CAPITALISMO DI STATO E PCI di Gianni Duchini

 

    Gianfranco La Grassa, nel suo ultimo saggio “Cambiare passo”, propone una chiave di lettura teorica del tempo in cui viviamo, con aperture ad ulteriori approfondimenti ed  una sollecitazione ad una rivisitazione  storica delle strutture economico-sociali della seconda  metà del Novecento. Una rilettura piena di implicazioni e di collegamenti, in scenari teorici e politici sempre più vasti, dipanando interpretazioni entro un inesplorato e nuovo paradigma teorico che porta  nella direzione di un superamento di Marx dentro le sue premesse: è,  per certi aspetti, come rovistare con una torcia accesa in una soffitta dimenticata, riconoscendo di volta in volta gli oggetti che fanno ritornare alla memoria episodi e fatti trascorsi di una storia collettiva, sotto l’osservazione di una lente di ingrandimento teorica; gli avvenimenti trascorsi vengono  messi in filigrana e ingranditi nel loro accadimento ricostruendone le sequenze logiche.

    Mi permetto qualche digressione sul Pci e sul Capitalismo di Stato e su come il confronto di questo con il “Socialismo Reale dell’Unione Sovietica (formazione economica-sociale totalmente sconosciuta e poco indagata) abbia creato un equivoco di fondo all’interno del Partito Comunista nel significato di Socialismo e Comunismo, senza un dibattito serio su quella realtà lontana, anche in senso metaforico. Forse una  chiave di lettura un po’ diversa dalla pubblicistica corrente può aiutare a capire questo imbroglio storico perpetrato per un così lungo periodo e, forse,  con più convinzione, la chiave interpretativa và ricercata nella tanto propagandata ”diversità” del Pci.  Gli annessi e connessi di questa diversità comunista hanno portato nella loro conclusione  alla scomparsa di una idea di socialismo radicato nella memoria  e nelle coscienze collettive del popolo del Pci con una identificazione del Socialismo nella “Cosa Pubblica” da preservare, un specie di “panda” in via di estinzione; successivamente, invece, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno “liquidato” l’Iri, grande realtà industriale-bancaria pubblica, a seguito della folle corsa alla privatizzazione.  Il blocco formato  da sindacato e forze politiche della sinistra rimase integro nella privatizzazione della nuova era del “dopo mani pulite”, con l’unico effetto di accentuare il parassitismo finanziario e politico aiutato dalla penetrazione pervasiva delle Banche d’affari americane, alla guida ed al controllo  delle concentrazioni bancarie (vedi San-Intesa) e al grande gruppo di imprese private assistite.   

    Il coacervo economico sociale della grande imprenditoria finanziaria ed industriale assistita dallo Stato,  alleata ai lavoratori dipendenti sotto la protezione di sindacati (corrotti), mi ricorda, in un contesto diverso e, con una piccola provocazione storica, per trasposizione di realtà non troppo dissimile da quella di oggi, l’economia italiana dello Stato fascista nel periodo della grande crisi (1930-1939): all’epoca uno Stato in deficit e con spese pubbliche sempre in aumento, fu aiutato dall’alleanza tra grandi capitalisti e piccoli risparmiatori dipendenti che sottoscrissero, in quel periodo, tutti i prestiti statali al di là di ogni attesa; anzi, si dovette interrompere l’emissione dei buoni nel giro di due giorni accettando, qualche anno dopo, anche il suo consolidamento in una mancata restituzione dello stesso prestito. La diversità di quel periodo fu in un riflesso patriottico oggi mancante, anche se il contesto di alleanze sociali allora creatosi, non mi sembra troppo dissimile da quello di oggi.

