CHE NOIA DOVERSI RIPETERE! Di G. La Grassa

 

E’ un po’ noioso scrivere da un po’ di tempo in qua, poiché non si possono che ripetere sempre le stesse cose. Stiamo precipitando in un pozzo (nero, cioè di fetido liquame) senza fondo. Spesso qualche amico mi chiede quando si toccherà questo fondo. Mai, è come quando si interpreta un testo o un fatto; non c’è fine alle possibilità interpretative, sia che siano geniali e profonde o invece delle immani sciocchezze di una banalità sconfortante. Il fondo del pozzo nero verrà raggiunto quando e se, un bel giorno, si troverà “qualcuno” in grado di dare una pedata nel culo a questi mascalzoni che si fingono politici (ma prima bisognerebbe assestarla ai membri della spero ormai nota GFeID, il cui giornale principale, Il Corriere, è divenuto un organo di perfetta disinformazione, la “prima vergogna d’Italia”, con uno sciame di intellettuali “di grido” chissà quanto pagati per scrivere articoli stupidi, menzogneri e moralmente ignobili). La pedata, che ti spedisca definitivamente in “Cielo” (non in Paradiso!), rappresenterebbe appunto il “fondo” del pozzo (nero). 

Quello che è avvenuto sulle pensioni è una delle peggiori e più abominevoli “recite a soggetto” che si siano svolte. Nessun regista l’ha concordata – almeno mi sembra, altrimenti a quel regista va assegnato l’Oscar dell’incapacità – ma la recita si è svolta egualmente e ognuno ha grosso modo svolto la laida funzione che doveva svolgere. Per l’ennesima volta – come sui dati del costo della vita, della crescita per i prossimi “due secoli”, dell’entità dell’extragettito fiscale e del “Tesoretto”, dei vari miracoli tipo Fiat, ecc. – si sono forniti i dati (del costo della sedicente riforma) a capocchia, nel modo più fantasioso e multiforme possibile.

Quali poche cose possiamo sintetizzare dalle vicende in corso? Il Governo, e lo schieramento che lo sostiene, è una cloaca a cielo aperto. Adesso non ho più voglia di mediare con nessuno: la sinistra, in tutte le sue parti (per bontà, escludo alcune frange di “estrema”, sperando che ritrovino però un sussulto di sensatezza e di coerenza non solo per “due giorni”), è la parte politica più marcia, furfantesca e imbrogliona che sia in campo. Tuttavia, non è il caso che si ripeta l’ormai stucchevole giochetto dell’alternanza di destra. Possiamo, data la situazione, parafrasare una famosa pubblicità: “Credevo che il ‘bucato’ Berlusconi fosse sporco, finché non ho visto quello di Prodi, D’Alema, Fassino, Rutelli (e Veltroni) e gli altri di sinistra”. Per Berlusconi e la destra basterebbe la varechina, ma per i “sinistri” occorrerebbe la soda caustica o l’acido cloridrico (o solforico, la scelta è ampia).

 

A me non interessa sapere se la Forleo ha esagerato o meno in giudizi di colpevolezza che non spettava a lei emettere. Sull’aggiotaggio, l’insider trading o altro non ho alcuna opinione prevenuta. Mi sembra solo che risulti con chiarezza (avendo perso tempo a leggere le intercettazioni, non tutte ovviamente) che i vari diessini implicati non fossero per nulla dei “curiosi” che volevano sapere, en passant, da “un amico” cui avevano telefonato per caso, se stava bene, come stava la sua famiglia, se ce la faceva a sbarcare il lunario dato l’enorme aumento del costo della vita, ecc. Si sono comportati, del tutto normalmente a mio avviso, come politici che svolgono attività lobbistica a favore di appartenenti al mondo degli affari a loro più vicini e dei cui interessi, anzi, sono i rappresentanti nelle istituzioni. Sia chiaro che io so benissimo che il PCI – pur essendo stato salvato da “mani pulite” per i precisi scopi politici perseguiti dai nostri gruppi economico-finanziari legati a quelli USA –  era invischiato negli stessi affari e fiumi di soldi che correvano verso DC e PSI.

I vecchi piciisti, poi divenuti diessini, sono degli usuali politici dell’odierno sistema capitalistico. Nulla di strano in questo, e credo nemmeno di criminoso (fino a prova contraria). Il problema è semplicemente la loro totale ipocrisia, veramente abietta e da meschini, per cui fanno finta di essere al di sopra di queste “miserie morali”; loro non si sporcano le mani, pensano al popolo, a come farlo stare meglio. Quando veleggiano in più che modeste barche, è per rilassarsi e pensare con maggiore concentrazione agli interessi collettivi.

