QUANDO SI RIUSCIRA’ A ROMPERE? (di Gianfranco La Grassa)

INTRODUZIONE DI RIPENSAREMARX

[…]A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. […]

 

Basterebbe questa affermazione di Marx, tratta da “Per la critica dell’economia politica,” per comprendere che quanto sopra citato- l’annunciato sovvertimento del capitalismo ad opera di un processo oggettivo di “straripanza” delle forze produttive rispetto ad un “involucro” che si fa angusto, quello appunto  rappresentato dai rapporti di produzione – non abbia nulla a che spartire con certe mode “decadentiste” di questi ultimi anni. Ovvero, da più parti, sull’onda di un fantomatico allarmismo ecologico-sociale, si progetta di abbattere il capitalismo semplicemente frenandone lo sviluppo o proponendo un percorso a ritroso (quello che i ribelli pseudo-comunisti di oggidì chiamano l’ipotesi “decrescita”). In verità persino i marxisti d’antan, quelli che abbiamo sempre criticato, non si erano mai posti l’irrealistico obiettivo di frenare la progressività capitalistica ma pensavano, "più ortodossamente", ad una inevitabile  trasformazione (rebus sic stantibus), in senso comunistico, dei rapporti sociali a causa della loro altrettanto "progressiva" inadeguatezza, rispetto alla dinamica di sviluppo delle forze produttive. Quando, seconda la ben nota teoria, il capitalismo sarebbe arrivato a coincidere con un Trust Mondiale Unificato (TMU), in virtù di un inarrestabile processo di centralizzazione dei capitali, si sarebbe formata una classe di capitalisti “cedolari”completamenti avulsi dal processo produttivo, mentre, a livello della produzione, avremmo assistito alla saldatura dell’ultimo giornaliero con il primo ingegnere. Il sintomo sarebbe divenuto conclamazione e le campane avrebbero suonato la morte del capitalismo. Di fatti, sosterrà ancora Marx:

 

Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.

 

Questo, come tutti sappiamo, non si è verificato. Il capitalismo è saldo al suo posto e il General Intellect è, ormai, l’ultimo "terrapieno" dei post-operaisti, i quali, nonostante l’evidenza, continuano a parlare dello sciame moltitudinario-cognitivistico che starebbe corrodendo dall’interno le fondamenta dell’Impero senza Centro.

Ciò significa allora che possiamo restare a casa finché la formazione sociale capitalistica non avrà sviluppato tutte le sue potenzialità? Nemmeno questo è realistico, perché se crediamo che il capitalismo possa “spegnersi” da solo, per autoesaurimento del proprio “nucleo incandescente”, siamo ancora una volta fuori strada. Come dice bene La Grassa in questo breve scritto che vi proponiamo, “la nascita di una nuova formazione sociale sarà necessariamente una costruzione politica”. A tal fine, il suo ed il nostro obiettivo, non è l’attesa dell’esaurimento delle potenzialità della formazione-sociale capitalistica (aspettando Godot…) ma la comprensione, hic et nunc, della società nella quale attualmente siamo costretti a vivere, per coglierne la direzionalità tendenziale e al fine di  pianificare in essa  le nostre azioni. Se è vero che il mondo sta per entrare in una fase di più o meno acuto policentrismo, con scontro frontale tra  segmenti di classi dominanti che puntano a limitare o surclassare quelle attualmente predominanti, allora, dobbiamo capire quale sarà il ruolo delle forze antisistemiche in tale contesto. Analisi concreta della situazione concreta.  Fare voli pindarici verso “il sol dell’avvenire” serve davvero a poco in questo momento storico, più saremo realisti più aumenteranno le nostre possibilità di incidere sui rapporti di forza esistenti. Abbiamo sognato il comunismo ogni giorno, ora forse è il momento di aprire gli occhi sulla realtà.

QUANDO SI RIUSCIRA’ A ROMPERE? (G. La Grassa)

 

1 Avendo un’oretta di tempo vacante, voglio sviluppare alcune riflessioni su quella che mi appare ormai una completa débacle del pensiero di sinistra, ma soprattutto di quello fu comunista. Dico sempre che debbo rompere con i rimasugli di quest’ultimo e poi mi faccio ancora condizionare da vecchie abitudini e “amicizie”.