   Le trasposizioni storiche in confronti speculari tra formazioni economiche sociali diverse e apparentemente simili furono elaborate da una fitta schiera di studiosi, anche storici, che indagarono sulle similitudini tra i dirigismi dei vari Capitalismi di Stato (vedi confronto tra quello Nazista e quello dell’Unione Sovietica);  confronto che ancora oggi viene rievocato, nonostante la guerra sanguinosa tra i due paesi che si concluse  con la vittoria del paese a guida socialista dell’Urss nella seconda guerra mondiale. Vorrei appuntare il mio intervento su un passaggio di GLG quando afferma: “il cosiddetto socialismo è ancora per noi sconosciuto. Diciamo molto volgarmente, che fu un periodo (relativamente breve e accelerato) di accumulazione originaria capitalistica: del tutto differente da quella studiata da Marx e che quindi ha condotto a formazioni sociali capitalistiche di tipo nuovo; come del resto la progressiva assunzione di preminenza da parte della formazione capitalistica statunitense ha condotto nel “mondo occidentale” a quella che ho genericamente definito società dei funzionari del capitale. Si tratta di formazione sociale capitalistica che non ha più però come classe dominante la classica borghesia e come classe dominata il proletariato o classe operaia, nel senso attribuito a tali espressioni dalla tradizione marxista”.

    L’idea di socialismo che viveva nella cultura del Pci in quegli anni del dopoguerra era collegata, come riflesso, al “Socialismo Reale” dell’Unione Sovietica: specchio deformato di una realtà e di una formazione-sociale totalmente diversa e sconosciuta; tant’è che l’unica idea di socialismo praticabile fu la gestione politica-affaristica della “Cosa pubblica” nella Pubblica Amministrazione. Questo adattamento “politico” all’idea di socialismo nella realtà italiana trovava la sintesi ideale di un felice connubio in un incontro avvenuto nell’immediato dopoguerra tra la cultura cattolica e quella comunista, tra Rodano, leader del gruppo insieme a Napoleoni  della rivista economica dei “Quaderni Trimestrali,” e Togliatti. L’incontro tra le due culture fu antesignano di futuri sviluppi e verteva essenzialmente su come costruire un “socialismo all’italiana”, cioè come far crescere  due o più culture in  un nuovo processo economico-politico; la sintesi culturale si innestò  sul terreno di una realtà economica già consolidata e lasciata come eredità dal fascismo nella struttura dell’imprese di Stato dell’Iri, luogo ideale di mediazioni e di scambi di interessi politici-finanziari. La struttura economica-pubblica lasciata in eredità dal fascismo fu guidata, nell’immediato dopoguerra, da manager-politici in prevalenza democristiani usciti dalla resistenza e dal fascismo, con  una gestione più rivolta agli interessi nazionali ( si pensi a Mattei alla guida ed alla difesa dell’Eni e, con la sua morte (assassinio), alla fine non solo di un sogno di autonomia di una grande azienda, ma, soprattutto, era questo il segnale chiaro da parte USA, alla fine della stessa autonomia nazionale per la  prevalenza degli interessi americani). La morte di Togliatti nella prima metà degli anni Sessanta  fu il segno ulteriore di questo passaggio decisivo: la fine di quelle intese politico-economiche (difesa degli interessi nazionali) nella gestione dell’impresa pubblica. Togliatti rappresentava, paradossalmente, il punto di congiunzione delle linee di demarcazione tra due confini internazionali ed in quella “terra di mezzo” poteva esplicare la sua esperienza già maturata da grande mediatore politico internazionale (fu tra i più importanti membri dell’internazionale comunista). In stretta  osservanza agli accordi di “Yalta,” in corrispondenza agli equilibri creatisi ed in ragione dei rapporti di forza tra Usa e Urss stabilitisi alla fine del conflitto, l’autorevolezza di Togliatti agevolò e rafforzò con la sua esperienza la formazione del maggior partito comunista occidentale; nel Pci, in ragione della  famosa diversità nell’accettazione dei compromessi in tutta dipendenza dei vincoli capitalistici, la struttura pubblica poté essere gestita con una certa continuità  di interessi nazionali. La morte di Togliatti (subito dopo  quella di Mattei) chiuse quel  periodo di relativa autonomia economica e la struttura pubblica che si sviluppò, in parallelo a quella economica fino alla metà degli anni Sessanta con una  maggiore apertura ai mercati e capitali finanziari internazionali, era già più scevra dalla prevalenza degli interessi nazionali. L’economia pubblica si sviluppò, successivamente, con un certo equilibrio cercando però di contemperare gli interessi Usa. L’effetto fu quello di far diventare l’Italia l’unico paese in occidente con una  struttura pubblica ipertrofica. Ed anche qui un paradosso tutto italiano tra i tanti visti: mano a mano che cresceva la struttura pubblica con l’apertura ai mercati e alla finanza internazionale, all’ombra del capitalismo di stato mentre nelle Università si moltiplicavano gli studiosi Keynesiani (diventati religiosi depositari della necessità della spesa pubblica regolatrice della domanda a sostegno dell’economia) si dilatava anche la spesa pubblica, la quale divenne nel tempo un fiume carsico senza apparente controllo di finalità, gestita dalle voraci e corrotte partitocrazie sindacali. 

