PROCESSO OGGETTIVO E CONOSCENZA OGGETTIVA di F. D’Attanasio
Penso che la “svolta” data da La Grassa al leninismo, ma anche al marxismo, “traghetti” la “nuova” teoria critica (anche se in effetti non ancora si può parlare di teoria, meglio sarebbe parlare di una fase di tentativo di fuoriuscita da una vecchia teoria così come d’altronde risulta dalle sue stesse intenzioni dichiarate, vale a dire della necessità di un superamento radicale del marxismo-leninismo ma partendo da esso e seguendone le direttrici fondamentali) verso sponde eccessivamente soggettivistiche: almeno mi sembra sia questa l’aspetto più evidente allo stato attuale dell’arte.
L’oggettività non gioca più nessun ruolo se non per la parte riguardante l’alternarsi delle fasi mono e poli-centriche; ma tutto vien fatto risalire all’impostazione fondamentalmente nuova (seppur avente forse molti caratteri in comune con il pensiero di Althusser) secondo cui non avrebbe più nessuna valenza la teoria del valore nell’ambito di una più ampia e generale teoria fondamentalmente politica-rivoluzionaria (e non solo socio-economica); in realtà viene abbandonata in questa nuova prospettiva (teorica) anche il concetto di rapporto dialettico tra rapporti sociali di produzione e livello di sviluppo delle forze produttive.
Non penso si possa facilmente tralasciare l’oggettività presente nel complesso ed articolato corpo teorico di Marx. Con oggettività intendo tutti quegli aspetti che in qualche modo possono essere considerati come indipendenti dalla volontà diretta degli individui, che dipendono fondamentalmente dai meccanismi sociali impersonali (storicamente determinati) in cui gli stessi individui si trovano ad agire. La valorizzazione del capitale è per Marx il meccanismo fondamentale che influenza (connatura, illumina di una luce particolare) tutti gli altri, e nell’analizzarlo a fondo introduce tutta una serie di grandezze sicuramente non misurabili in senso assoluto, come se fossero grandezze fisiche, ma messe comunque in relazione (quantitative) fra di loro (capitale fisso, capitale variabile, saggio del plusvalore, saggio del profitto ecc.). Ora anche se quel che importa in maniera prioritaria è l’aspetto qualitativo, il che rimanda al rapporto sociale che sottostà a detti concetti e categorie, non penso si possa facilmente trascurare l’aspetto quantitativo proprio perché in Marx essi sono in rapporto dialettico. Non è che bisogna ritornare sulle note questioni delle aporie della teoria del valore ecc., perché non è lì il problema (nel senso che l’approccio giusto non può essere quello prettamente matematico, né d’altronde si verifica una caduta tendenziale del saggio del profitto che porterebbe ad una crescente proletarizzazione della società con conseguente sua configurazione fondamentalmente dicotomica) ma comunque rimane l’importanza di come il livello materiale di sviluppo delle forze produttive (il livello tecno-scientifico, ma anche altri fattori comunque non direttamente collegati a questo come ad esempio sociali, culturali, fisico-naturali ecc.) possa produrre determinate condizioni sociali che siano più o meno favorevoli alla trasformazione dei rapporti sociali. D’altronde come lo stesso La Grassa dice, i mezzi necessari per poter espletare la lotta per la supremazia vanno reperiti tramite l’attività economica (produttiva e finanziaria), ossia tramite la valorizzazione del capitale, ma quest’ultima non si persegue tramite attività puramente ed esclusivamente di natura economica ma anche con l’ausilio di pratiche politiche e militari, volte queste ultime essenzialmente all’ottenimento di zone di influenza che assicurino mercati ed altre risorse. Si tratta, mi sembra con tutta evidenza, di un ragionamento “circolare” e quindi quali risvolti può avere, in termini scientifici ed analitici, in un processo del genere, fissare in maniera statica ed univoca quale sia il fine e quale il mezzo, in quanto entrambi i termini di esso (la valorizzazione del capitale-supremazia) sembrano contemporaneamente fine e mezzo? Lo stesso Marx nel “Capitolo sesto inedito” ribadisce, mi sembra in maniera abbastanza netta ed inequivocabile, che il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro al capitale avviene con l’introduzione, nelle fabbriche, del sistema delle macchine; quindi il fattore decisivo della piena affermazione del modo di produzione capitalistico è