LA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA: CARTEGGIO TRA GIUSEPPE PRESTIPINO E GIANFRANCO LA GRASSA

 

Vi proponiamo sul blog un breve carteggio tra il prof Giuseppe Prestipino, uno tra i più prestigiosi marxisti italiani (e non solo), e il prof. Gianfranco La Grassa. La discussione prende spunto dal precedente articolo “Spigolature” dell’economista veneto (laddove veniva affrontato il tema della violenza rivoluzionaria in quanto distruzione creatrice necessaria alla trasformazione sociale) nei confronti del quale Prestipino avanza alcune critiche.

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Caro Gianfranco,

sei molto bravo quando scrivi libri, ma non sempre ti seguo quando (come lo… stalinismo da noi ipercriticato giustamente) consideri nemico peggiore il quasi-amico. Per fortuna, non lo fai fucilare.

In allegato* ti mando poche righe che alludono a un tuo precedente messaggio sulla violenza.

Io non sono bertinottiano ortodosso né affiliato ad altre correnti comuniste o pseudo-comuniste, ma di Berlusconi ho più paura di quanta ne hai tu.

Cari saluti.

Giuseppe Prestipino

 

*[ALLEGATO] Se proprio dobbiamo processare le locuzioni impiegate dai padri fondatori, infliggerei una lieve condanna al cosiddetto “socialismo scientifico” manderei assolto per non aver commesso il reato quel comunismo “libertario”, benché non autodefinitosi tale, che un po’ meno in Marx, un po’ più in Engels e anche in Lenin fece alcune concessioni all’anarchismo (vogliamo anche noi, rispondevano, togliere di mezzo ogni disciplina organizzata, ma non subito); concessioni che indussero Stalin a commettere lui il reato (a decidere che, per il fine di eliminare ogni disciplina in futuro, il mezzo più sicuro fosse quello di farne un uso sempre più terrificante nel presente). L’anti-stalinista Bertinotti teorizza la nonviolenza. Ed egli è, come tutti gli altri “sinistri” odierni, disprezzato con sarcasmo da una persona peraltro intelligente, che scrive con acume sul capitalismo vecchio e nuovo, ma sembra perdere la bussola quando, in specie utilizzando abilmente la posta elettronica, polemizza in modo acre contro tutte le sinistre odierne. Da ultimo, cita Engels là dove deride Dühring perché ignaro dell’«elevato slancio morale e intellettuale» risultante dalla violenza rivoluzionaria. Lo slancio morale e intellettuale suona bene accetto a chi, come me, si considera un mediocre epigono gramsciano. Ma qual è, in Gianfranco La Grassa, la giustificazione storica della violenza come male necessario? Non tanto la vecchia certezza apodittica secondo la quale il capitalismo ha reagito e reagirà sempre con violenza a ogni tentato cambiamento di società, imponendo così la violenza anche al suo avversario, quanto l’appropriata definizione del capitalismo che troviamo in Schumpeter: l’innovazione imprenditoriale capitalistica è distruzione creatrice. Ergo, sostiene La Grassa, ogni creazione del nuovo dev’essere distruttrice. Ed è strano che uno studioso distintosi per avere, al seguito di Bettelheim, esecrato il regime sovietico come quello che ricalcava per non secondari aspetti il capitalismo, voglia ora spiegare ai novatori che il modello di ogni traformazione radicale dev’esserci offerto dal signor Capitale. La Grassa dice di più: che non si cambia il sistema se non lo si colpisce al “cuore”. Eppure egli sa bene che, oggi più che mai, il capitale è… senza cuore. Fuor di metafora: non vi è più un solo centro di potere. Gramsci lo aveva capito perfettamente. Ma le conquiste parziali da Gramsci consigliate si distanziavano abissalmente dal riformismo, perché miravano pur sempre al “gran salto”. Con una sola avvertenza: il salto non lo vediamo mentre lo facciamo; il salto sarà tale quando sarà stato fatto e perciò sarà visibile post festum, ossia dagli storici del futuro.

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Caro Giuseppe,

"cuore" non significa in effetti che il capitalismo abbia un centro di comando; tanto è vero che da sempre critico ogni tesi "ultraimperialistica" alla Kautsky e fondo l’interpretazione del capitalismo sulla conflittualità strategica tra gruppi dominanti per assumere l’egemonia (che non è mai presa
una volta per tutte; tanto è vero che cito spesso lo sviluppo ineguale, ecc.). Quanto alla distruzione creatrice non la tratto in senso puramente economico (mi sembra di averlo detto anche nell’ultimo pezzo), ma certamente non è per me un fatto puramente capitalistico; anzi ritengo che il principio
della "energia concentrata spazialmente e temporalmente" vada al di là degli stessi fenomeni sociali. Comunque, non posso adesso riscrivere varie cose che ho già sviluppato, ma avrò modo di trattarne ancora in futuro. Invece, sulla sinistra tengo duro perché a me fa molta più paura di
Berlusconi che rappresenta soprattutto se stesso e pochi altri gruppi (potrebbe essere più incisivo se veramente fosse capace di aggregare durevolmente strati sociali di lavoro autonomo; ma non ha i c….per saperlo fare; e poi anche lui è pieno di compromessi e mediazioni). La sinistra invece, proprio come la socialdemocrazia a Weimar, è la quintessenza dell’apparato di servizio (politico-culturale) della parte più arretrata del capitalismo, quella parassitaria, che può mettere in sofferenza l’intero paese e quindi provocare reazioni in effetti pericolose (non "berlusconiane"; se continuate ad essere fissati su questo personaggio, potreste avere risvegli assai bruschi nel medio periodo). Nel pezzo di stamattina sul blog ho sviluppato (ancora non del tutto) questo problema.
Con immutato affetto e sempre con il desiderio di rivederti, ti invio cari saluti
Gianfranco

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Caro Gianfranco,

non mi oppongo [qui abbiamo chiesto al Prof. Prestipino di poter pubblicare le sue riflessioni sul blog, ndr].