     Il capitalismo di Stato formato durante il fascismo a difesa alla grande crisi economica internazionale del 1929-32  realizzò quello scudo protettivo (per l’economia italiana) durato fino alla metà degli anni Sessanta; dopodichè,  la discontinuità storica creatasi (dall’inizio degli anni ’70) fece perdere quella  caratteristica  nazionale nell’impresa pubblica ed avviò una modifica delle strutture societarie e finanziarie investendo l’intera articolazione economico-sociale che caratterizzava l’insieme del Capitalismo di Stato Italiano. Il Pci contribuì enormemente a questo cambiamento,  dispiegando tutto il suo potenziale ideologico nell’identificazione del “Socialismo Reale” con l’impresa pubblica di Stato. Nel convegno sulla “Riforma dello Stato” indetto dall’Istituto Gramsci del 1968, troviamo le linee guida di quello che doveva essere il metodo della “programmazione democratica” dell’economia espressa dal capogruppo parlamentare del Pci Edoardo Perna nella sua relazione introduttiva: “Il capitalismo di Stato, giunto in Italia ad un elevato grado di consistenza (il più alto di tutta L’Europa occidentale), è una realtà di così vaste proporzioni da giocare un ruolo decisivo per l’avvenire del paese. Oggi, grazie al fatto che l’effettivo potere di comando è detenuto dalla grande impresa privata, la proprietà e l’azienda pubblica adempiono in buona parte a un compito sussidiario e di sostegno del sistema ….In questa prospettiva, infatti, la natura di per sé ambivalente del capitalismo di Stato potrebbe essere sfruttata nella direzione opposta a quella attuale, per utilizzare le risorse e le aziende pubbliche allo scopo di associare a una programmazione democratica formazioni sociali…”.Come si può dedurre, l’ingresso delle masse popolari nella gestione pubblica veniva interpretata come massima espressione di controllo democratico, prima forma embrionale di Socialismo.

    Con il senno del poi, alla caduta del muro di Berlino e nel dopo mani pulite, qualche conclusione, se pur sinteticamente, si può trarre. Anzitutto sulla partecipazione popolare a sostegno della programmazione democratica del Capitalismo di Stato, primo e fondamentale embrione di Socialismo o, come diceva Amendola, “la classe operaia si fa Stato”. Il senno del poi ci suggerisce che l’ingresso delle masse nel controllo pubblico risultò un puro atto politico di potere di ingresso del Pci nella “Cosa pubblica”, contraltare a quella  ambivalenza sopra indicata di Capitalismo di Stato, sulla necessità di una diversa direzione degli interessi nazionali; la politica del Pci si sostenne, in compartecipazione di interessi finanziari con le altre forze politiche e grazie all’ ideologia  del Capitalismo di Stato, nella tradizione del “Socialismo Reale”. Gli interessi politici-finanziari portati avanti dal Pci, tesi e invasivi, diventarono nel tempo troppo forti e tali da modificare l’intera formazione economico-sociale italiana con la sparizione nel dopo mani pulite, non solo dell’intero quadro politico, ma, insieme a questo, di quasi tutto il Capitalismo di Stato Italiano e di quello che rappresentava: un intero grumo di interessi partitici che conviveva dentro le banche di interesse nazionale e l’industria di Stato. La decisiva  svolta nella finalità degli interessi nazionali fu imposta dal gruppo Pci poi diesse nel dopo mani pulite, con l’ingresso a pieno titolo delle banche d’affari americane che contribuirono ad una modifica totale dell’intera struttura economico-sociale italiana .

