AUTOREFERENZA E SERVITU’ di G.
Il nostro ceto politico è per un verso autoreferente, per un altro servo dei “poteri forti”. In effetti è servo – oserei dire oggettivamente tale – proprio perché autoreferente. La cartina di tornasole dell’assoluta inutilità, per il paese, di mantenere questa schiera di “magnoni” che sono i politici è data dall’attuale discussione sulla possibile nuova legge elettorale, con sbarramento o meno (e con diverse ipotesi di percentuali di sbarramento), e sul referendum che vogliono indire i sostenitori del bipartitismo al fine di stimolare il Parlamento a promuovere la legge in questione.
Personalmente, non sono minimamente interessato ad alcuna legge elettorale, non mi appassiona la diatriba, superficiale e futile, su bipartitismo o multipartitismo. I sostenitori del primo pontificano su quel bene fondamentale di una “democrazia avanzata” che sarebbe la governabilità; ci si dovrebbe dunque avviare verso la prospettiva di una alternanza tra due schieramenti soltanto, con forte premio di maggioranza per quello dei due che prenda anche un solo voto in più. I sostenitori del secondo ribattono che i partiti piccoli rispondono comunque a bisogni e interessi di porzioni dell’elettorato che altrimenti non verrebbero rappresentate e difese, con conseguente incremento dell’astensione dal voto e perciò grave lesione della democrazia.
Quest’ultima non è per nulla assicurata da nessuna di queste due posizioni (puramente formalistiche), poiché in entrambe è impossibile rintracciare una qualsiasi proposta politica seria che riguardi l’insieme del paese e non semplicemente qualche sua poco numerosa “corporazione”. L’unico reale interesse dei membri del nostro ceto politico è il proprio; non semplicemente per i posti di governo e di parlamentare (con i lauti stipendi che vengono pagati a queste nullità), ma soprattutto per il potere, quello detto di sottogoverno, che viene detenuto da chiunque sieda in Parlamento, da qualsiasi gruppetto sia comunque necessario alla conquista, e poi mantenimento, della maggioranza; non solo nel centro del potere statale, ma anche nelle amministrazioni locali.
I partiti piccoli non vogliono sbarramenti di sorta perché sparirebbero e i loro dirigenti non conterebbero perciò più molto; essi dovrebbero brigare – in specie individualmente (con minore forza contrattuale) – con le organizzazioni maggiori, e verrebbero al massimo cooptati (in numero limitato) solo piegandosi ai voleri dei vertici di tali più grossi organismi. Questi ultimi hanno ovviamente l’interesse esattamente contrario: non più sottostare al “ricatto” di partitini da “prefisso telefonico” (come suol dirsi), avere le mani libere per accordi tra “i grandi”, incamerare il maggior numero di voti possibile (tanto l’astensionismo non interessa il bipartitismo, anzi semplifica i compiti).
Come ben si capisce, non vi è alcun interesse a difendere, in un senso o nell’altro, questa sedicente democrazia: quella della “governabilità” e dell’alternanza tra due “bande” di parassiti contrarie ed eguali (contrarie nel contendersi i posti chiave del magna magna, eguali nel magnare a quattro palmenti); o invece quella della “esatta” rappresentanza di tutte le bande, anche di quelle piccole, da “quartiere” o perfino da “isolato”. Data l’assoluta nullità di queste bande, grosse e piccole, per quanto riguarda una politica vantaggiosa alla società nel suo complesso – invece che a loro stesse e a quelle economiche – il loro gioco si svolge sulla scena di un teatro, i cui spettatori sono molto distratti, sbadigliano annoiati, gettando di quando in quando un’occhiata verso il luogo da cui provengono rumori confusi, un calpestio di tavolacci, ma dove talvolta gli attori si presentano con costumi curiosi e pittoreschi. Tra “Grande Fratello” e i talk show, da una parte, e “Porta a porta” o “Ballarò”, ecc., dall’altra, la differenza è minima; tutto può servire a far seguire una trasmissione a spettatori semi-assopiti, quando questi non hanno nulla di meglio da fare.
Il vero gioco pesante si svolge dietro le quinte tra i gruppi economico-finanziari. E’ però un gioco non visibile, che lascia qua e là qualche traccia labile e non tanto facile da decifrare. Talvolta però, se si sta bene attenti, qualcosa si riesce ad afferrare. Sicuramente si capisce, in linea generale, che oggi siamo nelle mani di autentiche gang economico-finanziarie particolarmente parassitarie, e generalmente succubi di altri giochi ancora più vasti in svolgimento fuori d’Italia. Le gang in questione sono però costrette, per ottenere certi fini, a dover influenzare i teatranti (politici) in scena. Debbono quindi co-interessarli ai loro giochi economici e nel contempo accettare, pur se con insofferenza (spesso non mascherata), i miseri giochetti dei politicanti tesi alla spartizione del bottino loro spettante per la gestione della sfera politico-istituzionale, che ovviamente non può non invadere anche quella economica.
Ecco allora che si crea il grande pasticcio odierno. Le cosche economiche curano i loro interessi, molto seri (per loro) e che incidono pesantemente sulla vita di tutti noi, tendendo a dirottare verso se stesse (ma contendendosela) la maggior quantità possibile della torta nazionale prodotta. In questa azione, non possono non associare quelle politiche; cercando però di farlo rivolgendosi a individui o piccoli gruppi delle stesse, in modo da mantenere a loro favore la più alta forza di contrattazione. Quanto più parassitari sono gli agenti economici – privi di quella propulsione innovativa tipica degli imprenditori soltanto secondo la edulcorata visione di certi economisti (intellettuali pagati per raccontare fandonie) – tanto più essi si sforzano di decomporre e ricomporre, secondo il loro vantaggio (possibilità maggiori di controllo e orientamento), gli schieramenti politici. Gli appartenenti a questi ultimi – in quanto servi privi della consistenza strategica di cui sono a volte portatori i vertici politici in ben altre società che la nostra – si lasciano blandire, comprare, cercano di partecipare alle briciole del bottino accumulato dai gruppi economici; nel contempo, sanno che debbono gestire pacchetti di voti nel “mercato elettorale”, per cui compiono incredibili e ignobili giravolte, acrobazie, passi doppi e tripli, che infastidiscono e innervosiscono tali gruppi.