Quando ruppi, a diott’anni, con la mia classe d’appartenenza (che a questo punto debbo un po’ rivalutare), lo feci non perché avessi già letto Il Capitale (diffidate di chi fa scelte di campo in base ai libri letti! E’ il prossimo traditore!!), ma perché conoscevo dall’interno l’ipocrisia, la falsità, borghese (capitalistica). Posso tuttavia garantire che “quelli là” non erano nulla in confronto a “questi qui”. Per di più sapevano veramente gestire gli affari; e, in una certa misura (senza esagerare in elogi), facendo i loro interessi, amministravano in modo non totalmente catastrofico anche quelli dei “sottoposti”. Per di più esistevano dei limiti alle loro menzogne perché, andando oltre, ne veniva un discredito presso i loro sodali (fra cui le banche che li finanziavano) tale da danneggiarli economicamente.

“Questi qui” sono “impuniti”, facce di tolla da non credere; e non pagano mai, del discredito se ne sbattono, anche perché presso quelli come loro, che hanno ormai invaso e infettato il mondo degli affari e del credito, ecc., risultano anzi essere dei “ganzi”. La “sfangano” sempre, quindi sono dei “dritti da nulla!”. Sono però assolutamente incapaci di gestire alcunché; a loro non va affidata l’amministrazione nemmeno del vostro (singolo) cassonetto all’angolo della strada in cui abitate. Pensate solo che l’aquila è D’Alema! Lo ricordo bene a Pisa quando aveva poco più di vent’anni; dimostrava già tutta la sua “elevatezza” intellettuale avvolta – e nascosta – in un’arroganza al di là di ogni limite. A me non interessa quindi nulla del rilievo penale o meno delle loro telefonate. Auguro loro di essere pienamente prosciolti, ma non in base al rifiuto opposto da questo schifo di Parlamento alla loro utilizzazione per l’inchiesta in atto.

Mi interessa invece molto che le telefonate vengano pubblicate e, spero, lette (comunque ne consiglio caldamente la lettura). Perché ci si renderà conto che questi “geni” sono di una limitatezza cerebrale incredibile, sono ridicoli e infantili, non hanno la benché minima idea di che cosa stiano trattando (qualcuno ha detto spiritosamente che andrebbero assolti “per non avere compreso il fatto”). Noi siamo governati da incapaci assoluti, questa la verità eclatante che risulta dalla conoscenza delle telefonate; il resto, glielo possiamo anche “passare” [preferisco aggiungere che invece non farei passare al “dritto della barca” la faccenda della Banca 121 del Salento, dove tutto è insabbiato! Sarebbe meglio andare a fondo e scagionarlo veramente se ha da essere scagionato; perché lì ci sono 6000 fregati di brutto, qualcuno mi sembra si sia perfino suicidato].

 

Un’ultima notazione sui sindacati. Anche in tal caso, faccio salve le piccole organizzazioni che si comportano (non tutte, ma alcune) in modo più che dignitoso e coerente. Mi riferisco solo alla cosiddetta Triplice. Si tratta di verminosi e corrotti apparati che, malgrado sembri formalmente il contrario, sono di Stato; e sono convinto che sono all’origine di uno sperpero di denaro “pubblico” enorme. Per chiarire il mio pensiero in merito, immagino una situazione di pura fantasia. Domani mi fanno Dittatore di questo nostro povero Stato (più o meno come quello di Bananas descritto nel film di Woody Allen). Il giorno successivo alla mia “elezione”, sciolgo la Triplice e invio l’esercito (o esercito più polizia) a far sgombrare tutte le sedi sindacali, con l’ordine di passare per le armi chi si oppone: immediatamente, sul posto!

Contestualmente, promulgherei un “editto” in cui darei piena e assoluta libertà di organizzazione sindacale a ogni tipo di lavoratori, piena libertà di scegliere le loro forme di lotta, anche “dure”. Tali organizzazioni non riceverebbero un solo centesimo in forma “pubblica”, dovrebbero essere integralmente finanziate dagli associati, che eleggerebbero i loro dirigenti (se pagarli, facendoli diventare funzionari, oppure no, sarebbe una loro scelta). L’elezione andrebbe comunque debitamente certificata e dovrebbe ripetersi ogni tot anni (la durata a preferenza degli associati). E, dulcis in fundo, ogni eletto sarebbe revocabile in ogni momento secondo la prassi stabilita dalla Comune di Parigi, la più alta forma di rappresentanza “inventata” dalle classi subalterne (ed è per questo, non a caso, che ha fatto la fine che ha fatto!).

Va detto, per completezza del “sogno del Grande Dittatore”, che la Triplice sindacale non sarebbe il solo obiettivo; almeno contemporaneamente, l’esercito verrebbe inviato a sgombrare e chiudere – fucilando chi si oppone – Palazzo Madama, Montecitorio e la sede di Confindustria in Viale dell’Astronomia. Visto che si sogna, facciamo un repulisti completo dei centri nevralgici dell’attuale “catastrofe italiana”.

