LE (AUTO)STRADE DI PRODI SONO INFINITE
Avremmo voluto riportare per intero un articolo apparso sul Foglio di Venerdì che spiegava mirabilmente la parte giocata da Prodi nell’affaire Autostrade-Abertis. Meglio sarebbe dire che si era dato avvio ad un lepido gioco delle parti tra il Presidente del Consiglio Prodi ed il Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. I due hanno fatto la parte del poliziotto buono e di quello cattivo nel tentativo riuscito di bloccare la fusione tra la società spagnola e quella italiana. La tenzone era cominciata già all’indomani della vittoria elettorale del centro-sinistra, a causa dell’ “affronto” sferrato dai Benetton i quali, in un momento di vacatio governativa, avevano tentato di dar avvio ad una operazione “d’inglobamento” molto fruttuosa, i cui numeri parlavano da soli: 6 mld di ricavi annui, 20 mila dipendenti, 6.713 chilometri di rete autostradale, la famiglia Benetton primo socio con il 24,9%. In tutto questo movimento c’era anche la sede della neosocietà spostata in Spagna, a Barcellona. I Benetton si erano arrischiati con tale arditezza consci che con la vittoria elettorale di Prodi avrebbe vinto una certa finanza (quella bazoliana), la quale, attraverso la persona del Presidente del Consiglio, puntava a divenire la direttrice indiscussa degli equilibri finanziario-politici italiani. Diciamo che i Benetton ci hanno provato e forse non s’aspettavano una reazione così repentina, ma tant’è che questa c’è stata ed anche di una certa virulenza. Non è servito alla famiglia di Ponzano nemmeno entrare con un 5% nel salotto di RCS cercando di edulcorare, con un gesto di quasi-sottomissione, la propria “voglia di autonomia”.
Il 23 maggio si era dimesso da ad di Autostrade anche Vito Gamberale, volutamente tenuto ai margini della tentata fusione dai Benetton per evidente vicinanza agli assetti politici del governo. Lo stesso Gamberale, pur avendo votato a favore della fusione, prenderà poco dopo le distanze da “sé stesso” poiché, a suo dire, l’operazione cominciava ad apparirgli squilibrata e poco vantaggiosa per il Sistema-Italia nel suo complesso. Quando mai un manager privato si è preoccupato di un bene pubblico sacrificando la logica del profitto? In verità Gamberale aveva già preso contatti col governo per una migliore collocazione, cioè per uno scranno di maggiore rilievo in qualche ente pubblico.
Ma è a partire da questo momento che viene sguinzagliato il "cane da guardia" Di Pietro: chi meglio dell’irreprensibile molisano poteva salvare l’italianità di Autostrade contro l’invasore “catalano”? Di Pietro utilizza le armi che maneggia meglio, quelle della legalità. La legge italiana, infatti, impedirebbe ai Benetton di trasferire la concessione statale così com’è ad un nuovo soggetto giuridico nascente da una eventuale fusione, poiché in Abertis è presente una società di costruzioni, la ACS di Florentino Perez. All’inizio il “gioco” è piuttosto facile da portare avanti, tutta l’opinione pubblica nutre un certo astio contro Autostrade a causa del continuo innalzamento delle tariffe negli ultimi 5 anni (+9%) ed a fronte di un costante peggioramento dei servizi. Inoltre, pesano come un macigno sui Benetton i mancati investimenti per svariati mld di euro sui quali Di Pietro torna più volte per dare forza alla propria speculazione.