    Un  grande scrittore  non riuscirebbe a descrivere compiutamente la trasformazione nel tempo della “Cosa Pubblica” e come questa sia diventata l’oggetto di scambio nella perdita dell’identità nazionale a causa delle consorterie politiche-sindacali che non hanno impedito quel processo, anzi lo hanno favorito. Vorrei aggiungere un ultima annotazione alla degenerazione partitica creatasi; il declino, rapido e verticale del sistema economico può diventare il tassello di un più generale disordine guidato entro un ordine sovranazionale: un collocamento nuovo dell’Italia all’interno del sistema complessivo della politica internazionale che, nella perdita dell’autonomia economico-finanziaria all’interno del sistema euro (in dipendenza di quello Usa), colloca il nostro paese nel ruolo precursore di importanti sviluppi ma anche più esposto alle vicende delle crisi internazionali.

              

G.D    Marzo 2007

 

NON SI MUOVE UNA FOGLIA di Comunità e Resistenza

 

Ha dell’incredibile, quasi del miracoloso. Nel paese con il più alto tasso di scioperi e manifestazioni, non si ode più muovere una foglia. C’ è un silenziatore che ha ovattato ogni forma di protesta. Da quando c’il Prodi-Bis tutti sembrano essere tornati felici e ubbidienti.

In verità i sindacati lo sono stati anche all’epoca del Prodi – uno, non un fiato, non una parola sulla Finanziaria più pesante degli ultimi dieci anni, non un dissidio, ma anzi un entusiasmo senza pari (visto che gestiscono anche loro i fondi-pensione) allo “scippo” del TFR, e che c’è da giurarci, faranno lo stesso con l’innalzamento dell’età pensionabile. Sono riusciti persino nel miracolo di far fare bella figura all’UGL nelle elezioni delle RSU delle fabbriche del Nord.

 

Eppure di vertenze “calde” e di riassetti industriali pesanti ce n’è a iosa, da Alitalia a Telecom, passando per Autostrade, ma “loro” zitti, muti, profilo basso, qualche battuta da “Ballaro’” e poi via

C’è da dire che Prodi ha fatto il miracolo: persino sulla guerra in Afghanistan è riuscito a far votare compatti e ubbidienti tutti i “balilla “del PRC che sono andati anche a proporre un ampliamento delle coltivazioni dell’oppio afgano a scopi terapeutici…..mentre lì si combatte e si sterminano civili innocenti.

 

Resta solo la Chiesa a rompere i coglioni a Prodi …con i DICO…non ne vogliono sapere OltreTevere, vuoi vedere che è rimasta solo la Chiesa a fare opposizione in questo dannato Paese?

 

Questo centrosinistra ha ormai steso una ammorbante cortina di cloroformio su un paese sfinito, in preda ad un decadimento veloce quanto inarrestabile, dove il progressismo unito all’egoismo strafottente della borghesi rampante sta devastando quel minimo di coscienza civile, non parliamo di solidarietà sociale.

 

Il “tutti contro tutti” nell’Italia “pacificata “ è la logica imperante e i decreti sulle liberalizzazioni di Bersani iniettano un’altra massiccia dose di individualismo abietto e di egoismo sociale mascherato da tutela dei “consumatori” (leggi delle concentrazioni capitalistiche più forti).

 

Insomma che non si “muova una foglia” è la nuova parola d’ordine del regime prodiano che tutto ingloba e tutto digerisce. Dalla sedicente sinistra radicale a Mastella che cerca di recuperare i cattolici. L’unico che sembra voler guastare la festa è Papa Ratzinger.

