QUELLA AMBIENTALISTA E’ UNA LOBBY NEFASTA AL SERVIZIO DEI DOMINANTI di G.P.

Dovrebbe ormai essere chiaro ai più che quella ambientalista è, soprattutto, una lobby nefasta che tenta, attraverso lo spauracchio di un mondo che starebbe sprofondando nella sentina dei suoi stessi “liquami maleodoranti”, di bloccare lo sviluppo economico-tecnologico di alcuni paesi (Russia, Cina e India in primis) al fine di costringerli ad una insanabile subalternità rispetto ai “first comers” capitalistici ad indiscussa guida statunitense. Non è un caso che il grido d’allarme sull’ “asfissia” del pianeta sia partito proprio dagli Usa il paese che, e per intanto ricordiamolo, non ha voluto ratificare il protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni inquinanti nell’aria. Gli Usa vorrebbero inserire una clausola in tale accordo atta a consentire loro di poter superare (pagando) la propria quota di emissioni inquinanti qualora altri paesi non fossero in grado di utilizzare pienamente i metri cubi di aria di cui dispongono. Proprio così, perché questo, sostanzialmente, determina il protocollo di Kyoto, nella parte in cui assegna a ciascun paese un tot di metri cubi di aria da “alterare” secondo soglie stabilite scientificamente (?). Del resto, sappiamo ampiamente che avendo gli Usa il consumo più elevato di energia pro-capite (e di conseguenza anche il livello più elevato di emissioni inquinanti) non firmerebbero mai alcun provvedimento che li vedrebbe costretti a tornare indietro rispetto ai raggiunti livelli di sviluppo tecnologico. Ridotti al tempo della pietra gli Usa vorrebbero vedere gli altri paesi ed al solo fine di dominarli meglio; vuoi mettere i suoi aerei supersonici che trasportano missili a testata nucleare contro le clave ultrapulite del resto del mondo? Leggo sul sito Nuovi Mondi Media (7 febbraio 2006) che: “Il rapporto annuale ‘State of the World’ del Worldwatch Institute, pubblicato il mese scorso a Washinghton, afferma che: “È incoraggiante notare che sempre più autorevoli analisti cinesi e indiani si stanno rendendo conto che il modello di crescita economica resource-intensive nel 21esimo secolo non può funzionare”. Ecco il tipico caso in cui, attraverso la becera ideologia, si incoraggia un tipo di ambientalismo da testare sulla pelle degli altri (per ovvie ragioni di pre-potenza geopolitica). Così si accusano i cinesi o gli indiani di mettere in pericolo il mondo sulla base di previsioni circa "la crescente domanda di energia, cibo e materie prime da parte di 2,5 miliardi di cinesi e indiani che sta già avendo effetti destabilizzanti a livello globale" mentre contemporaneamente si finge di non vedere il consumo attuale dei cosidetti paesi civilizzati (e civilizzatori a suon di bombe) del “turbocapitalismo” (uso un termine che non mi piace affatto ma che enfatizza il senso dell’argomentazione). La spiegazione di tanta foia ambientalistica (di comodo) la troviamo in un altro rapporto, quello dell’Earth Policy Insitute (EPI), che ci dispiega inavvertitamente una verità che non credo fosse nelle intenzioni degli estensori del rapporto svelare. Quest’ultimo dice che “se l’economia della Cina continuerà a espandersi al solito tasso (8% all’anno), nel 2031 il suo reddito pro-capite raggiungerà l’attuale livello di quello statunitense”. Touchè! Il vero problema per gli americani sta proprio qui, perché quando tale crescita economica raggiungerà i livelli di cui parlano i loro scienziati si materializzerà una quasi certa corrispondenza (auspicabilissima nell’ottica di un rinnovato policentrismo) tra sviluppo economico e istanze di “riposizionamento” negli assetti della geopolitica mondiale (oggi sotto controllo dell’occidente “anglobalizzato”), da parte di quei paesi che definiamo ancora solo come emergenti (Cina e Russia), ma che in un prossimo futuro potrebbero puntare a contendere il dominio mondiale agli USA. Per meglio dire, non è assolutamente un fatto assiomatico che dall’accrescimento delle capacità economiche di un paese derivi una maggiore indipendenza politica, tuttavia, l’allargarsi della sfera economica diviene un fattore determinante per l’approntamento dei successivi piani geostrategici con i quali rimettere in discussione la potenza del paese (o area di paesi) fino a quel momento dominante.