Fine del sogno! Tuttavia, come tutti i sogni ivi compreso quello del comunismo, esprime una direzione delle proprie convinzioni e preferenze; e dunque dà forma alla battaglia culturale, con riflessi (si spera) anche politici, che uno intende combattere. E’ meglio dichiarare con nettezza le proprie simpatie e idiosincrasie; chi legge sceglierà meglio da che parte stare. E anch’io saprò con quanti figli di p….ho a che fare e con quanti (so che sono ancora pochi) potrò intendermi.

“Salutamme”! 

 

SULLA RIFORMA DELLE PENSIONI di F. D’Attanasio

Mi sembra che tra le tante critiche lette a riguardo dell’ulteriore riforma pensionistica, non si faccia minimamente cenno a quel che penso essere la vera "novità" (in senso del tutto negativa ovviamente) di questo accordo: vale a dire che l’allungamento dell’età pensionistica è giustificato non da motivazioni legate al bilancio INPS ma da motivazioni generiche sul bilancio dello stato: vale a dire che anche l’INPS diventa una cassaforte da cui questo stato può attingere liberamente risorse per tutte le esigenze. La questione previdenziale viene espulsa così dalla contrattazione sindacale, sarà il governo (e solo esso) a decidere, per decreto, l’entità della stessa basandosi sui più svariati parametri che non sarà solo quello dell’equilibrio delle casse INPS. Comunque sottopongo alla vostra attenzione quest’articolo tratto da www.coordinamentorsu.it che ritengo molto esplicativo in merito.

 

ACCORDO PENSIONI: NON CI RESTA CHE BOCCIARLO

 

Forse nessuno se ne accorge, ma il salario previdenziale non c’è più. L’accordo sulle pensioni firmato la notte del 20 luglio è una resa con consegna incondizionata della cassa previdenziale dei lavoratori dipendenti nelle mani del Tesoro che da oggi diventa quello che deciderà delle nostre pensioni senza più sentirsi in dovere di sentire i sindacati, e che potrà fare dell’attivo previdenziale (visto che gli è stata concessa la titolarità) quello che più gli aggrada. Fino a ieri (anche se la legge Dini aveva già compromesso le cose in questo senso), l’equilibrio del conto previdenziale che i lavoratori accantonavano (versando mensilmente un contributo) per finanziare la propria pensione veniva verificato sulla base del rapporto tra le entrate (versamenti) ed uscite (pagamento delle pensioni).  Se il conto era in attivo non c’erano problemi, se era in passivo i detentori del fondo (i lavoratori) avrebbero deciso come sistemare le cose, magari aumentando un poco il contributo da versare (cosa che è già successa). In fin dei conti è così che funzionano e dovrebbero funzionare tutti i fondi, compreso quello sanitario di recente introduzione in alcuni contratti nazionali. L’accordo ha ora massacrato questo impianto, semplice e facilmente comprensibile, sia con la riedizione dello scalone in altra veste (anche peggiore di quella originale), ma sopratutto togliendo dal controllo del fondo i detentori del fondo stesso, ossia quelli che versano i contributi per finanziarlo. A far da cardine di questo massacro è l’introduzione dell’automatismo nella definizione dei coefficienti di rendimento. Da oggi infatti, il coefficiente di calcolo delle pensioni non sarà più verificato e calcolato sulla base dell’equilibrio del fondo previdenziale (che sappiamo essere ancora oggi in attivo) ma sulla base di parametri esterni, come l’andamento demografico, l’andamento del PIL, e gli obiettivi di bilancio dello Stato. Così, ogni tre anni, un Ministro del Tesoro farà qualche calcolo, verificherà l’andamento dei parametri sopra citati, calcolerà quale sia il bisogno dello Stato per finanziare i suoi programmi di spesa per l’assistenza, e quindi deciderà quanto la cassa previdenziale deve dare per sostenere queste spese. Conseguentemente deciderà di quanto il coefficiente di calcolo delle pensioni deve essere

abbassato per liberare le risorse che gli servono a fare altro.

