SULLE ELEZIONI NEGLI USA (di G. La Grassa)

1. E’ stato abbastanza divertente seguire i commenti delle varie forze politiche e correnti culturali italiane in occasione delle recenti elezioni di “medio termine” negli USA. Sembrava quasi che gli abitanti di quella grande potenza avessero votato in base agli orientamenti del ceto politico e intellettuale di una “pulce” qual è l’Italia. Lascio comunque da parte la meschinità di questo ceto e tento di sviluppare le mie povere considerazioni.

Innanzitutto, negli ultimi decenni almeno, per una buona parte del tempo (credo per la maggior parte) la Presidenza degli Stati Uniti è stata di colore diverso rispetto alla maggioranza esistente nelle Camere (o almeno in una di esse). Negli USA, inoltre, vota sempre o poco meno o poco più della metà dell’elettorato potenziale; e il voto si addensa generalmente verso il centro. Del resto, ci sono alcuni settori del partito democratico che sono più conservatori (da noi si direbbe che sono più “a destra”) di alcuni settori del partito repubblicano. Anche queste elezioni non hanno fatto eccezione, perché sarebbe veramente dir troppo affermare che la nuova maggioranza democratica alle Camere (ivi compresa la folta rappresentanza femminile anche in posizioni elevate) esprima una ventata di radicalismo e di netta inversione di tendenza rispetto agli orientamenti dell’amministrazione repubblicana. Si può essere certi del forte sentimento nazionale di tutte le correnti politiche e, quindi, della loro comune volontà di non indebolire comunque la potenza americana in quanto ancora egemone sul piano globale. 

Tuttavia, almeno in buona parte, il cambiamento di indirizzo dell’opinione pubblica sembra derivare non tanto dalla situazione economica – attualmente non particolarmente brillante, tanto che perfino il “nostro” Tremonti sul Corriere (12 novembre) ammette di non ritenere probabilissima, ma comunque di temere la possibilità di un nuovo 1929 – quanto dall’impasse in cui si trova la politica estera, in particolare quella tutta “sparata” sul fronte della “difesa” dal presunto terrorismo. E qui bisognerà in effetti approfondire l’intera questione della volontà degli USA di tenere la posizione predominante che il crollo del socialismo reale e poi dell’URSS assegnò loro dopo il 1989-91.

Da quella data, si sono succedute con notevole rapidità molteplici aggressioni statunitensi in aree non capitalisticamente avanzate ma di notevole importanza strategica. Nel 1991 la prima aggressione all’Irak (con Presidente Bush padre, cioè con un’amministrazione repubblicana), nel 1999 quella alla Jugoslavia (effettuata da un’amministrazione democratica, con al seguito il nostro Governo di centrosinistra presieduto da D’Alema); e poi – appunto con la scusa della presunta lotta al terrorismo (preparata dal famoso attentato dell’11 settembre 2001, su cui evito commenti) condotta dal repubblicano Bush (figlio) – quelle all’Afghanistan e ancora all’Irak. Teniamo anche presente – perché è parte dell’azione USA di predominio mondiale – la crescente azione repressiva e aggressiva di Israele sia in Palestina che in Libano.

La mia convinzione è che si debba distinguere la prima dalla seconda guerra all’Irak; non a caso, nella prima, gli USA evitarono di andare fino in fondo, mentre adesso premono persino perché si arrivi all’esecuzione della sentenza emessa contro Saddam. La prima invasione dell’Irak si colloca tra il crollo del socialismo reale e la dissoluzione dell’URSS; ma è dopo quest’ultima che si entra veramente in una nuova fase storica. Gli USA restano l’unica grande potenza e si spalanca quindi per essi la prospettiva di una completa supremazia mondiale. E tuttavia, è a partire da questo momento che si evidenzia la loro incapacità – malgrado l’enorme divario rispetto ad ogni altro paese in termini di forza militare ma anche produttiva, finanziaria, tecnico-scientifica – di riuscire a dominare l’intero globo. Viene certo respinto, proprio nei primissimi anni ’90, l’attacco economico del Giappone, che alcuni, anche di sinistra, anche marxisti, vedevano come la nuova potenza globale in grado di sostituire la sua preminenza a quella statunitense. Il forte paese del Sol Levante entra in un buon dodicennio di crescita praticamente nulla (ora un più, ora un meno, zero virgola pochi decimali di variazione del Pil). Cresce invece impetuosamente la Cina, ultimamente anche l’India; e ormai la Russia, dopo anni di “capitalismo selvaggio” (comunque di disorganizzazione, di decrescita, di logoramento del proprio potenziale non solo bellico ma anche tecnico-produttivo), sembra avviata a ridiventare un paese in rapido progresso delle proprie forze produttive e di più che discreto rafforzamento della propria potenzialità politica e anche militare.