Anche l’Europa dice la sua in merito all’atteggiamento del governo, lo bolla come pretestuoso e conservativo tanto da non ritenere ostativa per la fusione la clausola sui costruttori. Ed allora che il governo apre un nuovo contenzioso. Questa volta le attenzioni si concentrano tutte sulla natura pubblica della concessione. Difatti, il governo cambia le carte in tavola e cerca di arrogarsi il diritto di poter cambiare i criteri della concessione allorquando muta il beneficiario di quella rilasciata in origine. Ovvio che se l’autorizzazione governativa non viene trasferita pari pari in testa al soggetto nascente, la fusione non ha più basi certe e viene a mancare la reciproca profittabilità dell’operazione. Nel frattempo “sfilano” le opinioni di molti uomini politici del centro-sinistra, tutte più o meno scettiche su ciò che si andava prospettanto nell’affare Autostrade-Abertis. Il primo a prendere posizione contraria è Rutelli cui fa seguito Enrico Letta. Quest’ultimo parla, senza troppi arzigogoli, di svendita di un grande patrimonio italiano da bloccare con immediatezza. Lo stesso Letta invita gli imprenditori italiani a farsi avanti per scongiurare tale atto scellerato. Prodi ha così il tempo di defilarsi e di fare la parte del poliziotto buono. Va in Spagna a rassicurare tutti che il governo non è ostile ma è solo attento alle strategicità del proprio patrimonio nazionale. Si delinea pian piano un fronte di riottosi che spazia da alcune forze politiche di centro-sinistra, al sindacato fino ad arrivare alle associazioni dei consumatori che si dicono preoccupate per l’aumento delle tariffe e per i posti di lavoro che potrebbero andare perduti.
A partire da questo momento entra in gioco anche l’Anas. L’autorità di gestione della rete crea un’apposita commissione composta da Monorchio, Cappugi e Guido Rossi (il tuttofare vicino, si dice, a D’Alema) la quale nega che vi siano occasioni di profittabilità pubblica in una eventuale fusione con gli spagnoli. L’Anas si mostra efficientissima in questa occasione ma dov’era quando gli investimenti pianificati da Autostrade S.p.A. non venivano effettuati? Come mai erano così timidi e inefficaci nel richiedere quanto previsto dalla concessione statale?
In questo bailamme spunta, allora, l’ipotesi nazionalizzazione della rete autostradale con il coinvolgimento della CDP, la stessa che doveva salvare l’italianità della Telecom. La CDP però è una stranissima creatura dalla forma semipubblica e dal cervello finanziario, essa ha alle spalle più di 65 fondazioni tra le quali possiamo annoverare: Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Fondazione Cassa di Risparmio di Vicenza, Verona Belluno e Ancona, Fondazione MPS ecc. ecc.(sarà per questo che l’estrema sinistra bertinottiana si sente garantita dal “pubblico”?). A questo punto, il governo spiega all’opinione pubblica che le sue preoccupazioni sono legate all’evenienza che gli investimenti mai effettuati da Autostrade S.p.A. possano addirittura volatilizzarsi dopo la fusione con gli spagnoli di Abertis. In realtà, ai Benetton non era mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello di fare nuovi investimenti, mentre, pare, che dallo spostamento della sede a Barcellona sarebbero arrivati 15 mld di vantaggi fiscali da vincolare in tal senso. Questo, ovviamente, per ribadire che l’ “economia pura” c’entra liminarmente in questo affare e lo scenario più interessante è quello politico, più precisamente quello delle manovre “politiche” di certa finanza italiana ( “i soliti (ormai poco) ignoti” che muovono i fili del burattino Prodi). Non è nostra intenzione avvalorare le ragioni dei Benetton, quest’ultimi avevano fatto bene i loro conti e tentavano di approdare verso più rosei lidi. Questi sono, dunque, i veri obiettivi perseguiti dai Benetton che costituivano invece una minaccia per il governo. Perché Prodi ce l’ha con i Benetton in maniera così caustica? Si tratta solo del reato di “lesa maestà”, rinveniente da un tentativo di fusione per il quale non era stata chiesta l’autorizzazione politica e per giunta mentre il governo si preparava all’insediamento? Non lo crediamo affatto. Il problema è che i Benetton con i soldi incassati dalla fusione avrebbero cominciato a lavorare in funzione di un “fronte opposto” a quello del professore bolognese. Di fatti i Benetton, con i mld incassati da Abertis si sarebbero rafforzati in Olimpia, la cassaforte di controllo di Telecom. Ancora una volta i piani del governo sulla telefonia sarebbero stati scompaginati e Prodi avrebbe fatto la figura del servo fesso. Così il governo ha gonfiato i propri muscoli e ha avviato il suo braccio di ferro contro la fusione. A supporto del governo è poi arrivato anche il pronunciamento del Tar che ha dato ragione al poliziotto cattivo Di Pietro (oppure vogliamo credere che Prodi non sapeva prima cosa avrebbe detto il giorno dopo il Tonino nazionale?) il quale aveva sostenuto che il nuovo soggetto giuridico, nascente dalla fusione, avrebbe dovuto chiedere una nuova concessione i cui criteri di rilascio potevano essere mutati dal governo stesso. Come dire, fate pure ma poi vedrete che cosa siamo capaci di combinarvi. Tanto è bastato alla spagnola Abertis per cominciare a tirare i remi in barca. Gli spagnoli hanno capito che in Italia non era proprio aria (memori dei destini toccati al Santander nella fusione Intesa-San Paolo o a Bbva con Bnl) soprattutto a causa di “spalle larghe” finanziarie nostrane irrobustitesi grazie al supporto di una parte della finanza americana che conta.
