IDEOLOGIA UMANISTA E ANTIUMANISMO TEORICO

 

Quest’oggi vorrei proporre ai lettori del blog un estratto da un saggio di Louis Althusser “Per Marx” (Editori Riuniti, 1974, II ristampa) che ho titolato “Ideologia umanista e antiumanismo teorico”. Nonostante questo breve passaggio, estratto dal succitato testo, sia del ’63 mi sembra piuttosto attuale dato il rigoglio di certe “ideologie” sulla natura umana (quest’ultima sarebbe perennemente uguale a sé stessa, e quindi incorruttibile “nonostante” l’incedere “alienante” dei rapporti sociali cosizzati della riproduzione capitalistica, la quale, infine, “scalfirebbe” solo la superficie di questa natura e non i suoi fondamenti), come strumento di lotta al capitalismo. Spesso i filosofi “se la suonano e se la cantano” (alienazione sì, ma solo fino ad un certo limite, quello che loro stessi stabiliscono) e, per quanto io non abbia le conoscenze adeguate per un tale sconfinamento di campo, non voglio rinunciare a pormi delle domande. E’ solo un caso se le “storie” sulla natura umana tornano in auge allorquando arretra la Teoria Scientifica? Già Althusser sosteneva che l’umanismo filosofico è meramente “un supplemento d’anima” che si rafforza laddove s’ingrossa il vuoto teorico (vedi l’attuale fase di rottura e “rimodulazione” del capitalismo con le vecchie teorie che si rivelano totalmente incapaci di cogliere il “sostrato” di queste trasformazioni). In sostanza, la mancanza della Teoria genera un raddoppiamento ideologico di “salvezza” esprimentesi in un sentimentalismo romantico (l’umanismo appunto) che non ha nulla a che vedere con l’approntamento di una pratica teorica antisistemica. Althusser, tuttavia, concede a tale umanismo la dignità della “buona” ideologia solo laddove esso stesso comprende che la sua funzione è quella del “segnale”, della indicazione della strada verso il nuovo campo scientifico. Raggiunto questo scopo l’ideologia umanista deve arrestarsi e dissolversi. Cioè, tale ideologia svolge appieno la sua funzione propiziatrice “consumandosi” nel percorso che ci conduce al campo “privilegiato” della scienza o, se si preferisce, a quello delle ipotesi scientifiche.

Ma adesso seguiamo L. Althusser.


III
Dal 1845, Marx rompe radicalmente con ogni teoria che fonda la storia e la politica su un’essenza dell’uomo. Questa rottura unica comporta tre aspetti teorici indissociabili:

1. Formazione di una teoria della storia e della politica fondata su concetti radicalmente nuovi, cioè su concetti quali: formazione sociale, forze produttive, rapporti di produzione, sovrastruttura, ideologie, determinazione in ultima istanza ad opera dell’economia, determinazione specifica degli altri livelli, ecc.

2. Critica radicale delle pretese teoriche di ogni umanismo filosofico.

3. Definizione dell’umanismo come ideologia.

In questa nuova concezione tutto è strettamente collegato: l’essenza dell’uomo criticata (2) è definita come ideologia (3), categoria che appartiene alla nuova teoria della società e della storia (1). La rottura con ogni antropologia od ogni umanismo filosofici, non è un particolare secondario: fa tutt’uno con la scoperta scientifica di Marx.

Ciò significa che Marx nell’atto stesso in cui respinge la problematica della filosofia anteriore adotta anche una problematica nuova. La filosofia anteriore idealista (“borghese”) poggiava in tutti i suoi campi e in tutte le sue applicazioni (“teoria della conoscenza”, concezione della storia, economia politica, morale, estetica, ecc.), su una problematica della natura umana (o dell’essenza dell’uomo). Questa problematica costituì per interi secoli l’evidenza stessa e nessuno si è mai sognato di metterla in. dubbio, neppure nei suoi riassestamenti interni. Questa problematica non era né vaga né inconsistente era invece costituita da un sistema coerente di concetti precisi, strettamente articolati gli uni sugli altri. Allorché Marx l’affrontò implicava i due postulati complementari che egli aveva definiti nella sesta Tesi su Feuerbach, ossia:

a)      esiste un’essenza universale dell’uomo;

b)      questa essenza è attributo dei « singoli individui » che ne sono i soggetti reali.

