GARANTISMO PELOSO di G. La Grassa

P.S. Leggo oggi sulla stampa dichiarazioni di Bondi e Cicchitto che sembrano correggere quelle di ieri. Anche il Presidente della Camera ha fatto dichiarazioni “apprezzabili”, e Fassino sembra piegarsi all’inevitabilità di votare per l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni. Peccato! D’altra parte, per quanto scadente sia questo ceto politico, non si può pretendere che siano tutti dei “bamba”. Resta comunque ancora qualche speranza, tenendo conto dell’ispezione a tempo di record ordinata da Mastella e delle “dubbie” frasi pronunciate dal presdelarep. Il mondo politico non ha ancora preso una posizione precisa. Tuttavia, ammetto che sarebbe troppo bello veder votare insieme Ds e FI contro l’autorizzazione (e rimanere magari anche in minoranza). Ormai all’autunno.  

 

Chi mi ha letto un poco sa che ho sempre ritenuto “mani pulite” (fin dal 1994 quando scrissi assieme a Preve Il teatro dell’assurdo) una pura operazione politica mirata al ricambio di un regime (Dc-Psi) con un altro (centrato sui rinnegati del Pci), operazione diretta da potenti centri industriali e finanziari italiani eterodiretti (cioè “estero”diretti dagli USA) e dai cui esiti nefasti ci salvò Berlusconi, certamente solo per difendere i suoi interessi e di alcuni pochi altri; interessi minoritari nell’establishment italiano (e per nulla rappresentati nel “salotto buono” degli Agnelli & C.). Il “cavaliere nero” sfruttò abilmente per i suoi scopi la rabbia degli elettori diccì e piesseì restati senza referente politico.

Tuttavia, non mi sono mai sognato di dire che la Procura di Milano (e qualche altra al seguito) abbia perseguitato degli innocenti. Ci sono state delle evidenti esagerazioni (le assoluzioni, dopo anni e anni di processo, sono state un po’ troppe), ma le colpe di buona parte dei perseguiti “legalmente” sussistevano. Quello che ho sostenuto è che non si è voluto fare opera di chiarificazione politica – et pour cause direbbero i francesi – preferendo scatenare un’ondata giustizialista, dopo aver avuto, dai potenti centri di cui sopra, semaforo verde al fine di far intervenire il potere giudiziario, fino a quel momento pressoché inerte perché sarebbe stato bacchettato con durezza se avesse tentato – prima del crollo del socialismo reale e della dissoluzione dell’“Impero del Male” – di scardinare il potere democristiano in Italia, “portaerei” della Nato confinante con il suddetto Impero.

Oggi, il potere giudiziario, nella persona della Forleo, ritiene di dover procedere contro politici che all’epoca di “mani pulite” erano dalla parte giustizialista e che, per suo merito, sono ascesi a braccio politico preferito della banda industrial-finanziaria di cui già detto. Le colpe di questi politici sono, a mio giudizio, quelle normali in una “democrazia” capitalistica (perché non si rileggono le mirabili pagine di Balzac sulla Francia della prima metà del secolo XIX? Anche se i personaggi oggi inquisiti non hanno certo la statura del balzachiano arrivista Rastignac); si tratta di semplice e banale attività lobbistica a favore di determinati centri di interesse economico. Consorte sostiene che lui mai li “disturbava”, che erano sempre loro a telefonargli. Può essere, comunque non erano telefonate da semplici “curiosi”; e lui chiedeva loro di intervenire con qualche aiutino presso precisi (e nominati nelle telefonate) personaggi del mondo finanziario-industriale. In tutto questo nulla di strano per una “democrazia” capitalistica (cioè degli affari); l’importante è che non si raccontino panzane sull’alta moralità degli indagati.

La loro è l’abituale e solita moralità di chi si interessa di questioni economiche nell’ambito di un sistema capitalistico. Ho fatto parte di questo mondo, durante gli anni della mia “iniziazione alla vita”; e non si trattava di un mondo piccolo-capitalistico. Conosco anche bene i rapporti con i Ministeri e con parlamentari vari (di tutte le parti politiche, ivi comprese quelle dell’opposizione “più dura”). Non è che si possa venire a raccontarmi “palle mostruose” sull’argomento. Il fatto è che, per gli stessi fatti, la fai franca – e questa è la normalità – per la maggior parte del tempo o anche per sempre (alla maggioranza degli affaristi e dei “loro” politici di riferimento è questo che capita); poi, una bella volta – e magari non per ragioni di “giustizia”, ma per un altro “tipo” di manovre – ci caschi dentro.