Non è servito ai Benetton, dopo la “maretta”, nemmeno effettuare qualche gesto di “sottomissione blanda” nella speranza di prendere tempo e portare alle proprie ragioni quella parte della GF italiana più silenziosa o più vessata (Profumo ed MPS da un lato, Tronchetti dall’altro) e comunque non proprio soddisfatta del rafforzamento di Bazoli e del suo entourage finanziario-politico. La famiglia di Ponzano ha provato anche ad usare l’arma di una maggiore trasparenza comunicativa cercando di spiegare al governo che non si stava svendendo un gioiello nazionale ma che si voleva delineare una “merger of equals” per rendere più efficiente il sistema autostradale nazionale (quanto sono premurosi!). Purtroppo per loro la frittata era già fatta! La partita è stata così persa, ma questa gente non si scoraggia mai definitivamente. Adesso, se questo fronte volesse agire con maggiore risolutezza dovrebbe cominciare a pensare ad una propria sponda politica in grado, innanzitutto, di mettere in difficoltà il primo ministro, quel Prodi che spadroneggia grazie all’appoggio dei suoi potenti protettori (ma per quanto ancora dato il malcontento generale che attira su di sé?). Di nemici Prodi ne ha tanti ma non tutti in grado di opporsi a lui con l’efficacia e la forza necessaria atta ad un sovvertimento degli attuali gangli di potere ai quali questo si appoggia(una piccola rivoluzione all’interno del Capitale). Il governo, tuttavia, cova una serpe in seno, quel Massimo D’Alema che di sgambetti se ne intende, e molto anche. D’Alema, il baffetto tranquillizzante della politica televisiva che aspira alla costruzione di un fantomatico paese “normale”, sta tentando di proporsi quale anti-prodi par exellance facendosi appoggiare dagli altri dominanti che temono il rafforzamento del gruppo di potere riunito intorno alla San-Intesa, e del quale Prodi è la sponda politica privilegiata (un cane da guardia fedelissimo!).
Molti degli equilibri in gioco dipenderanno dalle mosse di Profumo di Unicredit, questo gruppo è l’unico (per dimensione economica e appoggi politici) in grado di rendere la vita meno facile alla “combriccola bazoliana”.
Naturalmente, devono essere lette in quest’ottica le parole spese da D’Alema a sostegno all’operazione Autostrade-Abertis, anche se per il momento è stato costretto ad abbozzare. D’Alema non è ancora abbastanza forte, sia politicamente (ha qualche conto aperto con alcuni spezzoni del suo partito) che finanziariamente (non sono abbastanza coagulate le forze che dovrebbero servirsi di lui in funzione antiprodiana). Ma D’Alema è molto più di un servo sciocco, è uno che vive per il potere e per i suoi intrighi, per cui riuscirà a fare gli interessi di qualcuno prima o poi (pur di fare i propri, s’intende!). Non è detto che alla fine non riesca ad amicarsi persino gli attuali sostenitori di Prodi. Il conflitto interdominanti è fatto così, tradimenti, alleanze e zone d’ombra che non si dipanano mai abbastanza da fare capire a noi poveri mortali quello che potrà accadere domani. Sappiamo solo che la partita è appena cominciata.