Marx, Lenin, e tutti i grandi del marxismo, hanno sempre sostenuto che il socialismo e comunismo (il socialismo essendo null’altro, per tali pensatori e politici rivoluzionari, che la prima fase, o fase inferiore, del comunismo) era l’antagonista e, nel contempo, l’erede della società capitalistica, ne avrebbe superato i limiti, mettendo fine alle varie forme di società divise in classi (dominanti e dominate). Il capitale, per i marxisti, non poteva svilupparsi oltre certi limiti; i suoi specifici rapporti sociali di produzione avrebbero infine rappresentato un involucro, senza spezzare il quale non sarebbe stato possibile l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Ho scritto mille volte che la dinamica capitalistica, come vista da Marx (e dai marxisti in genere), conduceva alla centralizzazione dei capitali implicante – e questo è fondamentale, poiché non è sufficiente il semplice aspetto quantitativo, essendo il capitale non cosa ma rapporto sociale – la formazione, al vertice della società, di un pugno di proprietari di tipo finanziario (assenteisti in rapporto alla produzione dei beni), che avrebbero provocato l’imputridimento della struttura sociale e produttiva, con sostanziale stagnazione e blocco delle forze produttive.

La rivoluzione, trasformando la struttura di questi rapporti capitalistici, avrebbe ridato slancio allo sviluppo: quantitativo e qualitativo (dunque pure al progresso tecnico e scientifico, anch’esso supposto in panne a causa dei fenomeni involutivi provocati dalla centralizzazione e finanziarizzazione del capitale). Sarà stato determinismo economicistico, scientismo, e quello che si vuole; resta il fatto che però i comunisti marxisti si rendevano ben conto che non avrebbero mai vinto se i processi (presunti “oggettivi”) non avessero dimostrato alla gran massa del popolo (i dominati) che il capitalismo era ormai putrefazione e involuzione, mentre la rivoluzione propugnata dai comunisti avrebbe ridato slancio allo sviluppo e al progresso delle conoscenze e delle tecniche, con elevamento del tenore di vita per tutti o quasi.

Essendo avvenuta la rivoluzione in Russia, paese capitalisticamente ancora arretrato, Lenin si rese conto dopo pochi anni che la rivoluzione del 1917 non rimetteva in moto il paese, che le grandi masse continuavano a restare nella miseria più nera (certo aggravata anche dalla guerra civile, ecc.). E allora come tentò di risolvere il problema? Con la NEP, in cui si permise un certo rilancio del capitalismo, almeno di tipo, diremmo oggi, piccolo (e anche medio) imprenditoriale. Si trattava di misura pensata come tattica transitoria; ed infatti fu poi superata con i grandi piani di industrializzazione, un processo certo forzato “dall’alto”. Oggi ci si rende conto che non ci si instradò lungo la conclamata “costruzione del socialismo”; resta comunque il fatto che solo lo sviluppo degli anni trenta – per quanto legato soprattutto ad una forte accumulazione, mentre il livello di vita delle masse cresceva, se cresceva, assai poco – procurò un sostanziale appoggio popolare al “regime”, che si fece palese durante la seconda guerra mondiale con la forte resistenza all’invasione tedesca.

Tuttavia, quando ci fu la competizione tra “campo capitalista” e “campo socialista”, accadde qualcosa che non era per nulla previsto da noi comunisti e marxisti degli anni ’50 e ‘60: il socialismo si “incartò”, mostrò tutti i sintomi della putrescenza e della decadenza quantitativa e qualitativa della produzione, con precisi riflessi sulla corrispondente disgregazione dei rapporti sociali e sul basso livello di vita della maggioranza della popolazione; mentre il capitalismo si dimostrò in grado di svilupparsi con ritmi rapidi e con notevole accrescimento dei consumi da parte delle più larghe masse – malgrado si fosse sostenuto che i suoi rapporti avrebbero dovuto rappresentare un impedimento in tal senso – innescando inoltre una fase di fortissimi balzi in avanti della scienza e della tecnica, con l’apertura di veri “nuovi continenti” del sapere, con innovazioni di grande portata e in continua accelerazione.