Tutto questo automaticamente, cioè senza alcun obbligo di discussione con le parti sociali. Forse nessuno se ne è accorto ma con questo accordo il salario differito pensione non c’è più. Rimaniamo noi che continuiamo a versare i contributi che vanno in un fondo che noi pensiamo serva a pagarci la pensione, ma su cui non abbiamo più alcun controllo. Da oggi la nostra aspettativa di pensione sarà determinata, da un lato dall’andamento dei titoli in borsa a cui abbiamo regalato una parte del nostro salario ed il nostro TFR, e dall’altro dal grazioso interessamento di un Governo (oggi di centrosinistra, domani di centrodestra) che avendoci rubato il controllo sulla cassa previdenziale deciderà quanti soldi destinare alle pensioni, di volta in volta, a seconda di quanti sono i soldi di cui ha deciso di avere bisogno lui per altre cose, e questo indipendentemente dal fatto che i contributi versati superino in valore le uscite. Padoa Schioppa ha enormi motivi per gioire (come ha fatto e pure sfacciatamente). La tesoreria dello Stato ha oggi conquistato nella sua totale disponibilità una cassaforte (e pure piena) da cui stornare le risorse che gli servono, e non dovrà più rendere conto a nessuno delle spese assistenziali (che dovrebbero essere a carico dello Stato) oggi abbondantemente finanziate dai nostri contributi previdenziali, semplicemente perchè quei contributi, da oggi, non sono più nostri, ma suoi. Al massimo dovrà rendere conto a se stesso …. sai che fatica !. Se si riduce l’accordo sulle pensioni al suo nocciolo duro (come abbiamo sintetizzato sopra) viene fuori chiaro ed evidente che questo accordo è una follia.

Rimane da domandarci. Ma il sindacato (il nostro sindacato) dove era ? e se c’era … dormiva ?

A ben guardare già c’era tra i lavoratori molta perplessità e preoccupazione sulle modalità con cui i nostri segretari nazionali stavano conducendo la trattativa. Della trattativa si sapeva qualcosa solo da informazioni (per altro manomesse) quasi esclusivamente ricavate da interviste TV o da articoli di giornali, senza mai la possibilità di discutere in assemblea, senza mai la possibilità di poter vedere un sindacalista per potergli dire cosa ne pensavamo.  Ma nessuno onestamente pensava ad un disastro come quello che infine si è determinato.  A ben ricordare il nostro sindacato ci aveva chiamati due anni fa alla mobilitazione contro lo scalone Maroni spiegandoci che non c’erano motivi per allungare l’età pensionabile perchè i bilanci dell’Inps erano in attivo. Ci

avevano anche detto che bisognava invece (e finalmente visto che è dal 1995 che il Governo si era impegnato a farlo) dividere i conti previdenziali da quelli assistenziali, combattere l’enorme evasione contributiva prodotta dal lavoro nero e contrastare la precarietà in quanto riduce nel tempo le entrate nella cassa previdenziale aprendo seri problemi su quella che sarebbe stata la

pensione dei giovani. A ben ricordare anche il Governo Prodi aveva nel suo programma l’abrogazione dell’iniquo scalone Maroni, lanciando l’idea che andasse invece restituito un debito sociale a quanti negli anni passati già erano stati massacrati dalle logiche liberiste, in materia di pensioni, di mercato del lavoro, di salario. A ben ricordare, solo a febbraio scorso, i nostri sindacati si erano accordati per una posizione (anche se mai discussa nelle fabbriche e neppure mai distribuita … infatti lo abbiamo saputo dalla stampa e non certo da un volantino di Cgil Cisl Uil) che se anche non ci convinceva sosteneva però una certa rigidità verso ipotesi di aumento dell’età pensionabile (si diceva di mantenere il rapporto 57 anni di età per 35 di contributi) e sopratutto conteneva un secco no a qualsiasi revisione dei coefficienti. A ben ricordare solo qualche settimana fa (spazientiti per le difficoltà del Governo nel trovare lo slancio per darci la pulagnata finale) Angeletti ed Epifani, erano usciti con due dichiarazioni di fuoco dicendo che i conti Inps erano a posto, e che il governo voleva solo fare cassa con un eventuale accordo. Certo parliamo di dichiarazioni compromesse dal fatto che Cgil Cisl Uil rimanevano comunque aggrappati con unghie e denti ad un tavolo concertativo di cui nessuno (a parte loro) capiva l’urgenza e che aveva proprio come ordine del giorno l’innalzamento dell’età pensionabile e la riduzione dei coefficienti, ma erano dichiarazioni che facevano pensare con una certa dose di ottimismo forzato che forse, ancora, e nonostante tutto, Cgil Cisl Uil sapessero come stavano in realtà le cose e che non si sarebbero fatti prendere per i fondelli fino al punto che poi abbiamo invece visto. Epifani si era addirittura lanciato (due settimane fa) in un richiamo nervoso e spazientito al PRC che spingeva sul Governo perchè abbassasse le sue pretese, quasi a dire al PRC di lasciare fare a lui che meglio di loro sapeva rappresentare le aspettative del mondo del lavoro e che sapeva bene (lui … il sindacalista) come si gestiscono queste cose (.. purtroppo si è visto ..) Che i nostri segretari nazionali non abbiano brillato di lucidità rivendicativa, compressi tra la fedeltà al Governo amico (guai a dargli dei dispiaceri) ed il tenere buona la sua base perchè non si mobilitasse troppo lo si capiva da tempo, era una sensazione diffusa nei luoghi di lavoro.