 

Scusate, ma è quanto avviene anche per altri motivi e in altri campi. Pensate all’antitrust. Solo i cretini non sanno delle mostruose centralizzazioni di capitale che hanno caratterizzato ogni fase dello sviluppo della nostra società. Ciononostante, esistono dappertutto la legge e gli organismi antitrust; e funzionano con particolare severità (si fa per dire) negli USA, centro del capitalismo mondiale e di tutte le maggiori imprese multinazionali. E’ solo una mascheratura, una ipocrisia? Certo, questo aspetto è fondamentale, poiché l’ipocrisia e la pura apparenza fanno parte delle norme decisive per il “buon andamento” degli affari capitalistici (in specie nei paesi “democratici”). Ma abbiamo anche a che fare con regole che debbono essere mantenute e rispettate; sono leve da manovrare appena ciò sia necessario.

Innanzitutto, per dare ogni tanto l’impressione che il mercato è controllato e che quindi vi si fanno affari onesti (egoistici ma tanto “per bene” e per “il bene di tutti”; rispettando la menzognera ideologia di quel micragnoso di Adam Smith con il suo “macellaio che, per suo interesse, ci fornisce la buona carne”). In fondo, si tratta dello stesso motivo per cui si fanno ogni tanto retate di prostitute o sequestri di droga. E’ la solita ripetitiva lotta tra “ladri e carabinieri”, il sale della suddetta “democrazia”; di fatto è il degrado, tipico di questa nostra meschina società, dell’eterna lotta tra Bene e Male, che ha tutt’altro spessore e tradizione storico-culturale. Ma l’antitrust non esiste solo per questo. Tanto per andare di brutto sul concreto e sull’attuale, serve anche a favorire – con l’assenza di intervento – le fusioni tra Intesa e San Paolo (gli “amici” di Prodi) o Unicredit e Capitalia (gli “amici” dei diesse) nel mentre si pretende che l’Eni si separi dalla sua rete di distribuzione onde indebolirla; e meno male che la nostra azienda ha messo a segno dei “bei colpi” con la Gazprom, la Sonatrach, ecc. Parleremo fra non molto di questi fatti; intanto pensateci sopra: come mai questo diverso comportamento del nostro Antitrust?

 

Scusate ancora questa digressione, che era necessaria onde meglio chiarire i motivi che muovono la magistratura. Ogni tanto si deve incappare nelle sue reti, altrimenti sembra che in questa “democrazia” si agisca come nel Far West americano durante la prima conquista (per sterminare gli indiani era necessaria una certa “libertà” d’azione, ma dopo, tra bianchi, si è enfatizzata la smithiana “mano invisibile”; ma quanto odioso e meschino doveva essere questo tanto, troppo – perfino da Marx – osannato economista “classico” inglese!). Inoltre, la magistratura, come tutte le altre istituzioni di “contrappeso democratico”, può servire quando non ci sono altri mezzi per far fuori un avversario. Ovviamente, non mi perito ad emettere giudizi sul comportamento della Forleo; stando alle forze che le si sono mosse contro – non solo gli interessati e la parte politica cui appartengono (con appoggio della più “alta carica” che è uno dei loro) ma anche gli avversari di FI, con dichiarazioni di Bondi e Cicchitto, talmente stolti da non rendersi conto che le pesanti dichiarazioni rilasciate diventano una conferma della “coda di paglia” del loro leader – sembra però di dover concludere per l’interpretazione secondo cui ogni tanto è necessario “ci scappi” la retata. E se non la lasci seguire il suo corso, sveli subito la sostanza del formalismo – politico, giudiziario, economico-mercantile, ecc. – della società “democratica” capitalistica.

Adesso voglio proprio vedere il casino che combineranno questi politici del c…. Quelli della prima Repubblica, con Andreotti in testa, si rassegnarono al fatto (e fato) che un ciclo storico si era chiuso con la fine del socialismo reale (quanto scuro in volto era il suddetto democristiano, il più lucido di tutti, quando commentava sconsolato tale fine, e come rivalutava pienamente Togliatti e perfino in parte Stalin; sapeva che cosa significava per lui e gli altri quella svolta storica). I politici attuali faranno di tutto per resistere, privi di ogni consapevolezza che, scalpitando e insabbiando, faranno una fine assai più brutta. Mi dispiace per loro: il “rito democratico” capitalistico ha bisogno di qualche testa, anche importante, ogni tanto; altrimenti la menzogna ideologica si sbriciola e appaiono le reali laide fattezze (da teschio brulicante di vermi) del capitalismo. Quello italiano odierno (della ben nota a chi mi legge GFeID) è particolarmente disgustoso; se questi zombies vogliono tirare avanti ancora qualche anno, lascino agire senza intralci la Forleo, poiché essa lavora per loro pur senza saperlo, lavora affinché il “popolo” creda ancora per qualche tempo al rispetto della “legalità democratica”. 