proprio un certo livello di sviluppo delle forze produttive, un livello tale da permettere la divisione tecnica del lavoro cioè la parcellizzazione delle varie funzioni lavorative prima prerogativa piena ed assoluta dei lavoratori; questo tipo di organizzazione produttiva porta quindi all’espropriazione dei saperi attinenti le capacità lavorative a danno dei lavoratori stessi, proprio in virtù del fatto che detti saperi risultano così incorporati nelle macchine: il risultato è che gli operai si trovano ora a svolgere funzioni molto semplici essendo fondamentalmente appendici delle macchine, ed inoltre, come conseguenza di detto processo storico, costretti necessariamente, per poter sopravvivere, a vendere la propria forza lavoro al capitalista. Quindi il rapporto dominio-subordinazione si ristabilisce, sarebbe più corretto dire si trasforma, mutando la sua più intima natura, vale a dire da ideologica-religiosa ad economica- produttiva, e la classe che storicamente assurge al ruolo primario di detta trasformazione è la borghesia la quale si afferma come parte del più vasto e generale processo storico. La coscienza della classe borghese − la coscienza del proprio ruolo storico − non è preesistente a detto processo, ma si afferma in concomitanza con esso, e precisamente quando il rapporto sociale di produzione capitalistico arriva a piena maturazione storica.
La produzione generalizzata di merci, il prodotto del lavoro umano organizzato socialmente in maniera capitalistica, il quale rimanda alle categorie di lavoro concreto ed astratto, di lavoro vivo e lavoro morto (con la supremazia del lavoro morto su quello vivo), lo scambio generalizzato di merci fanno sì che i prodotti stessi del lavoro umano diventino un vero e proprio feticcio. I rapporti sociali risultano reificati, cioè non sono direttamente sociali, ma mediati da rapporti tra cose (i prodotti del lavoro); il mercato, il luogo dello scambio delle merci, sembra acquisire una vita ed un potere proprio, le sue dinamiche sembrano al di sopra di tutti e di tutto: una sorta di potenza sovrannaturale che domina gli uomini senza nessuna distinzione di classe. (Nelle società antecedenti invece il rapporto dominio subordinazione era diretto ed esplicito e chiaro anche ai dominati; per far sì che i sottoposti accettassero la loro condizione come comunque immodificabile, nella società feudale ad esempio, giocavano un ruolo determinante questioni di ordine prettamente religiosi). E’ proprio da queste considerazioni sulla natura feticizzata dei rapporti sociali che trae origine la convinzione di Marx della necessità della analisi volta a scavare oltre le apparenze per mostrare come le merci ed il mercato non vivono di vita propria ma discendono direttamente dai rapporti tra i vari produttori e dal rapporto operaio-capitalista. Il punto a questo punto che, a mio avviso, va sottolineato è che la teoria di Marx si spinge oltre, da teoria critica volta a svelare la vera natura delle relazioni sociali caratterizzanti la formazione sociale a modo di produzione capitalistico, diventa anche scienza “positiva”: ma ciò è la conseguenza logica della concezione che lo stesso scienziato aveva delle scienza sociale, vale a dire che essa potesse rispecchiare la realtà, potesse realmente e concretamente produrre tutto un insieme concettuale e categoriale capace di dare un quadro (seppur sintetico) d’insieme veritiero della struttura della formazione sociale ed addirittura prevederne le dinamiche future. Il metodo dialettico gioca un ruolo fondamentale in relazione soprattutto all’ultima questione, vale a dire a quella della trasformazione dei rapporti sociali: ma l’influsso hegeliano sul pensiero di Marx non si limita a ciò: difatti a me sembra abbastanza evidente come il pensatore di Treviri tendesse a considerare le società umane in continua evoluzione, una evoluzione in un certo senso intrinseca a tutti gli ambiti della realtà, quindi è come se il capitalismo rappresentasse l’ultimo gradino delle tappe evolutive della società umana prima del “paradiso terrestre”, potendo essere considerato tale una società non più divisa in classi dove regni il principio “ognuno secondo le sue possibilità ed ad ognuno secondo i suoi bisogni” (anche se non possiamo dimenticare che il tutto doveva comunque maturare attraverso un periodo di transizione cioè il periodo della dittatura del proletariato).