Tutto il mondo sapeva che il Governo voleva tagliare le pensioni (su età e rendimenti), ma loro, alle richieste di discutere di decidere, di mobilitarsi, rispondevano che ancora non era conosciuta la proposta del Governo e che quindi non vi erano argomenti su cui discutere, decidere, mobilitarsi. Poi, di colpo, la nottata tra il 19 ed il 20 luglio, la voragine, il buco nero.

I nostri sindacati firmano un accordo, che non solo smentisce tutto quanto detto al tempo della legge Maroni, non solo smentisce anche quella specie di piattaforma unitaria i cui paletti erano stati venduti come insuperabili, non solo si contraddicono rispetto alle loro recenti dichiarazioni, tanto da arrivare a concordare un innalzamento dell’età pensionabile che è anche peggiore della Maroni, ma arrivano a fare di peggio. Concordano che sia il Ministero del Tesoro, d’ora in poi, sulla base di parametri che non c’entrano nulla con l’equilibrio della spesa previdenziale, a decidere per decreto come variare di volta in volta i coefficienti di calcolo delle pensioni, e così

facendo, concordano il fatto che la pensione non sia più parte del salario differito (legato agli accantonamenti versati) ma salario sociale (ossia deciso unicamente per decreto dal Governo, fuori da ogni controllo sindacale). Cgil Cisl Uil hanno consegnato la nostra cassa previdenziale nelle mani del Ministro del Tesoro, quasi a dirgli … "d’ora in poi pensaci tu". Come per l’accordo del 1992, dove il danno maggiore ai nostri salari non è venuto tanto dalla debolezza rivendicativa sulle quantità salariali ma dall’aver cancellato il meccanismo della scala mobile eliminando così e per sempre quanto ancora di difensivo aveva la struttura salariale, oggi il danno maggiore non è nel non essere riusciti a fare un buon accordo sulla difesa dell’età pensionabile, quanto dall’aver cancellato la pensione dalla voce del "salario differito".

Non è cosa da poco. Non ci troviamo quindi solo di fronte ad un accordo brutto o insufficiente. Paradossalmente (molto paradossalmente) si sarebbe potuto spiegare un innalzamento dell’età pensionabile come il risultato di una mediazione o di rapporti di forza sfavorevoli (come nella contrattazione, io chiedo 100 ma posso ottenere 70 se non ho la forza sufficiente), ma quello che

nessuno può spiegare è l’aver capitolato sui coefficienti, gettando alle ortiche quel poco di potere contrattuale che ancora i lavoratori possedevano consegnando alla controparte Governativa il potere di intervenire sui coefficienti secondo quanto gli aggrada e senza chiedere il permesso a nessuno. A spiegare questa follia ci ha provato Epifani con le sue dichiarazioni immediatamente dopo l’accordo, nelle quali si lamentava di non essere riuscito ad ottenere di più ma che, purtroppo, si sarebbe trovato di fronte ad un muro insormontabile di difficoltà finanziarie che lo avrebbero costretto a firmare quell’accordo.

Epifani dovrebbe ora spiegare ai lavoratori a quale muro insormontabile si riferiva visto che non poteva certo riferirsi alla situazione del conto previdenziale (decisamente in attivo). La realtà è che Cgil, Cisl e Uil hanno dimostrato tutta la loro inconsistenza nel respingere le pretese del Governo che (come loro stessi denunciavano fino a qualche giorno prima) voleva solo fare cassa da questa operazione e garantirsi di poter utilizzare d’ora in poi la cassa previdenziale come fondo da cui stornare risorse per altro. Il muro insormontabile di difficoltà finanziarie, di fronte al quale i nostri segretari nazionali si sono spaventati fino a sentirsi costretti a firmare l’accordo, era in realtà il bisogno urgente del Governo di rastrellare quelle risorse che lo avrebbero messo a posto con la possibilità di finanziare i suoi bilanci e che gli avrebbe permesso di presentarsi alle autorità finanziarie europee e mondiali come campioni del liberismo economico. Il muro insormontabile era quindi "non far cadere il Governo".

La cosa buffa (e tragica) è che lo stesso Epifani solo due gironi prima dell’accordo aveva detto che il sindacato non sarebbe caduto stavolta nella trappola del 1992, che nessuno oggi avrebbe costretto il sindacato a firmare. I conti vanno bene, non c’è nessuna emergenza finanziaria.

Invece, di fatto, si è ripetuto lo stesso assurdo pasticcio del 1992, dove una burocrazia sindacale senza linea e strategia, si è alla fine sentita costretta a firmare un accordo solo per l’incapacità di affermare la propria autonomia ed indipendenza dagli equilibri politici e dagli obiettivi di sopravivenza di un governo "amico", e questo in assoluta solitudine, lontani mille miglia dalla

loro base, decidendo sulle loro teste. Per tutte le ragioni sopra richiamate non si può semplicemente liquidare questo accordo sulle pensioni come un brutto accordo. Si tratta in realtà di una vera e propria capitolazione che porta con sè conseguenze enormi. Sul piano salariale, con la perdita di controllo sulle politiche previdenziali, e sul piano della rappresentanza, segnata dall’avvento di una burocrazia sindacale che si è eletta ormai pomposamente a soggetto indipendente dalla base che dovrebbe rappresentare.