 

Amen

 

www.comunitarismo.it

 

14/3/2007

 

 

 

CRIMINI E POLITICA di Lucio Garofalo   

 

 

Secondo statistiche ufficiali, ogni anno in Italia verrebbero commesse molte centinaia di migliaia di violazioni della legge (ovviamente si tratta dei reati formalmente denunciati e accertati), che vanno dalle piccole infrazioni del codice penale ai reati più gravi quali usura, estorsioni, rapine, sequestri di persona, sfruttamento e riduzione in schiavitù, omicidi, e via discorrendo.

Nel contempo le carceri italiane, già sovraffollate, hanno spazi assai carenti e limitati, per cui non riescono ad ospitare i violatori della legge che in pratica restano impuniti. In tale situazione sono i grandi criminali che riescono a beneficiare delle enormi lacune del sistema carcerario italiano. Non è un problema di sedi penitenziarie, di luoghi fisici di detenzione, altrimenti basterebbe costruire nuove strutture carcerarie per risolvere la questione. A riguardo penso che sarebbe meglio investire la spesa sociale nella costruzione di moderni e attrezzati alloggi, scuole e ospedali, per rispondere alle drammatiche istanze sociali derivanti dalla crisi abitativa, dalla questione scolastico-educativa e dall’emergenza sanitaria.

L’azione dei governi in materia di criminalità si riduce a periodiche e provvisorie strategie di repressione poliziesca (si pensi, ad esempio, al blitz compiuto alcuni anni fa a Scampia, il "famigerato" quartiere di Napoli) che sono sempre pilotate e condizionate da interessi e meccanismi di ricerca del consenso popolare, strategie che presuppongono e richiedono un ruolo decisivo legato all’esercizio dell’informazione quotidiana di massa.

In tal senso, i più importanti mass-media nazionali, network televisivi in testa, tendono a promuovere periodicamente vaste campagne di informazione propagandistica che rendono di "moda" alcuni tipi di reati.

Non è un discorso aberrante o delirante perché, di fatto, si tratta proprio di "mode", ossia di un sistema di amplificazione e di esaltazione del crimine mediante forme subdole e striscianti di comunicazione, cioé attraverso meccanismi pubblicitari capillari che agiscono sul piano inconscio e subliminale, alla stessa stregua dei messaggi della pubblicità commerciale che ormai ci bombarda continuamente, e ossessivamente, in TV, alla radio, sulla stampa, su Internet, sui telefoni cellulari, insomma dappertutto, in ogni momento della nostra giornata.

Alcuni decenni fa, ad esempio, ci fu la "moda" del brigatismo. Infatti, i mass-media fecero da potente cassa di risonanza rispetto ad un fenomeno solo apparentemente eversivo e destabilizzante, ma che in effetti servì a stabilizzare e a rafforzare il sistema vigente, nel senso che gli attentati brigatisti, come altri crimini terroristici (si pensi alle stragi neofasciste, da Piazza Fontana nel 1969, alla stazione di Bologna nel 1980), furono tante occasioni utilizzate per legittimare e suscitare l’invocazione di leggi punitive speciali, che furono poi effettivamente varate dallo Stato. Una legislazione d’emergenza che è rimasta in vigore troppo a lungo, non tanto per vincere le organizzazioni terroristiche e contrastare i delitti da cui sembrava scaturire la sua ragion d’essere, quanto invece per criminalizzare e bloccare l’ascesa di massicci movimenti di lotta sorti alla fine degli anni Sessanta. Anni in cui si costituì un blocco sociale retto sull’alleanza tra studenti e operai, un connubio che inquietava non poco il potere politico-sociale ed economico della borghesia italiana più reazionaria, che non a caso si servì della "strategia della tensione" per insanguinare le piazze italiane durante gli anni Settanta, così come la borghesia agraria e capitalista degli anni Venti si servì dello squadrismo fascista per impedire gli scioperi dei contadini e degli operai e per frenare l’ascesa rivoluzionaria del proletariato. L’avvento del regime di Mussolini completò l’opera oltranzista e repressiva contro le masse popolari italiane, fino alla tragedia della seconda guerra mondiale. La resistenza antifascista fu la naturale, inevitabile conseguenza di tali avvenimenti.