Questi due postulati sono complementari e indissociabili, e la loro esistenza e la loro unità presuppongono tutta una concezione empiristico-idealista del mondo. Perché l’essenza dell’uomo sia attributo universale bisogna infatti che esistano i soggetti concreti come dati assoluti: il che implica un empirismo del soggetto; perché poi questi individui empirici siano uomini, bisogna che ciascuno di essi porti in se stesso, di fatto o di diritto, tutta l’essenza umana: il che implica un idealismo dell’essenza. L’empirismo del soggetto implica dunque l’idealismo dell’essenza e viceversa. Questo rapporto può rovesciarsi nel suo « contrario »: empirismo del concetto, idealismo del soggetto. Tale capovolgimento rispetta la struttura fondamentale di questa problematica, che rimane fissa.

In questa struttura-tipo è riconoscibile non soltanto il principio fondamentale delle teorie della società. (da Hobbes a Rousseau), delle teorie dell’economia politica (da Petty a Ricardo), della morale (da Descartes a Kant), ma anche il principio stesso della «teoria » idealista e materialista (premarxista) « della conoscenza » (da Locke a. Feuerbach, passando attraverso Kant). Il contenuto dell’essenza umana o dei soggetti empirici può variare (come si può vedere da Descartes a Feuerbach); il soggetto può passare dall’empirismo all’idealismo (come avviene da Locke a Kant); ma i termini che sono di fronte e il loro rapporto variano solo all’interno di una struttura-tipo invariante, che costituisce questa stessa problematica: ad un idealismo dell’essenza corrisponde sempre un empirismo del soggetto (o ad un idealismo del soggetto un empirismo dell’essenza).
Rifiutando l’essenza dell’uomo come fondamento teorico, Marx rifiuta tutto questo sistema organico di postulati. E bandisce le categorie filosofiche di soggetto, empirismo, essenza ideale, ecc. da tutti i campi in cui regnavano. Non soltanto dall’economia politica (rifiuto del mito dell’homo oeconomicus, ossia dell’individuo in quanto soggetto dell’economia classica, con facoltà e bisogni ben definiti); non soltanto dalla storia (rifiuto dell’atomismo sociale e dell’idealismo politico-etico); non soltanto dalla morale (rifiuto dell’idea morale kantiana), ma anche dalla filosofia stessa: il materialismo di Marx esclude infatti 1’empirismo del soggetto (e il suo rovescio: il soggetto trascendentale) e l’idealismo del concetto (e il suo rovescio: l’empirismo del concetto).
Questa rivoluzione teorica totale ha però il diritto di rifiutare i vecchi concetti solo in quanto li sostituisce con concetti nuovi. Marx fonda infatti una nuova problematica, crea un nuovo modo di interrogare il mondo, nuovi principi e un nuovo metodo. Questa scoperta è insita nella teoria stessa del materialismo storico, in cui Marx non propone soltanto una nuova teoria della storia delle società, ma, contemporaneamente, in modo implicito ma necessario, una nuova a “filosofia” dalle infinite implicazioni. Così, quando Marx, nella, teoria della storia, sostituisce la vecchia coppia individui-essenza umana con concetti nuovi (come forza di produzione, rapporti di produzione, ecc.), in realtà propone al tempo stesso una nuova concezione della « filosofia ». Sostituisce agli antichi postulati (empirismo-idealismo del soggetto, empirismo-idealismo dell’essenza) che sono alla base non soltanto dell’idealismo, ma anche del materialismo premarxista, un materialismo dialettico-storico della prassi: vale a dire una teoria dei diversi livelli specifici della pratica umana (pratica economica, pratica politica, pratica ideologica, pratica scientifica) nelle loro articolazioni proprie, fondata sull’articolarsi specifico dell’unità della società umana. Diciamo in due parole che al concetto «ideologico» e universale della «pratica» feuerbachiana, Marx sostituisce una concezione concreta delle differenze specifiche che permette di situare ogni pratica particolare nelle differenze specifiche della struttura sociale.