Per questo il Referendum che bisogna chiedere ed ottenere sull’accordo, assume una importanza che va oltre l’accordo stesso. Bocciare questo accordo non è solo il passaggio fondamentale per riaprire l’iniziativa in difesa delle pensioni pubbliche sulla base di una vera piattaforma sindacale, ma è anche un passaggio necessario per sfiduciare una burocrazia sindacale che si è dimostrata assolutamente incapace di indipendenza dal quadro politico, e che ha voluto fin dall’inizio questo accordo, senza averne mai avuto alcun mandato da parte dei lavoratori, e senza che ne esistessero le ragioni. Che la burocrazia sindacale sia in difficoltà a spiegare le cose per come sono andate veramente e per come gestire il dopo accordo lo si vede da come sta andando il dibattito al direttivo della Cgil.

La cosa più ovvia sarebbe stata che il direttivo Cgil fosse stato investito della possibilità di votare un primo giudizio sull’accordo, ma la segreteria e la maggioranza che oggi Governa la Cgil lo ha impedito, rimandando il direttivo ad un voto lunedì prossimo, non già sull’accordo in materia previdenziale (che è il cuore di tutta la faccenda) ma sull’insieme degli accordi firmati col Governo nel tentativo (difficile in realtà visto che anche gli altri accordi, come quello sulle pensioni minime, sugli ammortizzatori e sul mercato dl lavoro non brillano certo in quanto a soluzioni trovate) di annacquare il peso negativo dell’accordo sulle pensioni ed i suoi devastanti effetti.

Per ora è solo la Rete28aprile che ha dichiarato il suo voto contrario e l’impegno a portare questo suo giudizio negativo ai lavoratori. Fiom e Lavoro Società, pur avendo manifestato critiche all’accordo sulle pensioni non hanno ancora comunicato la loro decisione di voto.

Comunque in troppi, ed un Po’ dappertutto si stanno esercitando ultimamente in valutazioni generiche e di comodo del tipo "luci ed ombre".

A questi vorremmo ricordare di non fare come un famoso sindacalista dei chimici che nel 1980, in una assemblea in una fabbrica Milanese in cui era stato firmato un accordo che di fatto riduceva gli organici, faceva saltare ogni normativa sull’orario di lavoro ed aumentava i carichi di lavoro, ha usato più della metà dell’assemblea per spiegare ai lavoratori che però lui era riuscito a mantenere inalterato il prezzo del pasto in mensa, sconfiggendo così le esose pretese del padrone.  Luci ed ombre, appunto … un classico del mimetismo sindacale.

Ma i lavoratori non sono fessi, sono scoppiati tutti a ridere e lo hanno mandato via chiedendo gli mandassero un’altro sindacalista, più serio … uno … insomma … che facesse il sindacalista e non il venditore di tappeti.

22 luglio 2007
COORDINAMENTO RSU

A CHI SERVE UN OPEC DEL GAS? (Fonte nuovi mondi media)
di Pepe Escobar (Asia Times)
A quattro anni di distanza dal crollo di Baghdad, un meeting nel piccolo emirato del Qatar potrebbe segnare la nascita di un nuovo cartello: l’OPEC del gas

Si tratta di una notizia di un certo rilievo, perché un cartello del gas sulla falsariga dell’OPEC rappresenta innanzitutto una brillante idea politica e un’astuta operazione per la creazione e la diffusione di una (nuova) immagine. E, ironia della sorte, questa volta è proprio il ricco Occidente, così appassionato di branding quando si tratta di bibite analcoliche o di televisione, a sudare freddo.

Per ospitare questo meeting cruciale del Forum dei Paesi Esportatori di Gas (Fpeg), un’organizzazione fondata nel 2001 – ed evidentemente intenzionata a rinnovarsi –, non si sarebbe potuto scegliere una località più appropriata di Doha: entro il 2008 il Qatar, che già vanta il reddito pro capite più alto di tutto il Medio Oriente, diventerà infatti il principale fornitore mondiale di gas naturale liquefatto (GNL). L’interpretazione ufficiale è che questo emirato stia «investendo con prudenza» non meno di 130 miliardi di dollari nel corso dei prossimi 5-7 anni, per poter costruire un’«economia dinamica e sostenibile». Gli iracheni, in procinto di venir “derubati” del benessere ottenuto grazie al proprio petrolio, hanno tutte le ragioni di esserne contrariati, per non parlare di quei paesi in via di sviluppo che di gas sono privi.