A questo punto, i parassiti economici – quelli che denomino GFeID e che confliggono sordamente fra loro, avendo così bisogno di accaparrarsi quote sempre maggiori delle risorse nazionali – vedono la via di uscita nella creazione del cosiddetto “grande centro”, che si formi però mediante accordo tra grandi bande politiche, eliminando quelle piccole. Ecco perché tali parassiti inneggiano ad una legge elettorale che consenta il bipartitismo, al limite con le soglie di sbarramento per i partitini. Tuttavia, poi, essi premono per un ammorbidimento del conflitto fra i partiti maggiori (mentre si fanno le scarpe fra loro) onde spingerli verso un’area di minore conflittualità e di sopportazione reciproca. Per loro l’ideale sarebbe un centro “sdoppiato”, una nuova “figura geometrica”, che è poi quella in uso nelle “grandi democrazie liberali” anglosassoni. Due partiti che attraggono l’attenzione della metà di popolazione votante con finte diatribe, e con mutamenti tattici della politica perseguita fatti passare per strategici, in modo che – sia con il governo dell’uno sia con quello dell’altro – le medesime gang economiche, pur accapigliandosi per la spartizione del bottino (sottratto alla popolazione), possono orientare la politica economica nazionale.
Interessante è il fatto, di cui è sintomo l’articolo di Besana riportato nel blog, che lo scontro attualmente in atto non è ancora facilmente componibile (e per fortuna!). Al momento, c’è evidentemente troppa conflittualità tra le bande economiche, troppo alto è il prezzo del loro parassitismo da far pagare ad ampi strati di cosiddetti ceti medi; confusa è la lotta anche a causa dell’intrecciarsi di scaramucce o battaglie più ampie tra concentrazioni finanziarie (e politiche) situate altrove ma di cui la nostra GFeID è in sostanza succube. In una situazione del genere si aprono squarci “di verità” promananti proprio dalla stampa, dagli agenti economici e politici, ecc. che si trovano in posizione di relativa inferiorità e che cercano di rovesciare la situazione.
Quando mezzo secolo fa mi situavo nei “ridotti” del PCI, era patrimonio dei comunisti la capacità di interrogare la stampa e le fonti economico-politiche più “reazionarie” – quelle che stavano per soccombere davanti all’avanzata del capitalismo maggiormente dinamico – per cogliere sprazzi di “verità” (parziali e certo deformate) sugli interessi in gioco tra le classi dominanti. Oggi la situazione è rovesciata, ma simile. Spieghiamoci. Il controllo che proviene da ambienti “stranieri” (in specie USA) devasta il nostro paese, territorio di scontro. Le forze economiche in conflitto sono tutte fondamentalmente “reazionarie”, parassite, arretrate; alcune sono però al presente afflitte da maggior debolezza. Non è detto che un domani queste ultime non possano rovesciare la situazione, ma attualmente stanno “sotto”. Quindi dobbiamo seguire attentamente le “denunce” e le “critiche” lanciate dalla stampa e dai “portavoce” che rappresentano, anche se non omogeneamente e coerentemente, i settori momentaneamente in svantaggio. Per questo ritengo utile proprio la lettura dei giornali che gli sciocchi faziosi considererebbero come appestati perché non quelli dei loro “beniamini”. Malgrado tanti limiti che si sono evidenziati con il tempo, bisogna ben dire che il PCI fu una grande scuola di politica; la sinistra d’oggi sforna soltanto intelligenze “guaste”.
27 aprile
[NDR] Ecco la parte dell’articolo di Besana alla quale fa riferimento G.
Se Marini, in margine all’assise dei suoi, apre ai fratelli separati dell’opposizione, vuol dire che le danze sono cominciate; Tabacci ha preso nota. Anche l’apertura della Telecom al Cavaliere è un segnale, di che cosa lo sapremo presto. Grande fautore dell’ipotesi terzista è il Corrierone di Paolo Mieli, che del cerchiobottismo ha fatto uno stile elegante, mettendo in bella copia i desiderata espressi dal patto di sindacato che controlla via Solforino. C’è una tiritera, ormai venuta a noia, che vertici confindustriali e baroni della finanza amano ripetere: i politici, dicono, dovrebbero smettere di litigare e concentrarsi sulle cose che servono all’Italia (cioè a loro stessi). Altro non è se non un’implicata richiesta di favori, di solito prontamente ottenuti alla faccia del contribuente trapelato, vedi mobilità lunga alla Fiat. Non si comprende tuttavia la ragione per la quale gli opposti schieramenti dovrebbero venir meno alla loro funzione prima, che è quella di rappresentare idee, opinioni e interessi contrastanti; senza conflitto ritualizzato nella dialettica parlamentare, non c’è democrazia. Per i poteri forti, sarebbe indubbiamente più comodo interloquire con un unico blocco d’ordine, votato all’ubbidienza e prono all’agenda Gavazzi. Speravano che l’attuale Governo servisse alla bisogna, ma non s’è dimostrato abbastanza affidabile; per salvare almeno le apparenze, qualche mezzo contentino ai suoi elettori l’ha dovuto pur dare.
[trascrizione di Anna Chiara]