Per capire ciò che Marx apporta di radicalmente nuovo, bisogna dunque prendere coscienza non soltanto della novità dei concetti del materialismo storico, ma anche della profondità della rivoluzione teorica da essi implicata e annuncia. A questa sola condizione è possibile definire lo «statuto» dell’umanismo: rifiutando le sue pretese teoriche e riconoscendo la sua funzione pratica di ideologia.
Per quel che concerne strettamente la teoria si può allora, e anzi si deve, parlare apertamente di un antiumanismo teorico di Marx e vedere in questo antiumanismo teorico la condizione della possibilità assoluta (negativa) della conoscenza (positiva) del mondo umano stesso, e della sua trasformazione pratica. Non è possibile conoscere qualcosa degli uomini se non alla assoluta condizione di ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell’uomo. Ogni pensiero che si richiamasse dunque a Marx per restaurare in un modo o nell’altro o un’antropologia o un umanismo filosofici, non sarebbe teoricamente altro che polvere. Praticamente però, innalzerebbe un monumento d’ideologia premarxista che peserebbe gravemente sulla storia reale, e potrebbe trascinarla in un vicolo cieco.L’antiumanismo teorico marxista ha infatti come corollario il riconoscimento e la conoscenza dell’umanismo stesso: come ideologia. Marx non è mai caduto nell’illusione idealista di credere che la conoscènza di un oggetto possa, al limite, sostituire questo oggetto stesso o dissolverne l’esistenza. I cartesiani che sapevano che il sole era a 2000 leghe si stupivano che lo si vedesse a 200 passi: dio stesso non era loro di troppo per colmare questo scarto. Marx non ha mai creduto che la conoscenza della natura del denaro (un rapporto sociale) potesse distruggere la sua apparenza, la sua forma di esistenza — vale a dire una cosa — poiché questa apparenza era il suo essere stesso, altréttanto necessario quanto il modo di produzione esistente.Marx non ha mai creduto che un’ideologia potesse essere dissolta dalla sua conoscenza, perché essendo questa conoscenza la conoscenza delle sue condizioni di possibilità e della sua funzione pratica, nell’ambito di una determinata società, era al tempo stesso la conoscenza delle condizioni della sua necessità. L’antiumanismo teorico di Marx non sopprime affatto perciò l’ esistenza storica dell’umanismo. Anche dopo, come prima di Marx, si possono incontrare nel mondo reale delle filosofie dell’uomo, e oggi anche certi marxisti sono tentati di sviluppare i temi di un nuovo umanismo teorico. Più ancora: l’antiumanismo teorico di Marx riconosce, mettendolo in rapporto con le sue condizioni d’esistenza, una necessità all’umanismo come ideologia, una necessità sotto condizioni. Il riconoscimento di questa necessità non è meramente speculativo: soltanto su di esso il marxismo può fondare una politica nei riguardi delle forme ideologiche esistenti, qualunque esse siano: religione, morale, filosofia, diritto — e umanismo innanzitutto.Una (eventuale) politica marxista dell’ideologia umanista, ossia un atteggiamento politico nei confronti dell’umanismo — politica che può essere sia il rifiuto o la critica, o l’utilizzazione o il sostenimento o lo sviluppo o il rinnovamento delle forme attuali dell’ideologia umanistica nel campo etico-politico — questa politica non è dunque possibile se non alla condizione assoluta di essere fondata sulla filosofia marxista di cui l’antiumanismo teorico è la premessa.

IV. Tutto dipende quindi dal riconoscere la natura dell’umanismo come ideologia. Non è il caso di addentrarci qui in una definizione approfondita dell’ideologia. Basta sapere molto schematicamente che un’ideologia è un sistema (che possiede la propria logica e il proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti, secondo i casi) dotate di un’esistenza e di una funzione storiche nell’ambito di una data società. Senza entrare nel problema dei rapporti che una scienza ha col suo passato (ideologico), diciamo che l’ideologia come sistema di rappresentazioni si distingue dalla scienza per il fatto che in essa la funzione pratico-sociale prevale sulla funzione teorica (o funzione di conoscenza).