C’è però un periodo di tempo (forse un buon quinquennio), durante gli anni novanta, in cui cresce la capacità espansiva, ed espansionistica, della Germania, che approfitta del crollo del socialismo reale, dell’indebolimento della Russia e del disfacimento della Jugoslavia, per lanciarsi verso l’est europeo; tanto che, ancor oggi ad esempio, circa il 70% degli investimenti esteri in Polonia è di marca tedesca. Ed è per stoppare questa possibile ascesa che gli USA di Clinton (cioè dei “democratici”) organizzano – attraverso una delle più vergognose manipolazioni dell’opinione pubblica dei paesi sviluppati circa il “genocidio” perpetrato ai danni degli albanesi in Kosovo (manipolazione coadiuvata anche dall’ONU e, nel nostro paese, proprio da forze di sinistra che erano allora al Governo) – l’aggressione alla Jugoslavia, seguita anche in quel caso dal processo a Milosevic, cui ha messo termine la sua morte sospetta. Ancor oggi – malgrado che, sei mesi dopo la campagna del gen. Wesley Clark (appoggiata dal nostro infame Premier D’Alema, che si inventò, con linguaggio da 1984 di Orwell, la “difesa integrata”), l’OCSE abbia dimostrato come i morti in Kosovo fossero stati 2000 (non i 100.000 propagandati, poi ridotti a 50.000) – si continua a ripetere, in specie a sinistra, che quell’intervento era giustificato dal “genocidio” in atto.

 

2. In realtà, l’intervento degli USA dette un colpo decisivo alle velleità espansionistiche tedesche, senza che i servi europei di quell’impresa, salvo forse (ma non troppo) l’Inghilterra, ne ricavassero grandi vantaggi. Quando nel 2000 ascese alla Presidenza il repubblicano Bush jr., gli USA dovettero prendere atto che la situazione era molto diversa da quella pensata fino ad allora e che aveva guidato i democratici all’aggressione nei Balcani per fermare la Germania. Quest’ultima non aveva affatto le potenzialità necessarie ad impensierire gli Stati Uniti; e non avrebbe mai potuto averle senza l’appoggio di almeno alcuni altri importanti paesi europei. Il Giappone era da tempo in perfetta stagnazione. Cresceva invece vertiginosamente la Cina, e anche la Russia era ormai in procinto di “darsi una regolata” in grande stile. Non ci si doveva più impegnare in avventure belliche in Europa, bensì verso sud ed est. Lasciamo perdere ipotesi dietrologiche in merito all’attentato alle “Due Torri” di New York. L’importante è tutto quello che ne seguì; del resto, la manipolazione relativa al possesso delle “armi di distruzione di massa” da parte di Saddam non è più una insinuazione dietrologica, bensì un fatto del tutto certificato e ormai generalmente ammesso.

Ancora Tremonti, sempre sul Corriere del 12 novembre, scrive: “In fondo, la prima strategia americana sull’Afghanistan non era tanto di contrasto al terrorismo islamico, quanto di avamposto dell’Occidente verso la Cina”. Lasciamo perdere che non si sa quale altra strategia, oltre alla prima, gli Stati Uniti abbiano poi posto in atto verso l’Afghanistan; e sorridiamo alla bizzarra tesi secondo cui gli USA avrebbero agito per conto di tutto l’occidente capitalistico nei confronti della Cina. Resta invece il fatto, ammesso anche dall’ex ministro economico della destra, che gli Stati Uniti hanno aggredito l’Afghanistan per raggiungere, contemporaneamente, alcuni risultati importanti e che, come spesso accade, non riguardano direttamente il paese aggredito, giacché questo serve solo da base di appoggio per ottenere un certo riequilibrio geopolitico globale. Si trattava, intanto, di impedire che il Pakistan – dove la maggioranza della popolazione, della polizia, dell’esercito, dei servizi segreti, ecc., è filoislamica – venisse completamente sottratto alla sfera di influenza statunitense e potesse diventare, come diverrebbe se fosse libero di scegliere (dati anche i contrasti con l’India), un alleato della Cina. Inoltre, il complesso Pakistan-Afghanistan rappresenta un’area (non solo geografica ovviamente) di grande rilevanza per tentare di consolidare la penetrazione USA nelle Repubbliche centroasiatiche russe, penetrazione che a quell’epoca stava conseguendo buoni risultati (con anche costruzione di basi americane in quella zona appartenente alla Russia). 

