Veloci considerazioni di Gianfranco La Grassa sull’articolo del condirettore del Financial Times che annuncia grosse difficoltà economiche per il Goveno Prodi (più sotto ciò che viene ripreso dal corriere.it)

Il FT non deve essere preso come un oracolo, visto che fa gli interessi di certa finanza euroamericana. Ciò era però valido anche quando criticava il governo di centrodestra (la stessa cosa vale per l’Economist); ed è valido pure adesso nel momento in cui critica il prossimo governo e il suo (non) programma. Invece, tutti i "sinistri" erano estasiati prima del 9 aprile delle critiche (ultraliberali) di FT e Economist a Berlusconi, mentre ora protestano sdegnati affermando che tali giornali non capiscono nulla.In realtà, tali giornali capiscono benissimo quali sono gli interessi (euroamericani, cioè di una Europa subordinata agli USA) che sembravano
meglio difesi – nella sostanza, non a parole – dal centrosinistra. Adesso che la prospettiva è mutata – non per cambiamento programmatico del centrosinistra che è sempre lo stesso, ma per la sua debolezza politica – i giornali della finanza euroamericana sono vivamente, e giustamente, preoccupati. L’analisi non è comunque tutta peregrina, ci sono senz’altro delle "verità", cioè dei fatti che non sarà tanto facile smentire. Il problema è che i due schieramenti oggi esistenti in Italia sono entrambi disastrosi e incapaci di alcunché; e se anche arrivasse la forza populista, di cui parla il FT, non si risolve nulla. Occorrerebbe una forza politica
molto dura e cattiva con programmi precisi (che non sono, come qualcuno pensa, di tipo nazionale) di rilancio produttivo, ma in settori di punta e fortemente innovativi. Bisognerebbe spazzare via neoliberismo e "neokeynesimo" (in realtà il semplice assistenzialismo statale senza prospettive che passa, non so perché, sotto questo nome). Occorrerebbe smetterla di credere che le difficoltà di sviluppo dipendano dal lato della domanda; e bisognerebbe annientare non so quanti miti sia della destra che della sinistra. Destra e sinistra andrebbero fatte fuori contemporaneamente e senza tanti complimenti "democratici". Ma non a caso uso il condizionale, poiché al momento non si vede nulla di buono all’orizzonte, per cui quello che scrive il FT ha un suo parziale realismo.Ovviamente, se ne dovrebbe riparlare a lungo, qui ho detto solo poche cose veloci.

Da Dagospia su fonte Corriere.it
Un default sul debito e l’uscita dall’euro entro 10 anni. Sono molto nere le previsioni del Financial Times sull’Italia dopo la vittoria, di strettissima misura, di Romano Prodi nelle ultime elezioni politiche. La tesi è contenuta nell’ascoltatissimo commento settimanale dell’editorialista Wolfgang Munchau, condirettore del quotidiano londinese. «La risicata vittoria della coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi – si legge nell’editoriale – costituisce il peggior esito immaginabile in termini di possibilità dell’Italia di rimanere nell’eurozona oltre il 2015».

«Prevedo che gli investitori internazionali inizino ad assumere scommesse speculative sulla partecipazione italiana all’euro entro la durata di un governo Prodi. Queste – puntualizza Munchau – non sono scommesse sull’impegno politico di Prodi nei confronti dell’euro. Sarebbe infatti difficile trovare un politico più a favore dell’Europa dell’ex presidente della Commissione europea. Queste sono scommesse sulle circostanze economiche che potrebbero obbligare un governo a prendere decisioni che sono inimmaginabili fino al momento in cui diventano inevitabili».

L’ECONOMIA ITALIANA – «Tutti sappiamo – sottolinea Munchau – che l’economia italiana si trova in profonde difficoltà. Ma è importante ricordare che i problemi italiani sono differenti da quelli della Francia e della Germania. Molte economie continentali sono afflitte da bassa crescita e alta disoccupazione. Anche l’Italia soffre di un basso livello di crescita anche se la sua creazione di posti di lavoro è stata rilevante. Ma il problema dell’Italia è quello di non essere pronta a una vita nell’Unione monetaria».

LE RIFORME DI PRODI – Il Financial Times segnala la forte discrasia tra problemi e soluzioni proposte. Da un lato infatti «sin dalla nascita dell’euro nel 1999, l’Italia ha registrato un massiccio apprezzamento del suo tasso reale di cambio. I suoi costi unitari del lavoro sono cresciuti del 20% rispetto alla Germania. Ma mentre le retribuzioni tedesche reagiscono alla domanda aggregata, i salari italiani continuano a crescere a un ritmo del 3% annuo. L’Italia registra anche un problema di competitività di prezzo in molti settori economici. Un programma sensibile di riforme economiche dovrebbe concentrarsi sulla contrattazione salariale e sulla regolamentazione dei mercati dei beni e servizi».