Personalmente, quindi, mi auguro che il Parlamento non conceda alcuna autorizzazione, che il Presdelarep, il ministro Mastella e il governo intero, le forze parlamentari, gli stessi organismi dirigenti dei magistrati, brighino per insabbiare tutto; il verminaio di questa “democrazia” cadaverica potrebbe forse apparire allora in tutti i suoi lineamenti da film horror. Non ci si illuda per carità: non è alle viste nessun socialismo, nessuna società particolarmente giusta, nessun passaggio di potere al popolo o nelle “sue vicinanze”. Tuttavia, c’è capitalismo e capitalismo, c’è “democrazia” e “democrazia”. Questa sedicente seconda Repubblica italiana è ormai in metastasi. Un’asportazione chirurgica delle cellule cancerogene non guarirà completamente l’organismo – finché ci sarà capitalismo, sarà sempre malato o malaticcio – ma consente uno standard di vita (non in senso materiale) che ha qualche grado di sopportabilità in più.

 

Ultima piccola notazione. Anch’io, come gran parte del mondo politico e la “più alta carica”, ho in un primo momento pensato che la Forleo fosse stata troppo precipitosa nel quasi emettere una sentenza di condanna nell’atto di richiesta al parlamento di poter utilizzare le telefonate intercettate. In realtà sono adesso convinto che stavo sbagliando, e con me gli altri. Che l’interessamento telefonico dei politici sia catalogabile quale pura curiosità è assolutamente da escludere. O ha semplice rilevanza politica (secondo quanto sopra esposto) o ha anche rilevanza penale, se si ritiene che esso abbia costituito grave turbativa a causa della conoscenza di operazioni finanziarie di rilevante portata (le scalate bancarie), che hanno consentito operazioni scorrette tese a danneggiare migliaia di invece ignari risparmiatori. Evidentemente, il magistrato propende per questa seconda ipotesi; d’altronde, in base alla prima, non avrebbe potuto richiedere alcuna autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni. Di conseguenza, per effettuare la richiesta, non poteva esimersi dal manifestare determinate convinzioni in proposito; non quindi per condannare in anticipo, ma semplicemente per far comprendere la necessità dell’utilizzazione di quel materiale nel corso delle indagini e poi, eventualmente, del processo.

Il vero fatto è che gran parte della “casta” – soprattutto di sinistra con importanti propaggini nella destra, e con le massime cariche dello Stato a suo favore – non vuol essere toccata. Essa ha i nervi talmente scoperti (e la coda di paglia) che ha frainteso le motivazioni della richiesta; e ha reagito scompostamente anche a costo di svelare le vere fattezze della “democrazia” capitalistica. Ed io spero che insista in questa protervia da “impuniti”. E’ il miglior modo per darle qualche scossa che, a questo punto, investirà anche le massime cariche dello Stato (a meno che non si ritirino in buon ordine). Così non ci sarebbero altre pareti (di cartongesso!) dietro cui nascondere le vergogne del ceto politico di questa “democrazia” non solo falsa (questo lo è in ogni caso), ma anche tanto malata ormai.

SUL CONCETTO DI NATURA UMANA di M. Tozzato

 

Gli ultimi interventi di Petrosillo, La Grassa e D’Attanasio trattano di questioni così importanti che tornare a discorsi filosofici, o quasi, parrebbe una scelta fuori luogo però è  la stessa teoria, su cui fondiamo le nostre considerazioni,  a  richiedere che ci si reinterroghi continuamente sui presupposti delle nostre analisi fattuali. Il problema della natura umana, o come dice Preve dell’”ente naturale generico” è certamente un concetto filosofico ma è anche una nozione su cui si fondano ricostruzioni ideologiche, fortemente indirizzate, atte a diffondere una visione mistificata, basata su presupposti inconsci, della nostra visione della condizione socio-culturale della società.