Ma a questo punto è bene mettere in rilievo alcune problematiche. In che modo l’analisi scientifica (fatta utilizzando determinate categorie piuttosto che altre) ci fornisce gli strumenti giusti per fare delle previsioni sulle dinamiche socio-politiche? E’ giusta la pretesa che nel campo sociale si possa riuscire a sviluppare una teoria critica (o meglio fino a che punto è giusta detta pretesa), talmente approfondita da cogliere gli aspetti sostanziali alla base dei fenomeni, che possa spingersi fino alla previsione in termini di trasformazione radicale delle relazioni sociali? Una progettualità politica rivoluzionaria, essendo per l’appunto rivoluzionaria, quindi ponendosi in una prospettiva al di là (ma anche al di fuori) di quelle che sono le condizioni concrete di vita degli individui, in che modo può dar effettivamente vita ad un processo di aggregazione di forze? I processi storici hanno una dimensione temporale molto più ampia di quella della vita degli individui, che così realmente e concretamente sono costretti a vivere il contingente (rispetto cioè a quelli che possono essere considerati i tempi storici). La soggettività politica, anche quella “maggiormente” cosciente (secondo un ben determinato punto di vista e secondo un particolare approccio teorico) si trova completamente implicato nei processi storici e ne costituisce comunque una parte (più o meno rilevante); il processo di astrazione alla base dell’analisi è comunque una “simulazione” (finzione) ed è intimamente legato ai presupposti rispetto ai quali muove la prassi teorica stessa. L’indagine scientifica che pretende di andare al di là, cioè di fare previsioni di lunghissimo periodo, fino a spingersi addirittura oltre l’organizzazione sociale stessa che essa critica, alla ricerca di un’alternativa del tutto diversa, più giusta, addirittura basata sulla piena cooperazione ed autodeterminazione di tutti gli individui, “pecca di presunzione” poiché gli stessi strumenti teorici di cui fa uso in ciò, sono storicamente determinati e si sviluppano insieme alla totalità sociale e quindi risultano al presente sempre inadeguati se utilizzati in una prospettiva del genere. Le stesse categorie teoriche necessarie per svelare le relazioni sociali reificate (se non fossero tali non ci sarebbe bisogno dell’indagine scientifica in quanto gli individui si autodeterminerebbero avendo completamente in mano le sorti della propria esistenza) sono feticizzate e concretamente non esistono una soggettività ed una oggettività (questa è solo una separazione logica di cui abbiamo bisogno per l’elaborazione scientifica) ma esiste una totalità dialettica in continua trasformazione senza nessuna immanenza o legge oggettiva di sviluppo che la caratterizzerebbe in maniera esaustiva. Quindi porsi in chiave rivoluzionaria, senza le dovute precauzioni, potrebbe essere totalmente fuorviante in una qualsivoglia prassi politica, in quanto appunto potrebbe inficiare la prassi stessa relegandola in una prospettiva che è solo nella nostra testa e che storicamente non è inscritta in nessuna dinamica oggettiva di sviluppo del capitalismo. E’ bene ricordare che il concetto di socialismo scientifico (elaborato fra l’altro in maniera particolare da Engels il quale curò la stampa e la pubblicazione del secondo volume del Capitale che Marx lasciò sotto forma di semplici manoscritti) poggia su due aspetti cardini: conoscenza oggettiva e processo oggettivo. La società viene considerata come regolata da leggi proprie indipendentemente dall’azione soggettiva umana, quindi esiste un movimento oggettivo della storia delle società umane verso un fine; ed è proprio il marxismo la teoria scientifica che ci fornisce la conoscenza corretta della storia; quindi chi detiene la verità del socialismo scientifico deve in qualche modo guidare le masse prive di una coscienza adeguata dello sviluppo storico del capitalismo. A questo punto diventa palese come il soggetto politico che detiene la coscienza giusta, in virtù proprio di questa “giustezza”, si possa sentire in diritto (avendo dalla propria la certezza e la sicurezza degli stessi avvenimenti storici) di assumere anche posizioni di forza e di compiere atti scellerati ai danni degli stessi individui verso i quali si adopererebbe allo scopo di liberarli dalla schiavitù del lavoro salariato. Ma il problema è qui: chi e che cosa ci può dare questa sicurezza? «Chi ha la conoscenza corretta, e come l’ha ottenuta? Chi è il soggetto di tale conoscenza?