Successivamente, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con l’esplosione del fenomeno "hooligans", importato dalla Gran Bretagna, la società italiana ha dovuto sopportare nuove campagne tese a promuovere i delitti connessi al teppismo negli stadi di calcio, un problema ancora caldo, sempre attuale e presente nel proscenio nazionale, un tema a cui sarebbe opportuno dedicare una trattazione più adeguata e approfondita.

In altre fasi si è assistito a campagne di informazione, ma sarebbe meglio chiamarle di disinformazione, che enfatizzavano e privilegiavano il fenomeno dei sequestri di persona, ad esempio in Aspromonte. Non a caso, ci fu subito qualche "eminente" personalità politica (basti ricordare l’allora capo del governo, il democristiano Forlani, nonché alcuni noti esponenti della destra neofascista) che ne approfittò per rilanciare una proposta di legge a favore della pena capitale, fortunatamente senza successo.

Negli ultimi anni, in Italia si è alimentato un clima di crescente attenzione e tensione intorno ad alcuni reati di opinione e di associazione, attraverso campagne volte a criminalizzare il cosiddetto "movimento dei movimenti", i movimenti antagonisti e i gruppi new-global, per evocare reazioni autoritarie e repressive, fino all’estrema richiesta e al ricorso di un intervento armato, come accadde a Genova durante il G8 del luglio 2001.

Inoltre il sistema dell’informazione di massa concorre ad allestire ricorrenti campagne di allarmismo sul rischio terroristico, non più di tipo "brigatista" ma di matrice "islamico-fondamentalista", oppure rispetto ad altre forme delinquenziali come i frequenti episodi di violenza negli stadi di calcio.

Il meccanismo in questione è profondamente ipocrita, cinico e perverso, nella misura in cui l’intento reale non è affatto quello di combattere il crimine, bensì quello di provocare reazioni collettive di sdegno e di rabbia nella pubblica opinione, per legittimare in tal guisa risposte di tipo autoritario e poliziesco e, in ultima analisi, per riscuotere un maggiore consenso politico-elettorale.

Come è accaduto tante volte in passato, anche oggi da parte delle forze governative si tenta di strumentalizzare il "crimine" per biechi scopi elettorali, inseguendo l’approvazione da parte dell’opinione pubblica, montata ad arte dall’assordante propaganda di alcuni potenti mass-media che rincretiniscono sempre più la gente, rendendola inetta a pensare e ragionare con la propria testa.

Il fine ultimo sarebbe, in sostanza, quello di raccogliere un bel mucchio di voti alle elezioni di turno, ma di certo non quello di stroncare la "delinquenza" (si pensi alla mafia, alla camorra e altre associazioni criminali, che sono sempre molto attive e potenti), dato che è impossibile farlo sul versante della repressione e della soluzione carceraria, per le gravi insufficienze e contraddizioni inizialmente rilevate.

Pertanto, la risposta più giusta e razionale rispetto ai fenomeni criminali non è la repressione poliziesca e carceraria, in quanto il carcere è diventato un arnese obsoleto, un anacronismo storico-culturale, come lo sono la tortura, la pena di morte, la schiavitù e altre pratiche assolutamente incivili e disumane.

Semmai occorrerebbe mettersi d’accordo sul significato della parola "crimine". Occorrerebbe appurare e stabilire, ad esempio, se l’evasione fiscale è o non è un crimine di natura antisociale, come pure altri reati di ordine economico che il governo Berlusconi ha depenalizzato: si pensi al falso in bilancio. Al contrario sono state inasprite le pene rispetto a comportamenti ritenuti "devianti" quali, ad esempio, il consumo di droghe leggere.

Insomma, la giustizia è sempre relativa; la legge, il diritto e la morale sono storicamente determinati dagli assetti e dagli equilibri del potere, per cui ciò che un tempo costituiva un "peccato" o un "delitto", oggi può non esserlo più, e viceversa. Talvolta si può verificare un imbarbarimento dei costumi, un regresso culturale e politico della società, per cui vecchie norme, morali e giuridiche, che sembravano superate, vengono restaurate.