La mediocre operazione che Bertinotti e i suoi compari stanno portando avanti con la rivista “Alternative per il Socialismo” – per tentare di contrabbandare discorsi vuoti e fumosi per  una operazione di fondazione teorica del nuovo soggetto “ammucchiata” che la “sinistra radicale governativa” si sta preparando a costituire – è una dimostrazione di “cattivissimo” uso ideologico di termini di origine filosofica che vengono così a ritrovarsi particolarmente denigrati al di là della loro autentica consistenza teorica ed epistemologica. A tale proposito ho trovato interessante una discussione tra il linguista Noam Chomsky e lo storico delle idee e “archeologo” delle scienze umane Michel Foucault , tenutasi in Olanda nel 1971, e pubblicata nel 2005 dalla “DeriveApprodi” col titolo di “Della natura umana. Invariante biologico e potere politico”. All’inizio Chomsky pone una questione sicuramente problematica. Si tratta di <<affrontare un problema scientifico in linea di principio ragionevolmente chiaro e ben circoscritto: dar conto della differenza tra la quantità di dati offerta al bambino, piuttosto esigua in effetti, anzi non solo esigua ma anche di bassa qualità, e la conoscenza, molto articolata, altamente sistematica e profondamente organizzata, che non si sa bene come, il bambino ricava da questi dati.>> La risposta che egli stesso , in prima istanza dà, viene riassunta in questa maniera:<<occorre assumere che sia il singolo parlante a fornire un grande contributo, straordinario in effetti, alla struttura e agli schemi generali e forse anche al contenuto specifico della conoscenza che ogni parlante ricava dalla propria esperienza linguistica, esperienza che, di per sé, è limitata e priva di ordine.>> La conclusione del discorso porta Chomsky a <<sostenere che un elemento fondamentale della natura umana è costituito proprio da questa conoscenza istintiva o, se si vuole, da quell’insieme di schemi innati che ci dà la possibilità di ricavare una conoscenza complessa e intricata a partire da dati estremamente limitati.>> La risposta di Foucault pone l’accento sulla non-scientificità del concetto di natura umana: << E’ vero che diffido un po’ del concetto di natura umana, per la seguente ragione: credo che i concetti e i termini di cui una scienza può servirsi non abbiano tutti lo stesso grado di elaborazione. E in genere non hanno la stessa funzione né lo stesso tipo di uso possibile all’interno del discorso scientifico.[…] Allo stesso tempo, vi sono elementi che svolgono un ruolo nel discorso e nelle regole interne alla pratica del ragionamento. Ma esistono anche concetti periferici attraverso i quali la pratica scientifica si definisce […] Per un periodo ben preciso, in biologia il concetto di vita ha svolto questa funzione.>> Sviluppando un ragionamento per analogia Foucault continua tirando infine le conclusioni:<<Mi sembra che il concetto di natura umana sia dello stesso genere. Non è studiando la natura umana che i linguisti hanno scoperto le leggi della mutazione consonantica o Freud i principi dell’analisi dei sogni o gli antropologi culturali la struttura dei miti. Mi sembra che all’interno della storia della conoscenza il concetto di natura umana abbia svolto essenzialmente il ruolo dell’indicatore epistemologico, per definire alcuni tipi di discorso in relazione alla teologia, alla biologia o alla storia. Farei fatica a riconoscervi un concetto scientifico.>> Ma a questo punto Chomsky, colta la puntualizzazione di Foucault sposta il problema, mettendo in primo piano allo stesso tempo il problema che anche il pensatore francese voleva mettere in evidenza: l’eventuale proposta della nozione di  “natura umana” come “concetto filosofico” quale valenza conoscitiva e “pratica” può avanzare ? Chomsky infatti si domanda: <<è possibile dare una spiegazione biologica, o per mezzo dei concetti oggi disponibili in fisica, della capacità del bambino di acquisire  complessi sistemi di conoscenza e di farne uso in modo libero, creativo e così variegato ? […] Non vedo alcuna ragione per credere che questo sia possibile. Gli scienziati professano un atto di fede quando affermano che siccome la scienza  ha spiegato molte altre cose, allora riuscirà a spiegare anche questo.>> Ma d’altra parte dobbiamo << chiederci se il concetto di natura umana o di meccanismo organizzativo innato o di schema mentale intrinseco […] per brevità diciamo il concetto di natura umana, non possa costituire per i biologi la prossima vetta da conquistare>>. Insomma quello che per Foucault può valere come indicatore epistemologico e che non potrà mai, pur svolgendo una funzione importante, assumere il carattere di concetto scientifico, per Chomsky in un processo di evoluzione per salto di paradigma (alla Kuhn) potrebbe passare dal campo delle categorie interpretative filosofiche a nozione centrale di una nuova visione scientifica: una scienza che affronti in modo nuovo il rapporto mente/corpo, una nuova scienza cognitiva fondata biologicamente ma oltrepassante l’analisi delle strutture vitali psichiche e fisiche come sino ad oggi è stata impostata. Di fronte a questa prospettiva Foucault tenta di precisare la propria visione e il proprio metodo in rapporto al campo di indagine di cui si occupava e che aveva sviluppato:<<nelle ricerche storiche che ho svolto, o che ho cercato di svolgere, ho indubbiamente dato pochissimo spazio a ciò che lei chiama la creatività degli individui, alla loro capacità di creazione, alla loro facoltà di inventare concetti, teorie o verità scientifiche. Ma credo che il mio problema sia diverso da quello di Chomsky. Chomsky ha combattuto