Dall’altro lato «Prodi offre il tipo sbagliato di riforme. Che consiste nello stesso tipo di riforme che sono fallite in altri Paesi europei. E dal momento che la sua frammentata coalizione di moderati, socialisti e comunisti, avrà una sottolissima maggioranza in Senato, potrebbe anche non essere in grado di portare a compimento il suo insufficiente programma. Se l’Italia continuerà a perdere competitività macroeconomica, un movimento politico populista potrebbe ben emergere con un programma per l’abbandono dell’euro.

Proviamo a immaginare l’inimmaginabile e ipotizziamo che un futuro governo italiano riporti la lira. Cosa succederebbe al debito del Paese, prevalentemente denominato in euro, che attualmente raggiunge il 106,5% del Pil? L’Italia sarebbe quasi certamente incapace di rimborsare pienamente le sue obbligazioni nei confronti degli investitori. E dovrebbe o riconvertire tali debiti in lire a un tasso di cambio sfavorevole agli investitori, o addirittura dichiarare apertamente l’insolvenza».

Il condirettore del Financial Times snocciola qualche altra cifra rilevante. «Dal punto di vista di un investitore l’abbandono dell’eurozona è equivalente a un’insolvenza sovrana. E data questa prospettiva, perché i mercati finanziari non stanno ancora scommettendo su un tale evento? La scorsa settimana i rendimenti sui titoli pubblici decennali italiani registravano solamente un differenziale di 0,3 punti al di sopra degli equivalenti titoli tedeschi. E tale valutazione suggerisce che i mercati non vedono attualmente un alto rischio di default. Ma certamente, anche se qualcuno reputa improbabile l’abbandono italiano dell’eurozona, il rischio non è nemmeno pari a zero».
L’OTTIMISMO DEL MERCATO – Secondo Munchau «tre fattori potrebbero spiegare l’ottimismo del mercato». Primo: «l’opinione che l’Italia potrebbe essere effettivamente intrappolata dentro l’Eurozona; lasciarla non risolverebbe alcun problema economico». Secondo: la Banca centrale europea in ultima istanza interverrebbe per evitare l’insolvenza di uno stato membro. Ma tale argomento – si legge ancora sul Financial Times – sembra sottovalutare la decisione della Bce a rispettare la propria regola di "non salvataggio" in tali circostanze». Il terzo fattore è quello che «anche se si accettasse lo scenario peggiore, è ancora molto improbabile che l’insolvenza si materializzi entro la vita residua di un’obbligazione decennale. E tale argomento – sottolinea Munchau – offre la spiegazione più plausibile per cui i mercati non hanno ancora fatto pagare un premio di rischio più elevato sui titoli di stato italiani. E spiega anche perché i mercati obbligazionari sono notoriamente cattivi indicatori anticipati del rischio d’insolvenza. I mercati obbligazionari sono compiacenti fino a quando iniziano ad andare nel panico».
IL GOVERNO DELL’UNIONE – Il Financial Times chiede retoricamente: «dopo i risultati delle elezioni italiane gli investitori rimarranno altrettanto ottimisti sui seguenti dieci anni durante la vita di un governo Prodi? Esiste una ragionevole possibilità che nei prossimi cinque anni il premio di rischio (italiano, ndr) salirà nei prossimi cinque anni. E prevedo – aggiunge Munchau – anche un aumento per gli swap sull’insolvenza creditizia italiana, strumenti finanziari attraverso i quali gli investitori possono assicurarsi contro il rischio. La scorsa settimana gli investitori avrebbero pagato un premio annuale di 21.750 euro per assicurarsi contro l’insolvenza su di un investimento di 10 milioni di euro in un titolo di stato italiano a 10 anni. E si tratta di un livello molto basso, date le incertezze economiche e politiche.

Tali swap, non sono sofisticati strumenti speculativi. Un acquirente di swap sull’insolvenza creditizia italiana viene rimborsato solo se l’Italia cade in uno stato d’insolvenza. Ma gli investitori sofisticati sanno come costruire strategie di trading profittevoli da una situazione così sbilanciata. I mercati finanziari non possono provocare l’uscita di un Paese dall’Unione monetaria attraverso la speculazione valutaria, come fecero nel 1992 facendo uscire la Gran Bretagna dal meccanismo di cambio europeo. Ma per gli investitori esistono altri modi per sfruttare le difficoltà di un Paese dentro un’Unione monetaria».
PARALLELI ROMA-LONDRA – «Ecco perché – conclude Munchau – esistono dei paralleli tra l’Italia di oggi e la Gran Bretagna del 1992. Allora l’impegno della Gran Bretagna per il meccanismo di cambio appariva incrollabile come l’impegno di Prodi per l’euro ora. Ma la Gran Bretagna non era pronta né economicamente né politicamente a vivere in un regime di cambi semifissi. E la partecipazione dell’Italia all’euro è basata su fondamenti parimenti traballanti. Quattordici anni fa per gli investitori ci vollero pochi giorni per smascherare una bugia politica».