Queste sono le principali incoerenze e ingiustizie di un sistema economico-giudiziario, per cui chi evade le tasse per milioni di euro o falsifica i bilanci di grosse società finanziarie truffando e derubando centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, la fa franca, mentre chi si fa semplicemente una canna rischia di finire in galera o, in alternativa, è costretto a "scegliere" un periodo di detenzione in un centro di "cura" e "disintossicazione".

La politica dei governi non fa altro che legalizzare e risolvere formalmente tali storture e contraddizioni.

D’altronde, come diceva il grande scrittore francese Balzac: "dietro ogni grande fortuna economica si cela un crimine".

Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.

 

 

CARI COMPAGNI, di Lucio Garofalo

 

io mi ritengo un compagno (seppure atipico, è vero) assai controverso, irrazionale e razionale fino in fondo, irriverente e dissacrante (soprattutto verso gli abusi del potere), anarchico e comunista, molto esigente e in un certo senso individualista, intransigente, stizzoso e irascibile, sempre ostile di fronte ai torti e ai soprusi commessi a danno dei soggetti più deboli e indifesi della società, da parte di chi detiene le leve del comando e lo gestisce molto male.

 

Senza dubbio posso definirmi corretto, leale, schietto, perfino buono d’animo, ma nient’affatto buonista, né bigotto, probabilmente “maledetto” ed inviso ai tanti bacchettoni in circolazione.

 

A modo mio sono sempre stato coerente, sebbene si tratti di una coerenza difficile da riconoscere e da accettare, in un certo senso indecifrabile, interiore e introversa.

 

Non sono, né mai sono stato, un moralista, un falso predicatore, un millantatore, un impostore, uno che predica bene e razzola male. Probabilmente sono uno che predica male, se non malissimo, e razzola molto peggio!

 

Al contrario, ho sempre detestato e disprezzato i farisei, i perbenisti, i baciapile d’ogni dove e d’ogni tempo, di ieri, oggi e domani, anche  e soprattutto gli ipocriti e i benpensanti che s’annidano, numerosi, nelle schiere, ordinate e disciplinate, dei vostri partiti e delle vostre organizzazioni, sempre più somiglianti agli altari, ai sacrari, ai santuari incensati e glorificati in cui si mescolano il sacro e il profano, il dogma e la rivoluzione, l’ortodossia e l’eresia. E in cui alloggiano e gravitano i nuovi maestri e i nuovi apostoli, chierici, prelati, curati e cappellani, parroci, seminaristi e sacrestani, devoti e praticanti, con i loro abiti talari, i collarini, gli zucchetti, le felpe e i cappucci da battaglia, le sottane e gli eskimi, i sandali e gli zoccoli, le processioni e le marce, gli inni e i salmi, le litanie e le giaculatorie, i riti e le cerimonie liturgiche, le feste da onorare e finanziare, i decaloghi e i comandamenti da osservare, gli esercizi spirituali e le penitenze, le missioni, le benedizioni, le genuflessioni e le confessioni, le blasfemie e le eresie, le scomuniche e le epurazioni, le abiure e le ritrattazioni, le persecuzioni e le condanne, i misteri, gli scandali, persino gli esorcismi…

 

Emarginandomi dal vostro partito-chiesa pensavate di avermi tacitato per sempre?

 

Invece vi eravate clamorosamente sbagliati, come al solito. In realtà, è il sottoscritto che ha deciso alcuni anni or sono di fuoriuscire dalla vostra congrega clerico-settaria e pseudo-rivoluzionaria, verticistica e neodemocristiana, che ingabbia e imprigiona le menti più libere e brillanti, le coscienze più oneste e sincere, più giuste e leali.

 

Il vostro è un sistema che opprime e schiaccia la libertà di pensiero e di azione, la forza del dubbio e della critica, il coraggio dell’analisi lucida e dell’utopia che si fa realtà, che costituiscono la linfa vitale di ogni teoria e di ogni movimento storico autenticamente rivoluzionario, che non si frena di fronte al primo ostacolo o alla prima poltrona, come affermava il grande poeta e rivoluzionario russo Vladimir Majakowskij, che non a caso fu una delle numerose vittime perseguitate dal regime stalinista.