il comportamentismo linguistico che non dava alcun peso alla creatività del soggetto parlante: costui era una specie di  superficie sulla quale poco alla volta si raccoglieva l’informazione che avrebbe in seguito ricomposto. Nell’ambito della storia delle scienze o più in generale della storia del pensiero, il problema era completamente diverso. Per molto tempo la storia della conoscenza si è imposta di rispondere a due esigenze. Innanzitutto un’esigenza di attribuzione: ogni scoperta non solo doveva essere situata e datata, ma attribuita a qualcuno […] Questo, in sintesi, è legato al principio di sovranità del soggetto che viene applicato alla storia della conoscenza>>. La seconda esigenza pone il problema della natura trascendentale o trascendente della verità in modo tale che, come dice Foucault, debba risultare che nei<<confronti della verità la dimensione storica della conoscenza è sempre negativa>>. Difatti <<affinché non sia compromessa dalla storia, è necessario non che la verità si costituisca nella storia, ma semplicemente che si riveli in essa; nascosta agli occhi umani, provvisoriamente inaccessibile, relegata nell’ombra, essa attende di essere svelata. La storia della verità sarebbe sostanzialmente quella del suo ritardo, del venir meno o della scomparsa degli ostacoli che fino a quel momento le hanno impedito di vedere la luce.>> La possibilità che la conoscenza e la comprensione sia il risultato di un processo di formazione <<complessa, molteplice, non individuale, non assoggettata al soggetto che produce effetti di verità>> porterebbe, secondo Foucault,  ad approfondire l’analisi della <<capacità produttiva della conoscenza come pratica collettiva>> ricollocando così <<gli individui e le loro conoscenze all’interno dello sviluppo di un sapere che, a un dato momento, funziona con regole osservabili e descrivibili.>> A questo punto lo studioso francese tocca il problema della storia della scienza, marxista, con particolare riferimento, pur senza nominarli,  ai seguaci di Althusser. Sicuramente Althusser riconosce la complessità e l’ineliminabilità dell’ideologia, la sua funzione sociale: <<l’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che in essa la funzione pratico-sociale prevale sulla funzione teorica (o funzione di conoscenza).>> Però anche volendo tenere in considerazione la distinzione tra dimensione pratica e dimensione poietica dell’attività umana mi pare difficile sostenere che le trasformazioni concrete della società siano, per principio, determinate maggiormente dalla coscienza ideologica piuttosto che dal sapere scientifico e dalle sue ricadute tecnologiche. Vi è un’altra ipotesi althusseriana che probabilmente Foucault non condivideva; Althusser affermava che:<<L’ideologia è si  un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la “coscienza”: per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro “coscienza”.>> Anche per Foucault, ovviamente, le ideologie sono dotate di una struttura, ma la natura discorsiva di tale struttura rende problematico il pensare che essa non si manifesti attraverso la coscienza, sempre che non si ritenga la coscienza stessa come il “luogo” della  trasparenza conoscitiva in opposizione ad una dimensione mentale-linguistica inconscia e/o confusa eventualmente da “purificare”. Il rapporto con Chomsky appare allo storico delle idee francese, invece, almeno in parte complementare:<<per me si tratta di cancellare il dilemma del soggetto conoscente, mentre lui vorrebbe far riemergere il dilemma del soggetto parlante. Se è riuscito a farlo riemergere, se lo descrive, è perché ciò era possibile. Da tempo i linguisti analizzano il linguaggio come un sistema con valore collettivo.>> La genealogia e l’archeologia degli enunciati discorsivi nella storia dello sviluppo  dei saperi sociali si coniuga, per Foucault, ottimamente, non solo con la linguistica strutturale, ma anche con un approccio “creativo” come quello di Chomsky. Aggiunge ancora Foucault :<<nell’ordine del linguaggio o del sapere, possiamo produrre qualcosa di nuovo solo mettendo in gioco un certo numero di regole che andranno a definire l’accettabilità o la grammaticalità degli enunciati o che, nell’ambito del sapere, andranno a definire la scientificità degli enunciati.>> Ma a questo punto il linguista americano ripropone in forma nuova la sua tesi iniziale:<<la struttura della conoscenza acquisita nel caso del linguaggio è fondamentalmente innata, mentre la struttura del mondo fisico non è , in modo tanto immediato, interna alla mente umana.>> Difatti l’elaborazione della conoscenza del mondo fisico e sociale dai dati empirici risulta molto più difficoltosa e più prolungata nel tempo e richiede , secondo Chomsky , il contributo di una componente “geniale” necessaria per andare oltre il mero induttivismo e per scandagliare possibilità per i quali i fatti poco ci possono aiutare. Ancora una volta, però, il pensatore francese cerca di riportare l’analisi strutturale al centro della discussione:<<La creatività è possibile unicamente a partire da un sistema di regole. Non è un miscuglio  di regolarità e libertà>>. E queste regolarità non si trovano <<all’interno della mente o della natura umana>> o almeno non solo in esse. Il sistema di regolarità e di limitazioni che rende possibile una scienza è rintracciabile anche nelle forme e nei rapporti sociali. La discussione tra i due pensatori verso la parte finale tocca altri problemi, più politici e contingenti ma adesso possiamo riassumere le posizioni finali, che riguardo alla problematica principale da noi considerata, Foucault e Chomsky hanno sintetizzato.