 

Tornando alla questione ambientale, il dato di fatto inconfutabile sul quale volutamente si continua a glissare è un altro. Quest’ultimo non richiede previsioni di nessuna specie perchè direttamente riferentesi al presente, difatti, come dice il Worldwatch Institute, “gli Stati Uniti consumano tre volte tanto grano quanto una persona in Cina e cinque volte quanto una in India; e ancora negli Stati Uniti il tasso pro-capite di emissioni di diossido di carbonio è sei volte più elevato di quello cinese e addirittura di venti volte quello indiano”. Subito dopo  gli americani avvertono che "Se Cina e India consumassero risorse e producessero inquinamento quanto il livello pro-capite attuale negli Stati Uniti, ci sarebbe bisogno di due pianeti Terra solo per sostenere le loro due economie". La pagliuzza “previsionale” negli occhi degli altri è sempre più visibile della trave già presente nei propri occhi… Detto ciò, e svelata la parte più ideologica e truffaldina delle cassandre ambientaliste americane (al cui coro si uniscono “s-concertantemente” i paesi subdominanti di questa Europa servile) resta tuttavia da chiarire un punto di non poca importanza. Secondo quanto sostiene il prof. Enrico Lorenzini, Ordinario di Gestione dell’Energia dell’Università di Bologna, “all’inizio del 1900 in Gran Bretagna il consumo di energia pro-capite aveva raggiunto 2.8 Tep/anno [Tep: Tonnellata Equivalente di Petrolio, NDR], nel 1982 3.3 Tep/anno e nel 1984 3.8 Tep/anno. Ne risulta che il secolo della grande crescita energetica, nei paesi industrializzati, fu l’800 e non il ‘900, dimostrando che l’innovazione tecnologica, il progresso tecnico ha portato risparmio energetico a parità di ricchezza prodotta, poiché dal consumo di 2.8 Tep/anno pro-capite si è passati a 3.8 Tep/anno pro-capite, mentre il prodotto lordo pro-capite si è moltiplicato quasi per 3. Questo vale per la Gran Bretagna, mentre per il mondo il consumo medio pro-capite non arriva neppure a 1.5 Tep/anno pro-capite e quindi dai 300 milioni di abitanti e 150 MTep consumati 2000 anni fa, si è giunti ad un consumo di circa 8.3 GTep nel 1996 per una popolazione di circa 5.5 miliardi di uomini, con un aumento demografico di circa 18 volte, mentre il fabbisogno energetico totale si è ingigantito di oltre 54 volte. Poiché il consumo mondiale pro-capite è aumentato di sole 3 volte, la richiesta di energia è spinta soprattutto dal fattore demografico più che dal fattore socioconsumistico. Naturalmente qui ci si riferisce a valori medi, ben sapendo che i consumi tra nazione e nazione sono molto diversi, come diverso è il benessere. Infatti – valori arrotondati – il consumo pro-capite nel 1995 negli USA era di 8 Tep, in Cina 0.65 Tep, in Russia e CSI 3.5 Tep, in Giappone 3.8 Tep, in Germania 4.1 Tep, nel regno Unito 3.8 Tep, in Francia 4.1 Tep, in Italia 2.9 Tep, nel Benelux 5.3 Tep, in Spagna 2.5 Tep, con una dipendenza energetica dall’estero pari al 21% in USA, 54% in Francia, 58% in Germania, 80-81% in Italia e Giappone, mentre Gran Bretagna, ex Russia e Cina non hanno alcuna dipendenza nei confronti dei paesi esteri”.

Innanzitutto, questo significa che grazie all’innovazione tecnologica abbiamo rallentato la dispersione energetica rispetto al secolo XIX e tutto lascia presupporre che continueremo a farlo anche per gli anni a venire. S’intende, inoltre, che in termini relativi abbiamo inquinato molto meno rispetto a quello che sarebbe potuto accadere se gli standard di produzione ottocenteschi fossero restati immutati. Tutto ciò fa capire che le attuali previsioni catastrofiche della "nostra" lobby ambientalista si basano sulla valutazione di una serie di fattori di rischio presi nella loro assoluta staticità (casualmente?) ma che statici non sono affatto se si considera l’incessante miglioramento tecnologico delle nostre società. Comunque, prosegue il professore, “per limitare l’inquinamento e per non rinunciare alle disponibilità mondiali di carbone e lignite e in contemporanea non modificare troppo l’attuale struttura tecnica ed economica del mondo industrializzato, largamente basata sull’uso dei derivati petroliferi, sono state avanzate proposte di rilancio della gassificazione e liquefazione del carbone” poiché esiste una cosa chiamata “Processo Bergius” che “si basa sulla scoperta che, in certe condizioni di temperatura e pressione, è possibile arricchire di idrogeno le molecole di carbone, rendendole più simili a quelle del greggio e dei derivati petroliferi”. Questa ipotesi scientifica mi sembra già più realistica in confronto alle panzane sull’energia alternativa (in realtà derivativa) sulla quale speculano i nostri lobbisti ambientalisti alla Pecoraio-Scanio. Questi ha ultimamente dichiarato che in Italia ci sarebbe bisogno di almeno 10 centrali solari ma si è visto bene dal riferire quanta energia si potrà produrre con queste centrali e a quali costi. In ultimo, il nuovo guru ambientalista mondiale, tale Al Gore, nonostante il suo slancio antinquinamento dichiarato urbi et orbi non ha ancora dismesso le proprie partecipazioni nell’industria del petrolio e non ha ancora dichiarato pubblicamente che mai più accetterà denaro dalle multinazionali del petrolio per le sue campagne elettorali. Quando lo farà (se mai lo farà) lo prenderemo un po’ più sul serio.