Di più: dopo il crollo del baraccone “socialista”, i grandi paesi di quel “campo”, come Cina e Russia (quest’ultima alla fine di circa un decennio di turbolenze), si sono indirizzati verso un rapido sviluppo seguendo metodi che hanno quanto meno molte somiglianze con quelli capitalistici (impresa, mercati, ecc.). E questa volta, anche il tenore di vita di strati sempre più cospicui delle masse popolari (dei dominati) di quei paesi è in crescita. Ci sono grandi contraddizioni, ma chi crede ancora che queste implichino una ripresa della “lotta di classe” secondo i canoni immaginati dai comunisti e marxisti d’antan è al limite della pazzia o della demenza senile. Ovviamente, si può sostenere (giustamente) fin che si vuole che il “socialismo reale” poco aveva a che vedere con il socialismo e comunismo pensati da Marx, Lenin, ecc. Questo cambia le cose ancora in peggio; la storia non è proprio andata come pensavano i nostri “maestri”, li ha bellamente contraddetti. Tuttavia, essi restano nella mia memoria quali persone sensate e concrete, perché non invitavano alla rivoluzione comunista i popoli predicando povertà, indigenza, frugalità e altre cazzate del genere. Essi mostravano la convinzione, poi smentita dai fatti, che il capitalismo avrebbe infine bloccato lo sviluppo, mentre il comunismo l’avrebbe rilanciato; e alla grande, visto che si prevedeva un tale copioso fluire di beni prodotti da poter dare a ciascuno secondo i suoi bisogni (di cui si prefigurava la continua ascesa, quantitativa come qualitativa).

Di fronte all’indubbia sconfitta del pensiero e dell’azione dei comunisti, alcuni di questi hanno reagito insistendo sui vecchi principi, continuando a sostenere che un domani – non si sa quando, forse fra qualche secolo – le previsioni di Marx ecc. si avvereranno. Abbiamo a che fare con un pensiero religioso, millenarista, o non so cos’altro; comunque qualcosa di pessimo e di demenziale. Tanti cari saluti a questi mentecatti. Altri, che sembrano (ma solo sembrano) più concreti, hanno preso atto che – allo stato attuale dei fatti – il capitalismo sviluppa le forze produttive, mentre il sedicente socialismo ha fatto un bel flop in tal senso; e allora si inventano che bisogna non desiderare più tale sviluppo; evidentemente sarà necessario “educare” le masse ad astenersi da un aumento dei consumi, magari perfino a tornare indietro. A tal proposito, essi redigono una classifica tra bisogni necessari o invece superflui (con vari gradini intermedi; peggio ancora che nella vecchia teoria economica neoclassica); oppure sperano che la Natura imporrà precisi “limiti” al suo sfruttamento, ecc.

Francamente, tanti cari saluti anche a questi “signori”. Non ce l’ho con loro, che seguano con sincerità e determinazione la loro strada. Io vado però da un’altra parte, perché sotto questo punto di vista accetto le indicazioni dei pensatori e politici del comunismo (e marxismo): una nuova struttura di rapporti sociali, se ha da esserci, deve garantire come minimo ciò che garantisce il capitalismo, non deve essere peggiore di quest’ultimo in termini di sviluppo delle forze produttive. E so anche benissimo che è falso mettere la quantità contro la qualità. Dove lo sviluppo è quantitativamente carente, c’è penuria perfino di beni alimentari e dunque fame, ci sono sporcizia, epidemie, infezioni, ecc., ci sono pochi Ospedali e mezzi sanitari in genere, la vita media è bassissima, la mortalità elevatissima, i trasporti sono ultracarenti, le possibilità di comunicazione pure; e via dicendo. Io desidero restare nel mondo moderno, con tutti i suoi avanzamenti che certuni, credendo di dimostrare il loro sciocco disprezzo, chiamano tecnoscienza. Lo dico con molta franchezza: va apprezzata e conservata e meditata tutta la cultura delle varie civiltà dai primordi fino ad oggi. Posso inoltre concedere che oggi ho la sensazione di un forte degrado morale e culturale, almeno qui da noi, nel nostro “occidente”. Tuttavia l’Uomo, di cui alcuni amano parlare nei libri, nella sua “umana concretezza” non ha mai cessato di andare “avanti”, senza dare a questo termine alcun particolare valore. 

Quando certi….lasciamo perdere, di fronte al mio invito a farsi carico dello sviluppo e di tutto ciò che è all’uopo necessario, inorridiscono perché pensano ad una mia supina accettazione del capitalismo, o non sanno leggere o lo schermo ideologico dell’ormai degenerato comunismo (di marxismo questi signori non dovrebbero parlare!) impedisce loro di riflettere un secondo su quello che scrivo. Inoltre, diciamola tutta, interpretandomi in questo modo confessano di non vedere altra società capace di sviluppo che non sia quella capitalistica; e la vogliono combattere tornando ai “dannati della Terra”, ai diseredati del sottosviluppo. Tanti auguri! Io – al di là di puramente personali malinconie e rimpianti per il tempo andato – voglio restare dentro il mio tempo e dentro la società in cui vivo, essendo dunque favorevole allo sviluppo e alla “tecnoscienza”.