La seconda aggressione all’Irak – condotta non a caso fino in fondo, e con occupazione militare del paese – è stata diversa dalla prima; e intendeva stabilire definitivamente un netto predominio degli Stati Uniti sull’intera fascia che va dal Medioriente fino, appunto, ai confini della Cina; fascia che consente anche il contenimento a sud della Russia e dell’Iran, oltre ad essere zona decisiva in tema di fonti energetiche tradizionali e ancor oggi di gran lunga prevalenti. Per quanto riguarda l’Europa, è sufficiente la funzione di “cavallo di Troia” dell’Inghilterra, e l’esercizio di un’azione – rivelatasi non poi così difficile – di progressivo sgretolamento del debolissimo asse franco-tedesco. Aver trovato, per un quinquennio, una destra particolarmente servile in Italia è stata comunque una buona cosa, ma non così decisiva come qualcuno pensa; il centrosinistra al governo non rappresenta per gli USA una effettiva difficoltà in più rispetto all’altra alternativa. Anzi, diciamo la verità: avere dei governanti in grado di muovere le truppe cammellate del lavoro dipendente tramite sindacati particolarmente corrotti, dei governanti più ipocriti che mascherano meglio il loro servilismo nei confronti dei dominanti centrali, ma soprattutto dei governanti molto sensibili ai consigli di contenimento della spesa pubblica e di rientro dal debito e dal deficit – che provengono da organismi europei del tutto proni di fronte agli “ordini” del potere politico e delle grandi concentrazioni finanziarie americane – è quanto di meglio si possa desiderare. Fra l’altro, Berlusconi era un po’ troppo “leggero” nei confronti di certe avances di Putin (lasciamo in ombra questo discorso che sottintende significati impossibili da svelare in “luogo pubblico”, com’è pur sempre un blog).

 

3. La strategia dei “conservatori” repubblicani che attornia(va)no Bush era senz’altro più attenta ai nuovi tempi di quanto non fosse quella della precedente amministrazione, ancora legata alle prime ipotesi, affacciatesi subito dopo gli accadimenti del 1989-91: possibile affermazione, in prospettiva, di un mondo tripolare fondato sulla competizione tra USA, Germania e Giappone, mondo in cui gli USA sentivano ovviamente di poter rimanere, a tempo indeterminato, in netto vantaggio grazie ad un divario di potenziale bellico che appariva, in quel contesto, incolmabile. Diciamo che l’aggressione nei Balcani è stata il frutto della strategia “imperiale” dei democratici influenzati da questa errata visione del mondo “tripolare”; le aggressioni all’Afghanistan e all’Irak (la seconda) derivano dalla nuova, e senza dubbio più corretta, valutazione dell’amministrazione repubblicana in merito ai rapporti di forza geopolitici globali, che vedono in avanzata le nuove potenze all’est, e in particolare Cina e Russia.

Tuttavia, anche la presidenza repubblicana ha nettamente sopravvalutato la potenza militare statunitense; peraltro non esclusivamente tale, perché gli USA sono più avanti anche sul piano scientifico-tecnico, su quello produttivo e finanziario (Wall Street è di gran lunga la più importante Borsa, quella decisiva nel mondo); e, infine, tale paese ha anche i più sofisticati e attrezzati servizi segreti, le più consistenti capacità di corruzione e compera di interi governi nel mondo, ecc. Eppure, è ormai del tutto evidente come, passin passino, si stia entrando in un’epoca policentrica, in cui va acuendosi la contrapposizione tra più paesi, che non è – o almeno non lo è finora – di tipo apertamente militare. Essa tuttavia morde la supremazia, non più indiscussa, degli USA; i quali sono impantanati in Irak, poiché non sono in grado di vincere sul piano militare e tanto meno di mettere in piedi un Governo capace di reggersi sulle sue gambe. Gli “imperialisti” sono rabbiosi, vorrebbero regolare i conti anche con Iran, Siria, ma si rendono conto dei rischi che correrebbero a mettersi in altre avventure di simile portata. Credo, inoltre, che più di qualcuno negli USA abbia capito che non è solo il confronto con l’Islam a mettere a dura prova la potenza statunitense, poiché “dietro” ci sta tutta la “marea montante” dei nuovi paesi dell’est che crescono; pur essendo ancora molto meno forti degli USA, essi ormai incidono a fondo sugli equilibri mondiali, per cui il disordine è decisamente in aumento e sarà sempre maggiore. In fondo, se oggi si può temere – come teme perfino un Tremonti – una crisi tipo 1929 non è per motivi solo economici e finanziari; questi rappresentano l’aspetto “fenomenico”, il davanti della scena. Chi guarda ai sommovimenti profondi capisce che sotto questo aspetto di superficie agisce un veleno più corrosivo: l’incipiente entrata nella fase policentrica a causa dell’emergere di nuove potenze (per ora solo “regionali”) in forte sviluppo.