Adesso vi lascio ad un articolo di Franco Battaglia pubblicato sul Giornale del 17 luglio che evidenzia il grado d’isteria collettiva al quale si è giunti a causa degli untori ambientalisti odierni.

L’isteria nucleare in prima pagina

di Franco Battaglia

A sentirla raccontare non ci si crederebbe. Ieri Repubblica titolava in prima pagina: «Terremoto in Giappone, fuga radioattiva», ove si annunciava che 1 litro e mezzo di acqua radioattiva fuoriuscita da una centrale si era riversata in mare. Titolo di seconda pagina: «Paura nucleare». Titolo di terza pagina: «Incubo per un’altra Chernobyl». Non so voi, ma io trovo raccapricciante questo uso strumentale delle disgrazie. Oltre che offensivo nei confronti delle vere vittime della vera causa: una decina di morti, centinaia di case distrutte e migliaia di evacuati a causa del terremoto. E invece no: la prima pagina, e poi la seconda e anche la terza sono costruite attorno a quel litro e mezzo d’acqua radioattiva «finita in mare». Peccato che se la controllaste prima di mangiarla, trovereste radioattiva anche l’insalata del vostro prossimo pasto, per via del potassio-40. Col tempo si scoprirà che l’acqua «radioattiva» versatasi in mare è poco più di un metro cubo. Ma fa lo stesso: in un Giappone che ospita 53 reattori nucleari attivi, che danno al Paese quasi 1/3 dell’energia elettrica, uno dei più forti terremoti mai subiti, con epicentro a pochi chilometri dal reattore ha, come conseguenza, il riversamento in mare di un metro cubo d’acqua contaminata. Il che è, in verità, una prova ulteriore della sicurezza del nucleare. Ma per qualche misteriosa ragione le prime pagine di alcuni giornali tendono a diffondere il messaggio opposto. Ecco cosa riportava sabato scorso, sempre in prima pagina, il Corriere della Sera: «In Piemonte le scorie d’Italia, col 75% dei rifiuti radioattivi nazionali». Non si capisce se intendono dire «solo il 75%» o «ben il 75%»: nel secondo (e più probabile) caso, la notizia rassicurante è che il resto dell’Italia sarebbe, radioattivamente parlando, incontaminata, cosa che il cronista del Corsera si guarda bene dal notare. Ci tiene invece a far notare i camini della centrale di Trino «che fan paura a sol vederli» (ma il vapore che fuoriesce dai «camini» di un reattore nucleare in esercizio è acqua purissima) e che vi sarebbero 8 lavoratori contaminati e le falde acquifere inquinate dallo stronzio-90. Mi sono informato: in entrambi i casi sono stati registrati valori di poco superiori allo zero strumentale. Il che è vero per tutti noi e probabilmente vero per tutte le acque del mondo, contaminate dello Sr-90 dalle centinaia di test nucleari occorsi negli anni Sessanta.
Un altro «incidente nucleare» riportato dai media è avvenuto pochi giorni fa nella centrale di Garigliano: due donne delle pulizie accusano un improvviso malore. Trasportate d’urgenza in ospedale raccontano che lavorano in un locale che ospita rifiuti radioattivi. I medici dispongono accertamenti per verificare il livello di contaminazione radioattiva delle due donne e avvertono immediatamente i carabinieri, i quali dispongono le verifiche. Siccome la sola apparecchiatura esistente nella regione si trova proprio presso la centrale di Garigliano, le due donne, ricaricate in ambulanza, vengono trasportate alla centrale, stavolta accompagnate dai carabinieri. Qui sono sottoposte al «total body scanning», in grado di rivelare anche minime tracce di contaminazione. Risultato: sulle donne non esiste alcuna traccia di contaminazione né i locali da esse frequentati presentano traccia di radioattività. Dopo alcune ore i carabinieri tornano alla centrale e chiesto di parlare ancora con il responsabile gli riferiscono che alla foce del Garigliano è stata rinvenuta una mucca morta, «si ritiene a causa delle esalazioni radioattive» provenienti dall’impianto. L’esterrefatto tecnico non può che dichiarare che dall’impianto, spento definitivamente nel 1978, non può essere uscito niente. I carabinieri lo stesso trascinano il poveretto sino al luogo della mucca, ove si scopre che il povero animale non è affatto morto, ma si è rotto una zampa scivolando in un fosso.

Questo è il clima, signori. Dagli tsunami ai terremoti, dai capogiri da caldo alle vacche cadute nel fosso, ogni scusa è buona per indottrinare che il nostro problema è un giorno il riscaldamento globale e un altro il nucleare: fateci l’abitudine, vi aiuterà a dimenticare i veri problemi.