni. Una Politica, e questo mi sembra il presupposto necessario, che fondi la propria analisi sull’abbandono e la critica radicale delle categorie di destra e sinistra che, in questa fase di sviluppo del capitalismo che definirei "sistemica", in cui cioè i meccanismi impersonali di riproduzione sono amministrati dai Lagrassiani "funzionari del capitale", non rappresentano più categorie conoscitive. Sono, anzi, vuoti strumenti di riproduzione di passività ideologica, subordinazione economica e corruzione finanziaria. Il coraggio della proposta e dell’analisi a "tutto tondo" di La Grassa sconta però alcune approssimazioni. Ne elenco due. Non si parla di strutture organizzative se non accennando all’esperienza dei Soviet. Nel tempo della rete non so se sono riproponibili. In Italia una terza forza si deve confrontare con il problema delle mafie e dell’economia illegale che è fonte di reddito per parti consistenti della nazione. Personalmente, poi, non sono certo che la "macchina" sia uno strumento neutro e tutto dipende dall’uso che se ne fa. Senza scomodare Gunther Anders, sono convito che l’utilizzo di certi apparati tecnologici abbia una ricaduta antropologica. Di conseguenza non mi convince l’analisi sulla tecnica che credo vada assunta come presenza quanto meno problematica della nostra epoca.
Per il resto credo che il manifesto sia una ottima base di partenza.

Risposta di G. La Grassa: I primi due punti possono essere assunti come problematici. Del resto, quando parlo di Soviet (o della Comune), ne parlo in termini "evocativi",  per avviare delle riflessioni che comunque ci portino fuori dell’incantamento cui ci hanno abituato da moltissimi decenni, quello relativo alle "libere elezioni", alla "democrazia parlamentare". E’ ovvio che è tutto da discutere; come sono ben più da discutere, anzi da elaborare a fondo, le idee adombrate nelle mie imprecise definizioni: "società dei funzionari (privati) del capitale"; la "rivoluzione dentro o contro il capitale"; il "capitalismo borghese" e la fase storica del suo tramutamento nella società citata prima; e soprattutto la "teoria sociale dello sviluppo ineguale dei capitalismi" (con prevedibili altri mutamenti storici); e via dicendo.
La seconda questione sollevata è importante, certo, ma non vorrei fosse poi enfatizzata come fosse possibile sceverare un capitale lecito da uno "illecito". Quattro-cinque anni fa, in un lungo e documentato articolo su "Le Monde diplomatique", veniva rilevato che, mediamente, un 15% del PIL mondiale (ripeto: mondiale) era tenuto in forma finanziaria (di facile se non immediata liquidità) essendo controllato, indistintamente – senza alcuna possibilità di sceverare quale parte spettasse ad un soggetto e quale ad un altro – da: banche e assicurazioni, capitale industriale (delle grandi corporations multinazionali), fondi pensione (in specie americani), dalla
"mafia" (malavita) internazionale. Tutti insieme appassionatamente; lo ripeto: indistintamente.
Per quanto riguarda la tecnica, resto sulle mie posizioni, anche perché ho chiarito che non nutro più l’ottimismo positivistico che fu anche di Marx (e ancor più di Engels). Ogni problema non può certo essere tagliato nettamente in una parte sana e in una parte guasta (come una mela). Tuttavia, è necessario cogliere il nucleo centrale del problema; afferrare il bandolo della matassa da quel capo a partire dal quale quest’ultima può essere più utilmente sbrogliata. Gli "enfatici" della Tecnica – siano positivisti o negativisti – sostengono sempre le due solite posizioni antitetico-polari, che vanno battute insieme e insieme superate con l’analisi delle strutture
dei rapporti sociali, della politica (e geopolitica), ecc. L’antropologia la lascio all’amico Preve che è filosofo. Su che cosa sia la natura umana, su che "essere" sia "in generale" l’uomo, ritengo più che utile e lecito scervellarsi, ma non è il mio campo di applicazione. Se avrò tempo, non mi
rifiuterò certo di leggere Gunther Anders, ma sono in difetto di tante letture assai più urgenti per il lavoro che sto facendo e per quello che vorrei apprestarmi a fare adesso, non fra dieci anni. In ogni caso, più che alle variazioni antropologiche che certuni pensano prodotte dalla tecnica,
credo in costanti molto più antiche, tenaci, e che ci accomunano agli altri esseri viventi in questa piccola pallina nello sterminato Cosmo. I discorsi sulle mutazioni indotte dalla Tecnica mi sembrano molto vicini a quelli positivistici sulla liberazione dell’Uomo dal bisogno tramite la stessa; ancora una volta l’antitetico-polare, sotto forma di una credenza dell’Uomo come essere speciale, che aspira a farsi divino, sempre prometeico (anche Prometeo fu punito duramente dagli Dei, come lo credono oggi tutti i "terrorizzati" dallo sviluppo tecnico-scientifico). Per qualche tempo, liberiamoci dagli incubi e lasciamo stare i tecnici; pensiamo alla politica
(e alla teoria che dovrebbe illuminarla). Altrimenti, andiamo a casa a riflettere sulle "umane sorti"; e lasciamo in pace il capitalismo, lasciamo in pace anche il suo più infinitesimo "atomo", costituito dal nostro attuale Governo.