In questo so di essere pienamente fedele al comunismo marxista. Solo, debbo tener conto che non si è verificato quello che Marx e altri predicevano: il capitalismo non è né crollato né entrato in irreversibile stagnazione, il comunismo non è nato dalle sue viscere come movimento che ridava impulso allo sviluppo delle forze produttive. Da qui si deve partire per una nuova riflessione. Certo che rimane viva in me l’indicazione di superare le modalità di sviluppo del capitalismo; ma sono intanto obbligato ad accettare il fatto che questo tipo di società non imputridisce e non si blocca, non entra nella “crisi finale”, ma soltanto in gravi crisi periodiche; dopo di che riparte, magari con una radicale ristrutturazione dei rapporti interrelazionali a livello mondiale (a causa di quello sviluppo ineguale dei capitalismi, e non del capitalismo, che resta un insegnamento fondamentale di Lenin, pur se va anch’esso riadattato a ciò che noi oggi sappiamo in più).

Proprio perché si è dimostrato che il comunismo non è “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, è necessario assumersi fino in fondo le difficoltà cui si trovarono di fronte i bolscevichi una volta compiuta quella rivoluzione che essi pensavano fosse l’inizio della transizione ad altra forma sociale. Il “processo storico” non va nella direzione – determinata oggettivamente dal movimento della società precedente – del comunismo. E per il momento, non siamo in grado di indicare nuove prospettive di un comunismo del tutto differente da quello teorizzato da Marx (rivelatosi poco realistico). Di conseguenza, nemmeno dobbiamo elucubrare sulla possibilità di una rivoluzione che porti al potere in qualche comparto mondiale forze neocomuniste. Dobbiamo senza dubbio sforzarci di mantenere l’atteggiamento anticapitalistico, ma nel contempo prendere atto che la nascita di una nuova formazione sociale sarà necessariamente una costruzione politica; e non una costruzione ingegneristica, con un bel progettino dotato di tutti i calcoli necessari, da realizzare poi mattone dopo mattone, secondo i dettami di una pianificazione attuata d’imperio.

Si tratterà di un farsi in corso d’opera; di un’azione costruttiva con prospettive di edificazione, diroccamento, riedificazione, ecc.; e incerta, indeterminata, nei suoi sbocchi finali. E tale azione dovrà essere sviluppata in mezzo alle contraddizioni – implicanti lotte sociali e politiche anche acute – che segnalavo nello scritto sulla terza forza. Anche se si è in pochi, se si è lontanissimi da qualsiasi presa del potere, ci si deve mettere nell’ottica del comunismo marxista della tradizione per quanto riguarda la necessità di assicurare lo sviluppo del proprio paese, cioè il miglioramento delle condizioni di vita della propria popolazione; sapendo però che tale risultato non si consegue abbattendo un capitalismo ormai putrefatto e incapace di ulteriore sviluppo. Bisognerà invece confrontarsi proprio con lo sviluppo capitalistico e agire, tra mille difficoltà e contrasti, per una trasformazione delle sue modalità (sociali, non solo tecnico-produttive). Non è per nulla realistico fondare la propria attività politica principalmente sull’inasprirsi della contraddizione tra capitale e lavoro, che il vecchio marxismo pensava come centrale e decisiva, in ciò smentito proprio dal “movimento reale”, che l’ha resa, con l’evolversi del modo di produzione capitalistico, una semplice contesa per la distribuzione del reddito, del tutto compatibile con lo sviluppo capitalistico, anzi utile e vantaggiosa a tal fine.

E’ necessario inserirsi innanzitutto nei conflitti tra gruppi dominanti: sia nell’ambito della formazione capitalistica particolare in cui ci si muove, sia sul piano generale, quello dei conflitti tra le diverse formazioni su scala mondiale. Si deve poi comprendere a fondo e analizzare come il movimento del capitale porti ad una frammentazione e dispersione dei ceti sociali dominati, accentuando spesso le contese fra di essi, sulle quali giocano i dominanti per mantenere il loro potere (si è mai letto attentamente il magnifico libro di John Reed sulla rivoluzione russa? E in particolare la cronistoria dettagliata dei cruciali giorni di novembre, con l’atteggiamento menscevico, o ancor peggio, della maggioranza dei ferrovieri, delle telefoniste e di altri comparti sociali non certo appartenenti ai dominanti?).