Tuttavia, sarebbe opportuno precisare che il tuo secondo pezzo sulla violenza richiederebbe da parte mia chiarimenti ulteriori che, per ora, non posso formulare perché preso da altre faccende più o meno gradevoli. Qualche accenno in due parole. Io studio (e seguo) Gramsci, secondo il quale vi sono processi <molecolari> che, soltanto con il senno di poi, ci riveleranno in che momento si è prodotta una distruzione creatrice (invece che, dico io, una creazione distruttrice come quella capitalistica). Altro punto delicato: io conosco in modo un po’ più ravvicinato, se posso fare
ipotesi sulle tue conoscenze, alcuni esponenti della sinistra detta radicale o antagonista; vi è tra loro tensione e/o preoccupazione; non tutti sono agli ordini della GF e IC, ammesso e non concesso che alcuni lo siano. La minaccia del Berlusconi che torna suscita una paura condivisa da quasi tutto l’elettorato della sinistra detta alternativa. Chi può prendersi la responsabilità di fare sparire il proprio partito?

Soltanto chi, come te, è… senza partito.

Scusami per l’eccesso di sintesi e per le omissioni.

Un caro saluto.

Giuseppe Prestipino

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       Caro Giuseppe,

credo che, al di là di sottigliezze, distruzione creatrice o creazione distruttiva implichino comunque che non si può produrre nulla di veramente nuovo se non attraverso un brusco “riorientamento”, che non avviene facilmente con le buone maniere. In realtà, si può discutere il termine “creazione” perché sappiamo che “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. In definitiva, si usa “creare” per l’espressività e la forza del termine, ma si dovrebbe parlare di trasformazione. Solo che vi sono trasformazioni piuttosto rapide che sono quelle che fanno emergere il nuovo solo dopo aver in gran parte annientato il vecchio. Vi sono invece le graduali e riformistiche “trasformazioni” che sono quasi sempre (non ne faccio una legge generale) quelle “gattopardesche”: cambiamo (apparentemente) tutto affinché tutto resti nella sostanza come prima.

Il discorso si farebbe lungo e anche interessante, ma anch’io sono in carenza di tempo. Spero comunque di poterlo riprendere. Piuttosto due parole sul “senza partito”. Non certo in linea generale, di principio, ma in questa fase storica, è proprio necessario essere senza partito per la trasformazione brusca (la “creazione”). Se tu mi dici che senza organizzazione non si può “creare” nulla, sfondi una porta aperta; non sono io, ma proprio i “rifondatori” vicini a Bertinotti che blaterano di Movimento dei movimenti. Mai ci ho creduto e bene ho fatto. Tuttavia, oggi non possiamo usare, soprattutto nella sedicente sinistra, le organizzazioni esistenti, che sono una palla di piombo al piede.

Inoltre, dovresti ricordare quanto me che i comunisti, quando lo erano sul serio, non si ritenevano di sinistra; Saragat e, dopo il Congresso del Psi dell’autunno 1956 (Venezia), anche Nenni erano di sinistra, non i comunisti (si veda per favore in proposito il bel film “La villeggiatura” di Leto e si ricordi la frase pronunciata dall’operaio comunista all’indirizzo dell’ancora liberale prof. Rossini). Per quanto ricordo, i comunisti che frequentavo io negli anni ’50 disprezzavano assai meno (talvolta perfino quasi stimavano) il segretario liberale Malagodi rispetto ai saragatiani e simili, considerati gentaglia. Oggi non credo si possa essere più comunisti come a quel tempo, ma resta il fatto che sono meno odiosi i “destri” che non i “sinistri”. Ho rotto con la mia classe di appartenenza – che non era una “piccola” borghesia – non perché avessi subito letto i classici del marxismo, ma perché per me il principale difetto umano, quello che odio di più e che quasi mi porta a considerare la pena di morte, è l’ipocrisia. Oggi questo difetto è la vera caratteristica dei sinistri; una cosa per me disgustosa. Non sarò mai di sinistra e l’avverserò sempre. Non rimpiango invece di essere stato comunista, lo ritengo un titolo di onore, non lo rinnego per nessuna ragione.

Credo però che sia giunta l’ora di cambiare strada. Non è un caso che quelli che restano comunisti, con solo piccole “variazioni sul tema”, continuino a scindersi ogni 2-3 anni, riducendosi a enclaves sempre più esigue e ormai ridicole (con tutti i riti della “linea”, dei “fuori linea” che vengono espulsi, ecc.). Cambiare strada non significa però diventare di sinistra, prospettiva per me inaccettabile e gravemente errata. Oggi, quindi, non esistono per quelli come me organizzazioni partitiche in cui entrare: o sono di sinistra o sono comuniste troppo vecchio stampo malgrado le “buone intenzioni” di cambiare.

Comunque, ho scritto anche troppo. L’importante è adesso continuare a lavorare, come facciamo entrambi. Cari saluti

Gianfranco La Grassa