Per contenere i programmi atomici della Corea del Nord, gli USA debbono ricorrere alla Cina; ma quanto è sincera quest’ultima nel consigliare moderazione al suo vicino? Inoltre, mentre gli USA cercano di erigere una sorta di argine verso la Cina con Pakistan e Afghanistan (argine sempre più fragile e a forte rischio di smottamento), il grande paese asiatico lo aggira e stabilisce rapporti politico-commerciali di entità considerevole con decine di paesi africani (fra i maggiori); ed effettua anche qualche “buona puntatina” in Sud America. Non è più così rosea la condizione degli USA, che non più tardi di cinque anni fa sembravano i completi padroni del mondo. Oggi la situazione è incerta; non dico che gli USA siano in netto declino, ma certamente sono in fase di stallo e di insicurezza in merito al loro reale predominio in molti comparti mondiali. Si ricordi, fra l’altro, che le “rivoluzioni arancione” in Georgia e Ucraina sono in un “cul di sacco”, che i tentativi di destabilizzare la Bielorussia sono miseramente naufragati; nelle repubbliche centroasiatiche russe l’influenza americana appare, al presente, in secco arretramento. Per il momento, il punto di maggior forza degli Stati Uniti è un’Europa “in pappe”, del tutto incapace di “risvegliarsi” dall’ormai troppo lungo letargo; e il nostro paese è forse più “adagiato” degli altri, grazie ad un intreccio tra grande finanza e grande imprenditoria industriale (decotta e assistita dallo Stato, ivi compresa la “miracolosa” Fiat, che entro qualche anno mostrerà tutte le sue rughe adesso ben nascoste da un accorto ma effimero maquillage); intreccio fra i più subordinati al suo correlato statunitense. Ma sul nostro disgraziato paese torneremo in altra puntata.

E’ precisamente in questo contesto, sunteggiato in poche pagine, che si collocano (e spiegano) i risultati delle recenti elezioni negli USA. Non facciamoci illusioni: il popolo americano – come qualsiasi altro – non ha votato avendo in testa le considerazioni qui sopra accennate. Tuttavia, ha “a naso”, in modo vago e indistinto, avvertito che la propria dirigenza è in stato discretamente confusionale e non sa come sostituire una strategia rivelatasi poco efficace con un’altra più adeguata alla effettiva struttura delle relazioni internazionali. E non si creda che, al momento, i democratici abbiano idee più consistenti dei repubblicani. Si nota solo che chi governa attualmente è a un bivio (forse anzi un trivio, un quadrivio o più strade ancora) ed è attanagliato da una notevole incertezza. Per di più, anche la longa manus degli USA, il loro più stretto alleato, Israele, è in pieno caos quanto a scelte strategiche; va a casaccio, con errori (e crimini) sempre più odiosi che mettono a dura prova gli alleati, i loro più strenui difensori. Ed una nuova crisi (che forse, finalmente, coinvolgerà pienamente anche noi italiani, che vogliamo essere sempre i più furbi) si addensa in Libano. Non sono ben messi gli USA, almeno in questo particolare momento storico. Hanno solo questa abietta Europa, e un’Italietta odiosa all’Alberto Sordi, che tengono loro bordone, che con la loro ipocrisia, con le loro classi dirigenti economiche e politiche fallimentari e incapaci, aiutano di fatto il paese imperiale a difendersi da un logoramento che potrebbe farsi decisivo se solo cambiasse qualcosa nella politica europea e italiana. A questo si dovrebbe lavorare!

 

13 novembre