….Il dibattito politico comincia a essere concentrato sulla questione della “correttezza” e della “linea corretta”. Ma noi come facciamo a sapere (e come fanno loro) che la conoscenza di “quelli che sanno” è corretta? Come si fa a dire che i sapienti (il partito, gli intellettuali o chiunque sia) hanno trasceso le condizioni del loro spazio sociale e del loro tempo sociale in modo tale da aver ottenuto una conoscenza privilegiata del movimento storico? E quello che forse è più importante politicamente: se si prospetta una distinzione fra quelli che conoscono e quelli che no, e se si considera che la comprensione o la conoscenza sono importanti per la guida della lotta politica, allora quale deve essere la relazione organizzativa fra i sapienti e gli altri (le masse)?» (J. Holloway in “Cambiare il mondo senza prendere il potere” ed. Intra Moenia).
In sostanza penso si debbano abbandonare quelli che erano i presupposti epistemologici alla base del socialismo scientifico (così come elaborati soprattutto da Engels e che hanno profondamente influenzato le varie correnti marxiste storicamente esistite), vale a dire la dualità (separazione) dei due cardini di esso: processo oggettivo e conoscenza oggettiva e piuttosto concepire la rivoluzione non come un complesso di pratiche prodotte da una organizzazione che ad un certo punto, in virtù delle sue proprie capacità strategiche e politiche, (e sfruttando comunque una situazione storica particolarmente dannosa per i dominati) riesca ad esprimere una egemonia sociale; non andrebbero a mio avviso, in relazione a questa problematica, trascurati gli altri fattori congiunturali (oggettivi), di qualsiasi ordine, comunque necessari per l’avvio di un processo di transizione verso una diversa struttura delle relazioni sociali. Detto in altri termini bisogna comunque sempre rimanere nell’ordine delle idee che il soggetto è tale solo ed esclusivamente in relazione a tutto il resto, che i processi storici producono le congiunture favorevoli o no a certe direttrici di sviluppo, dove le congiunture comprendono anche la pratica teorica e politica dei soggetti in campo (cioè i soggetti stessi). La separazione tra lotte soggettive per un mondo migliore e movimento strutturale oggettivo della storia è solo una finzione, d’altronde il fatto che Marx mettesse in rapporto dialettico i rapporti sociali di produzione ed il livello di sviluppo delle forze produttive è indice, a mio avviso, del fatto che tendesse a mettere questi due fattori sullo stesso piano in termini di importanza per il rivoluzionamento della società.
Per concludere, penso che le considerazioni generali di natura teorica sono sicuramente necessarie, se hanno però l’obbiettivo della trasformazione sociale, e non sono pura “elucubrazione filosofica” fatta per il solo gusto di farla, però bisogna anche prendere atto di quanto poco interesse in generale ci sia intorno a queste tematiche; oggi più che mai sarebbe necessario che tali questioni quantomeno occupassero una nicchia socio-culturale e non fossero appannaggio esclusivo di pochi intellettuali; questo è un grosso problema politico che dovrebbe essere affrontato più seriamente, gli intellettuali svolgono una funzione importantissima ma se rimangono completamente inascoltati, se il loro parlare è un “parlare al vento”, allora quantunque si possa essere d’accordo con la loro visione, il loro contributo perde molto di quell’utilità sociale che dovrebbe invece avere.
Maggio ’07