Il prezzo da pagare per diventare

il delfino del capitalismo italiano

 

di Emiliano Brancaccio

 

Ha caricato sul suo carrozzone Ichino e Calearo, ha messo in chiaro di voler demolire quel che resta del contratto di lavoro nazionale e ha pure ammiccato con chi propone di abolire le tutele previste dall’articolo 18 contro i licenziamenti ingiustificati. Insomma, la comoda parodia del “ma anche” di Crozza  (che in verità ci ha sempre convinti poco) ha ormai fatto il suo tempo. Walter Veltroni si sta rapidamente liberando della maschera di ambiguità che pareva averlo inizialmente caratterizzato, e ci sta facendo capire con sempre maggiore nettezza da che parte ha situato il suo Partito democratico. Sul piano della tattica politica, infatti, il leader del Pd lascia bene aperto lo spiraglio delle grandi intese con la destra. Per quanto riguarda poi la strategia dei consensi, il suo minuetto col padronato è ormai all’ordine del giorno. Dopo il Veltrusconi, è la volta adesso di Waltindustria.

La sbandata a destra, anche solo rispetto a quel che i Ds rappresentavano appena pochi mesi fa, è enorme. Tuttavia per la grande stampa borghese l’impegno di Veltroni non è ancora ritenuto sufficiente. In un editoriale pubblicato ieri dal Corriere della Sera, Francesco Giavazzi ha chiarito senza mezzi termini quel che i principali gruppi capitalistici nostrani vorrebbero ancora dal leader del Pd: innalzare ulteriormente l’età pensionabile, privatizzare i servizi pubblici locali e varie altre cose, ma principalmente “abolire lo Statuto dei lavoratori, tutto, non solo l’articolo 18”. Blair non avrebbe esitato, aggiunge Giavazzi. Veltroni cosa aspetta?

Per Waltindustria, dunque, gli esami non finiscono mai. Il padronato si lamenta, batte i piedi in terra, ed egli dovrà sempre più spesso accorrere, rassicurare e promettere. E’ questo in fondo il prezzo da pagare per diventare il delfino di quei centri del capitalismo italiano che poco si fidano di Berlusconi, e che tuttora puntano su un sostanziale pareggio elettorale e sulla grande coalizione per sperare di rivoltare l’Italia come un calzino. Ma perché mai i capitalisti italiani stanno così insistentemente alzando la posta? Come si spiega questa fretta, questa specie di voglia sessantottesca al contrario, che li spinge a “volere tutto”, persino magari l’impossibile? Verrebbe immediato rispondere che si sentono forti, blanditi e vezzeggiati, e che di conseguenza intendono battere il ferro della politica finché è caldo. Questa spiegazione è in parte corretta, ma coglie solo aspetti superficiali del comportamento padronale, senza indagare sulle sue determinanti profonde. E’ pur vero infatti che Confindustria si trova oggi più che mai al centro della scena politica nazionale. Ma il punto chiave è che questa centralità politica si verifica in contemporanea con una palese marginalizzazione economica del capitalismo italiano all’interno del quadro europeo e mondiale. I padroni nostrani non sono certo in braghe di tela, beninteso: molti di essi continuano a macinare ingenti profitti. Ma la distanza relativa tra i loro guadagni e quelli medi del capitale internazionale cresce a vista d’occhio. Basti guardare all’andamento dei costi per unità di prodotto all’interno dell’Unione monetaria europea. Essi vistosamente divergono tra loro, con l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa sempre più in affanno rispetto alla Germania e alle altre economie trainanti. I nostri capitalisti vedono quindi sempre più deteriorarsi le loro quote di mercato e questo, a lungo andare, comporterà la loro uscita dal mercato o il loro assorbimento tramite acquisizioni estere. Col risultato, in questo caso, che nella catena europea del valore aggiunto ai lavoratori italiani spetterà sempre di più la parte della fatica e delle briciole. E’ bene chiarire che qualche indizio rilevante, in questo senso, ci è dato persino dall’assetto bancario, che al fondo delle cose riflette i limiti dell’industria sottostante: nonostante le poderose centralizzazioni dei capitali avvenute in Italia negli ultimi anni, il rischio di take-over esteri rimane elevato per più di un gruppo nazionale. E c’è da scommettere che Draghi non muoverà un dito per mantenere la testa pensante del capitale finanziario entro i confini nazionali.

Questo ed altri segnali indicano in sostanza che i capitalisti italiani stanno progressivamente scivolando dal vecchio ruolo di capitani d’industria a quello molto meno edificante di modesti rentiers, possessori di quote di minoranza del capitale globale. Il che in fin dei conti non può meravigliare. Questa tendenza riflette l’arretratezza del nostro sistema produttivo, caratterizzato soprattutto da capitali piccoli, frammentati e polverizzati, contraddistinti da una bassa produttività e da un infimo potere di mercato rispetto ai giganti europei. Altro che “piccolo è bello, dunque”. La lezione di Marx è sempre valida: il capitale tende a concentrarsi e a centralizzarsi, e i proprietari minori e periferici sono destinati a farsi da parte. Ovviamente, una così poco gradevole prospettiva dipende anche dalla inadeguata risposta che si è data nel tempo a questi problemi. Per anni i capitalisti nostrani hanno preteso di tamponare le loro debolezze strutturali esigendo dalla politica mani libere al fine di ridurre al minimo le retribuzioni e di intensificare al massimo gli sforzi produttivi dei lavoratori. Ebbene, il risultato di questa greve linea di indirizzo è oggi sotto i nostri occhi. Ci ritroviamo infatti con dei salari tra i più bassi d’Europa e con un numero di vittime per unità prodotta tra i più alti del continente. Eppure, nonostante l’elevatissimo prezzo pagato dalla classe lavoratrice, registriamo in ogni caso una perdita sistematica di quote di mercato e una tendenza inarrestabile al deficit con l’estero. I padroni italiani insomma hanno fallito, e con essi la politica che li ha assecondati. Verrebbe a questo punto naturale attendersi un cambio di rotta, ed invece ci ritroviamo alle prese nientemeno che con Waltindustria, vale a dire con una simbiosi ancor più stringente tra capitale e politica, per lo più finalizzata a reiterare la vecchia strategia del passato. Il professor Giavazzi del resto dovrebbe saperlo: le evidenze empiriche di cui disponiamo ci dicono chiaramente che l’eventuale abolizione dell’articolo 18 – o addirittura di tutto lo Statuto dei lavoratori – non avrebbe alcun effetto di rilevo sui tassi di disoccupazione o sulla dinamica della produttività nazionale, mentre darebbe luogo a un ulteriore indebolimento della capacità contrattuale dei dipendenti e quindi a una ancor più vistosa compressione dei salari. La solita minestra di sempre, insomma.

Nelle settimane che ci dividono dal voto, bisognerà dunque mettere in luce che la modernizzazione proposta da Veltroni ci conduce dritti verso la marginalizzazione e la colonizzazione capitalistica del paese. Se infatti si vuole credibilmente sperare in un futuro alternativo, occorre in primo luogo scommettere sul fallimento elettorale della nefanda linea dell’attuale leader del Partito democratico. In seguito, si tratterà di capire se la sinistra che ci è rimasta sia in grado di riaprire la contesa per l’egemonia. Ma di questo riparleremo a tempo debito.

 

Liberazione, mercoledì 5 marzo 2008

 

                                                                                   Emiliano Brancaccio