Attualmente i membri del Forum dei Paesi Esportatori di Gas sono: Algeria, Bolivia, Brunei, Egitto, Indonesia, Iran, Libia, Malesia, Oman, Qatar, Russia, Trinidad, Tobago, gli Emirati Arabi Uniti e il Venezuela, con la Norvegia a fare da semplice osservatore. Russia, Iran, Qatar, Venezuela e Algeria sembrano essere i potenziali padri fondatori dell’OPEC del gas: i loro leader politici, infatti, sono tutti favorevoli al progetto, da Vladimir Putin a Mahmoud Ahmadinejad, da Hugo Chávez a Abdelaziz Bouteflika. Ed è proprio questo che fa rabbrividire gli Stati Uniti e l’Unione Europea: l’irascibile Putin e gli “spauracchi” numero uno del momento, gli stessi Chávez e Ahmadinejad, si trovano a dettar legge all’interno dell’ennesimo gruppo di potere.

La Russia possiede le più grandi riserve mondiali di gas (47,8 miliardi di metri cubi), seguita dall’Iran (26,7 milioni di metri cubi) e dal Qatar (23,7 miliardi di metri cubi). Ma per quanto riguarda la produzione le cose cambiano. Secondo i dati del 2005, la Russia controlla non meno del 21,6% della produzione mondiale di gas naturale, percentuale notevolmente superiore a quella dell’Algeria (3,2%), dell’Iran (3,1%), dell’Indonesia (2,8%) e della Malesia (2,2%). In particolare, Mosca punta a diventare un colosso delle esportazioni mondiali di gas: al momento infatti esporta solo un terzo della propria produzione. L’Iran, per quanto possa sembrare incredibile, importa più gas dal Turkmenistan di quanto ne esporti verso la Turchia, a causa di problemi di investimenti e, come per la Russia, il suo obiettivo principale è quello di diventare uno dei maggiori esportatori mondiali di oro blu.

Non sorprende perciò che l’Iran, che è la seconda riserva mondiale di gas ed ha un disperato bisogno di incrementare le proprie esportazioni, abbia caldamente raccomandato alla Russia la costituzione di un OPEC del gas. A differenza del mercato del petrolio, in quello del gas non c’è alcun coordinamento dei prezzi: questi ultimi vengono negoziati singolarmente tra acquirente e produttore, con contratti fino a cinque anni. E di solito sono sempre i compratori, per la stragrande maggioranza appartenenti al ricco occidente, ad avere la meglio. Per i paesi produttori, quindi, un OPEC del gas ha senso soprattutto in termini di pronto contrattacco nei confronti delle potenze economiche occidentali. In particolare, per l’Iran sarebbe fondamentale dal punto di vista strategico: potrebbe aprire la strada ad una sua presenza molto più forte nei mercati asiatici ed europei, ed aumentarne la sicurezza e il potere di dissuasione. Detto in parole povere: con l’Iran all’interno di un OPEC del gas, nessun paese occidentale si sognerebbe di supportare un attacco preventivo statunitense.

Facile a dirsi, difficile a farsi. Prendiamo il caso del Qatar: il paese in sé potrebbe anche essere favorevole all’iniziativa, ma essendo in realtà poco più che una base militare statunitense, Washington non acconsentirebbe mai alla sua partecipazione ad un cartello del gas. Senza contare il fatto che esporta già gran parte del proprio GNL verso gli USA. E così, ancora prima dell’incontro del Forum, il Ministro dell’Energia del Qatar Abdullah bin Hamad al-Attiyah aveva annunciato alla Reuters di Abu Dhabi: «Non vediamo alcuna necessità di creare un’organizzazione del gas, poiché il problema della sua distribuzione è ben più complesso».

Basta pensare al caso piuttosto contorto del Turkmenistan: attualmente il gas naturale, che la repubblica centroasiatica possiede in abbondanza, viene esportato per mezzo di gasdotti russi. E non ci sono indiscrezioni sulle intenzioni del neopresidente Gurbanguly Berdymukhammedov – il successore di Saparmurat Niyazov "Turkmenbashi" (padre di tutti i turkmeni), recentemente scomparso dopo aver regnato da dittatore per 21 anni.


Un gioco russo-iraniano

Si dà assolutamente per scontato che lo scorso gennaio, a Teheran, la Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Khamenei, abbia proposto formalmente la costituzione di un OPEC del gas al segretario del Consiglio di Sicurezza russo, Igor Ivanov. La verità è che l’idea di creare un OPEC del gas è sempre stata un’iniziativa della “nazione Gazprom”. Dunque non è stato l’Iran, ma lo stesso Vladimir Putin, col sostegno delle repubbliche centroasiatiche, a proporre per primo questa idea, ancora nel lontano 2002. Ovviamente tutte le più importanti società occidentali erano contrarie.