Chomsky:<< ritengo che sarebbe un gran peccato mettere completamente da parte il compito più astratto e filosofico, tentare di tracciare le connessioni che esistono tra un concetto di natura umana che conceda spazio alla libertà, alla dignità, alla creatività e alle caratteristiche fondamentali della nostra specie e la struttura sociale in cui queste qualità distintive del genere umano possano trovare la loro realizzazione e nella quale possa aver luogo una vita piena di significato.>>

Foucault:<<Ammettendo questo, non rischiamo di definire questa natura umana – che fino ad oggi è stata contemporaneamente ideale e reale, nascosta e repressa – con termini presi in prestito dalla nostra società, dalla nostra civiltà, dalla nostra cultura ? […] Il socialismo del periodo che va dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX >> sosteneva <<che nel sistema capitalistico la natura umana era di fatto alienata. E sognava una natura umana finalmente libera. A quale modello ricorreva per immaginare, prospettare, realizzare tale natura umana ? Di fatto si trattava del modello borghese. […] Del resto è esattamente ciò che è accaduto in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari: la società ricostituita è stata rimodellata sulla società borghese del XIX secolo. L’universalizzazione del modello borghese è stata l’utopia che ha ispirato la costituzione della società sovietica. Il risultato è quello che anche lei ha colto: la difficoltà di definire la natura umana.>>

Il tentativo di legittimare categorie  antropologiche “di confine”, come quella di natura umana, all’interno del campo delle scienze umane non appare quindi ingiustificato, ma la sua difficoltà è la causa principale dello “forza attrattiva” che spinge questa   nozione  in direzione del “polo” filosofico.

Costanzo Preve ha spesso insistito sulla necessità di garantire uno spazio legittimo al pensiero e al discorso filosofico, in quanto delimitato dai contigui spazi epistemologici ed ideologici. Ma l’autonomia della filosofia non è da intendersi “in negativo” come indipendenza dai tipi di conoscenza che la delimitano.

Non possiamo nella nostra valutazione mai evitare di interrogare ogni pensiero filosofico (in particolare quelli di carattere antropologico, etico, di filosofia del diritto e filosofia politica) in relazione alla sua collocazione in rapporto alle scienze umane e sociali da una parte e alla politica dall’altra; nemmeno possiamo trascurare di riflettere sulle funzioni, ovvero capacità, di detto pensiero nell’ articolare un necessario lavoro di  decostruzione ideologica e di chiarificazione dei fondamenti, anche morali, di una determinata “presa di posizione” in rapporto all’analisi strutturale dei conflitti e rapporti sociali e alla pratica politica possibile in  un determinato contesto storico.

 

Mauro Tozzato                        24.07.2007