Qual è la natura di questa funzione sociale? Per capirla, bisogna riportarsi alla teoria marxista della storia. « Soggetti » della storia sono determinate società umane; esse si presentano come totalità la cui unità è costituita da un certo determinato tipo di articolazione interna, dunque da un tipo specifico di complessità che mette in giuoco certe istanze le quali, sulle orme di Engels, possono essere molto schematicamente ridotte a tre: economia, politica e ideologia. In ogni società si costata dunque, in forme a volte assai paradossali, l’esistenza di un’attività economica di base, d’una organizzazione politica, e di forme « ideologiche » quali religione, morale, filosofia, ecc. L’ideologia fa dunque organicamente parte, in quønto tale, di ogni totalità sociale. Sembrerebbe quasi che le società umane non potessero sussistere senza queste formazioni specifiche, questi sistemi di rappresentazioni (a diverso livello) che sono le ideologie. Le società umane secernono l’ideologia come l’elemento e l’atmosfera stessa indispensabili alla loro respirazione, alla loro vita storiche. Soltanto una concezione ideologica del mondo ha potuto immaginare società senza ideologie, e ammettere l’idea utopistica di un mondo in cui l’ideologia (e non tale o tal altra delle sue forme storiche) scomparisse senza lasciar traccia, per essere sostituita dalla scienza. Questa utopia sta per esempio alla base dell’idea che la morale, la quale è nella sua essenza ideologia, potrebbe essere sostituita dalla scienza oppure diventare da cima a fondo scientifica; oppure che la religione potrebbe essere dissolta dalla scienza che in certo qual modo ne prenderebbe il posto; che l’arte potrebbe confondersi con la conoscenza o divenire « vita quotidiana », ecc. E per non eludere quella che è la questione più scottante, per il materialismo storico neppure una società comunista può fare mai a meno di  ideologia, sia che si tratti di morale  di arte o di « rappresentazione del mondo ». Si può certo prevedere che in essa le forme ideologiche e i loro rapporti subiscano importanti modificazioni, però sino che scompaiano certe forme esistenti o che le loro funzioni si trasferiscano su forme vicine; si può anche (sulle premesse dell’esperienza già acquisita) prevedere lo sviluppo di nuove forme ideologiche (per esempio le ideologie: «concezione scientifica del mondo », « umanismo comunista ») ma allo stato attuale della teoria marxista, presa in tutto il suo rigore, non è pensabile che il comunismo, nuovo modo di produzione, implicante determinate forze e determinati rapporti di produzione, possa fare a meno di un’organizzazione sociale della produzione e di corrispondenti forme ideologiche.
L’ideologia non è dunque un’aberrazione o un’escrescenza contingente della storia; è invece una struttura essenziale alla vita storica delle società. D’altronde soltanto l’esistenza e il riconoscimento della sua necessità possono permettere d’agire sull’ideologia e di trasformarla in strumento d’azione riflesso sulla storia. Si dice di solito che l’ideologia appartiene alla sfera della « coscienza ». Non bisogna però ingannassi su questa affermazione rimasta contaminata dalla problematica idealista anteriore a Marx. A dire il vero, l’ideologia ha ben poco a che vedere con la « coscienza », supposto che questo termine abbia un significato univoco. Essa è invece profondamente inconscia, anche quando si presenta (come nella « filosofia » premarxista) in una forma elaborata. L’ideologia è si un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la «coscienza »: per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro «coscienza». Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro. Gli uomini «vivono» la loro ideologia come il cartesiano « vedeva » o non vedeva — se non la fissava — la luna a 200 passi: niente affatto come una forma di coscienza, bensì come un oggetto del loro  mondo», come il loro « mondo » stesso. Che cosa si intende dire, tuttavia, quando si dice che l’ideologia concerne la « coscienza » degli uomini? Innanzitutto che si distingue l’ideologia dalle altre istanze sociali, ma anche che gli uomini vivono le loro azioni, normalmente riferite alla tradizione classica alla libertà e alla « coscienza », nell’ideologia, attraverso e mediantel’ideologia; insomma che il rapporto « vissuto » degli uomini col mondo, ivi compresa la storia (nell’azione o nell’inazione politica) passa attraverso l’ideologia, o, meglio ancora, è l’ideologia stessa. Questo intendeva Marx dicendo che proprio nell’ideologia (quale sede delle lotte politiche) gli uomini prendono coscienza del loro posto nel mondo e nella storia: appunto in seno a questa incoscienza ideologica gli uomini arrivano a modificare i loro rapporti « vissuti» col mondo e ad acquisire quella nuova forma di incoscienza specifica che si chiama « coscienza ».