Quanto sopra appena sunteggiato è ciò che affermo, in modo più ampio, nei miei due scritti sulla terza forza. Non sostengo affatto l’abbandono della prospettiva anticapitalistica. Chi non lo capisce, mi fraintende e falsifica le mie posizioni; sarà magari in buona fede, ma non ha allora orecchi adeguati a sentire ciò che dico. E poi, in definitiva, si è proprio in presenza di fraintendimento in buona fede? Qualche perplessità ce l’ho. In ogni caso, ho scritto i testi sulla terza forza, così come il libretto Il gioco degli specchi, proprio per sondare chi veramente vuol prendere una strada nuova e chi resta ancora, malgrado tante chiacchiere, sulla vecchia. La mia pazienza ha un limite, e credo sia stato superato. Ci sono tanti neoopportunisti, e se ne creano ogni giorno di nuovi; c’è una smania di potersi inserire negli ignobili giochetti tra destra e sinistra.

Io chiedo a chi si sente anticapitalista – ma inserito nel mondo moderno e in una società a sviluppo capitalistico avanzato con i suoi particolari livelli e modalità di vita – di stabilire una rete per discutere insieme i problemi nuovi che si pongono davanti a noi. Ho accettato – stupidamente, ma per semplice amicizia – di discutere fra poco il mio ultimo libretto davanti ad una platea che sarà probabilmente di vecchia “sinistra antagonista” (con magari qualche diessino di….). Sia però chiaro che sono proprio stufo; e dunque, se c’è qualcuno che vuol “avanzare” sul serio verso il nuovo, batta un colpo.

Per terminare il chiarimento del mio punto di vista, preciso ancora che a me non interessa la politica del giorno per giorno, ma nemmeno la discussione sui destini dell’Uomo nel corso dei secoli futuri. Il mio orizzonte teorico, e mentale, sta tra il qualche anno e il qualche decennio (pochi). In questo lasso di tempo non credo proprio si porrà all’ordine del giorno la lotta per il comunismo o per il crollo completo del giogo “imperialistico” sulle “masse diseredate” o per il Benessere dell’Umanità o per l’armonia tra Uomo e Natura, ecc. Mi sembra ormai sicuro che stiamo entrando – non ancora a vele spiegate, ma non ci manca molto in base ai “tempi storici” – in un’epoca policentrica, in cui sarà combattuta un’aspra lotta per la supremazia mondiale tra i più potenti sistemi-paese; e questi, al loro interno, saranno contraddistinti da strutture e dinamiche sociali di tipo ancora capitalistico, ma non certo di quello teorizzato da Marx e dal marxismo. Io sento di vivere in quest’area, che ritengo ancora quella che imprimerà la direzione principale allo sviluppo del mondo almeno per altri 50 anni e anche più.

E resti inteso che non credo a nuovi “socialismi” nati da certi “populismi” o “movimenti”, la cui transitorietà e scarsa incidenza “storica” si rivelerà ben presto, così com’è sempre accaduto di altri movimenti e populismi similari, che ho visto nascere e morire a bizzeffe da quanto ho l’età della ragione. Li ho spesso appoggiati, anche in passato, per motivi tattici, per esigenze contingenti legate alla lotta in determinate congiunture di breve momento. E lo posso quindi fare anche adesso, dopo attenta valutazione della loro funzione nella presente configurazione dei rapporti di forza in sede internazionale. Ho sempre però cercato di non farmi incapsulare da essi, di non lanciarmi nelle superficiali conclusioni tratte da coloro che si fanno incantare dal loro effimero brillio; ho invece sempre tentato di attingere ad una conoscenza più profonda e meditata della società ancora denominata capitalistica arrivata alla sua fase attuale. E intendo proseguire in questa direzione; e mi appello quindi a coloro che hanno voglia di pensare veramente, e non di ripetere vecchie fanfaluche per poi approdare a nuovi opportunismi, nell’intento di mettere in piedi piccoli movimenti per magari ottenere qualche voto e qualche cadreghino nell’ambito dell’osceno gioco politico tra destra e sinistra.

Amen

14 novembre