 

Ed eccomi ancora qui, autonomo e cosciente, sempre pronto a rompere le scatole e a disturbare la macchina del potere, in qualunque forma esso si manifesti per ingerire nell’esistenza delle singole persone, per dettare e imporre le sue ingiuste leggi e i suoi precetti canonici che i potenti sono i primi a violare, per sancire arbitrariamente ciò che è bene e ciò che è male, per violentare e deturpare la verità e la natura dell’uomo.

 

Mi pongo tante domande, nutro molti dubbi, e avrei da proporvi mille quesiti che mi assillano, ma mi preme soffermarmi in modo particolare su una questione fondamentale.

 

Perché uno come me dovrebbe occuparsi di politica, nel senso di iscriversi e militare più o meno attivamente in un partito politico (qualunque esso sia), magari nel vostro partito, il cui scopo precipuo sembra essere la conquista di un crescente livello di potere, ovvero di un crescente numero di voti e di consensi, di tessere e di poltrone, di cariche istituzionali?

 

Francamente, questo modo di far politica, benché camuffato sotto le vesti posticce di movimenti di lotta, di battaglie e vertenze territoriali, guidate in maniera strumentale e fraudolenta, proprio non mi attrae e non mi interessa.

 

Purtroppo, questa è la prassi dominante e più seducente, specie nelle nostre zone, da sempre controllate da un sistema di potere clientelare e trasformistico, dall’epoca della dinastia borbonica all’avvento della monarchia sabauda, dal regime fascista a quello democristiano.

 

Ebbene, tale potere mi ha sempre atterrito e nauseato, sin dai tempi in cui da noi spadroneggiava e imperversava la vecchia Dc, i cui emuli-servi sono tuttora in auge, sempre devoti, deferenti e ossequiosi ai comandi dell’ “uomo del monte”, ma sempre pronti a issarsi sul carro dei nuovi vincitori, allorquando il vecchio potere pare destinato a tramontare.

 

Ancor meno questa politica mi può coinvolgere e adescare oggi, in un partito “sfigato” come il vostro, costretto ad accontentarsi delle minuzzole e degli avanzi concessi dai “soci” più famelici e voraci, essendo adusi a dividersi e a fagocitare le fette più grosse.

 

Per fortuna nella vita esistono altre nobili, preziose e gratificanti attività, del corpo e dello spirito, a cui è possibile dedicare e consacrare il proprio tempo.

 

La rivoluzione, il progresso e l’emancipazione del genere umano, pretendono ben altro, esigono verità e dubbi permanenti, idee nuove, ma soprattutto il coraggio di esporle e propugnarle fino in fondo, senza arrestarsi e accontentarsi di una poltrona, ancorché comoda e allettante.

 

 

 

P.S.: mi riferisco e mi rivolgo esplicitamente ai quadri dirigenti del P.R.C., che hanno lasciato alla deriva (anzitutto ideologica e politica) il partito, abbandonando di fatto migliaia di militanti e i numerosi circoli territoriali della base, che non hanno più un’identità culturale ben precisa, non sanno più come definirsi e non hanno più termini e valori di riferimento teorici, e quindi pratico-politici, a cui aggrapparsi e richiamarsi. Insomma, la domanda capitale che in tanti si pongono è la seguente: cosa è diventata Rifondazione comunista? Un’organizzazione comunista e antifascista, o semplicemente un movimento pacifista, non violento, nel senso ghandiano del termine? O nemmeno questo? Forse, il P.R.C. si è trasformato, o si sta trasformando in un partito democratico-borghese, radicalchic, riformista? O, più semplicemente, Rifondazione comunista è diventata una forza filo-governativa, addirittura la "guardia pretoriana" del ragionier Fantozzi-Prodi(torio)?… Ai posteri l’ardua (nemmeno tanto ardua) sentenza