L’ideologia concerne dunque il rapporto vissuto degli uomini col loro mondo. Questo rapporto, che non si rivela «cosciente » se non a condizione di essere inconscio, non sembra nello stesso modo essere semplice se non a condizione di essere complesso, di non essere cioè un rapporto semplice, ma un rapporto di rapporti, un rapporto di secondo grado. Nell’ideologia, infatti, gli uomini esprimono non i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, ma il modo in cui vivono i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, la qual cosa suppone al tempo stesso un rapporto reale e un rapporto « vissuto », « immaginario ». L’ideologia è allora l’espressione del rapporto degli uomini col loro « mondo », ossia l’unità (surdetermina) del loro rapporto
reale e del loro rapporto immaginario con le loro reali condizioni di esistenza. Nell’ideologia il rapporto reale è inevitabilmente investito nel rapporto immaginario: rapporto che esprime più una volontà (conservatrice, conformista, riformista o rivoluzionaria), e persino una speranza o una nostalgia, di quanto non descriva una realtà. Proprio in questa surdeterminazione del reale attraverso l’immaginario o dell’immaginario attraverso il reale, l’ideologia è, nei suoi fondamenti, attiva, ed essa rinforza o modifica il rapporto che gli uomini hanno con le loro condizioni di esistenza, entro questo rapporto immaginario stesso. Ne consegue che questa azione non può mai essere prettamente strumentale: coloro che vorrebbero servirsi di una ideologia come di un mero mezzo di azione, d’uno strumento, si trovano irretiti in essa nel momento stesso di servirsene, perché essa riguarda anche loro.

Questo è chiarissimo nel caso di una società classista. L’ideologia dominante è allora l’ideologia della classe dominante. Ma il rapporto che la classe dominante mantiene con l’ideologia dominante, che è la sua ideologia, non è un rapporto esteriore e lucido di pura utilità o astuzia. Quando la classe dominante borghese « in ascesa» sviluppa, durante il XVIII secolo, un’ideologia umanista dell’eguaglianza, della libertà e della ragione, essa dà alla propria personale rivendicazione la forma dell’universalità, come se, con questo, volesse reclutare al suo fianco, formandoli espressamente a questo scopo, quegli stessi uomini che essa non libererà se non per sfruttarli. È questo il mito rousseauiano dell’origine della disuguaglianza: i ricchi che tengono ai poveri il «discorso più assennato » che sia mai stato concepito per convincerli a vivere la loro servitù come se fosse la loro libertà. Il fatto è che la borghesia deve essa stessa cedere nel suo mito prima di convincere gli altri, e non soltanto allo scopo di convincerli, ma perché ciò che essa vive nella sua ideologia è quel rapporto immaginario con le proprie reali condizioni di esistenza che le consente al contempo di agire su di sé (dandosi coscienza giuridica e morale e le condizioni giuridiche e morali del liberalismo economico), e di agire sugli altri (i suoi sfruttati e futuri sfruttati: «i lavoratori liberi») allo scopo di assumere, adempiere e sostenere la sua funzione storica di classe dominante. Nell’ideologia della libertà, la borghesia vive così esattamente Il suo particolare rapporto con le proprie condizioni di esistenza, ossia il suo rapporto reale (il diritto dell’economia capitalista liberale) investito però in un rapporto immaginario (tutti gli uomini sono liberi, compresi i lavoratori liberi). La sua ideologia consiste in questo giuoco di parole sulla libertà, che tradisce tanto la volontà borghese dì mistificare i suoi sfruttati («liberi»!) per tenerli a freno con il ricatto della libertà, quanto il bisogno della borghesia dl vivere la sua dominazione di classe come la libertà dei suoi stessi sfruttati. Come un popolo che ne sfrutta altri non può essere libero, così una classe che si serve di un’ideologia le è essa stessa soggetta. Quando si parla di funzione di classe di una ideologia, si intende dunque dire che l’ideologia dominante è appunto l’ideologia della classe dominante e che essa le serve non soltanto a dominare la classe sfruttata, ma anche a costituirsi in
classe dominante, facendole accettare come reale e giustificato il suo rapporto vissuto col mondo […]