Di recente, Putin è stato molto più cauto: durante la sua conferenza stampa annuale al Cremlino, il primo febbraio, ha dichiarato ufficialmente di non volere un OPEC del gas che controlli la produzione ed influenzi i prezzi del gas, ma di essere più interessato a «cooperare» per aiutare a garantirne gli approvvigionamenti.

Tutto ciò successivamente alle dichiarazioni del vicepresidente di Gazprom, Aleksandr Medvedev, nel maggio 2006. Medvedev, allora, aveva dato la notizia bomba che, se la Russia non avesse concluso un affare soddisfacente con l’Unione Europea in materia di risorse energetiche, Mosca avrebbe creato «un’alleanza di fornitori di gas più influente dell’OPEC». Ad agosto questa «alleanza di fornitori di gas» era già attiva: Gazprom e la compagnia algerina Sonatrach avevano firmato un protocollo d’intesa per il coordinamento dei prezzi del gas. Diviene così praticamente inevitabile che le due compagnie commercino congiuntamente il proprio gas in Europa, e, senza alcun dubbio, ciò apre la strada alla costituzione di un OPEC del gas. Diversamente, i funzionari europei, che continuano a lamentarsi della «mancanza di trasparenza» delle strategie russe sul gas, speravano in una guerra dei prezzi tra Sonatrach e Gazprom, che avrebbe permesso agli europei di dettare le proprie condizioni. Mera illusione: non è questo ciò che accadrà.

Il quotidiano Nezavissimaya Gazeta sostiene che «più del 57% delle riserve di gas mondiali sono concentrate in tre nazioni: Russia, Iran e Qatar. Se questi stati creano un cartello, l’OPEC del gas sarà più semplice da gestire del cartello del petrolio e, probabilmente, avrà il monopolio del settore».

Se così fosse, ci si dovrebbe aspettare un’inflazione di bambole voodoo con le sembianze di Putin. Il motivo chiave per cui Putin e la Russia sono demonizzate a tal punto dalle lobby occidentali è semplice: si chiama commercializzazione diretta, che ancora una volta è un concetto occidentale. A Putin non importa nulla di Wall Street o della City di Londra, né interessano i dollari (preferisce vendere in euro); ciò che predilige è vendere il gas della “nazione Gazprom” contratto per contratto, compagnia per compagnia.

L’unione della Russia e dell’Iran in un OPEC del gas sarebbe di enorme utilità per entrambe: per l’Iran, il primo e principale sbocco delle proprie esportazione sarebbe l’Asia, mentre la Russia si concentrerebbe sull’Europa. Gli europei però farebbero qualunque cosa pur di diversificare le proprie fonti, e così, alla fine, l’Iran potrebbe risultare pure il vincitore.

Il quotidiano russo Vremia Novostiei argomenta che «un accordo per la costituzione di una OPEC del gas significherebbe il passaggio inequivocabile della Russia dallo stato di partner dell’Occidente a quello di avversario, e non solo dal punto di vista energetico». Ma non è così semplice: dipenderebbe tutto dalla soluzione pacifica del dossier nucleare iraniano – che è negli interessi dell’Unione Europea, così affamata di gas. I diplomatici di Bruxelles non hanno mai smesso di proclamare che la più grande paura dell’Unione Europea è proprio quella di diventare ostaggio della politica energetica russa: e il fornitore alternativo è indubbiamente l’Iran.

Una cosa è certa: Doha annuncia al mondo che il Forum dei Paesi Esportatori di Gas non è più soltanto una “semplice chiacchera”. Si inizia a fare sul serio. Il concetto di “OPEC del gas”, a livello di identità/branding, è qui per rimanere: non importa se il Canada, la Norvegia, i Paesi Bassi e l’Australia, che complessivamente vendono il 35% del gas disponibile sul mercato mondiale, non vi appartengono. L’idea è stata lanciata, e va oltre i meccanismi concreti necessari alla sua realizzazione.

La NATO, come ci si poteva aspettare, ha reagito in modo estremamente paranoico: lo scorso novembre, i paesi membri dell’Organizzazione sono stati “avvisati” che la Russia stava architettando un nuovo pericolo, politicamente letale, contro l’Europa, tramite il tentativo di costituire un cartello del gas naturale dall’Algeria fino all’Asia Centrale.

Benvenuti nella nuova curva di (gas) instabilità, ispirata al Pentagono. Chi avrebbe mai pensato che creare un nuovo brand avrebbe comportato un tale caos?

Pepe Escobar è un giornalista brasiliano che si occupa di questioni del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. È stato in Afghanistan e ha intervistato il leader militare dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Masoud, un paio di settimane prima che venisse assassinato. Due settimane prima dell’11 settembre 2001, era nelle aree tribali del Pakistan, ed è stato uno dei primi giornalisti a raggiungere Kabul dopo la ritirata dei talebani.
Pepe Escobar è tra gli autori dell’antologia
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Fonte: Asia Times