INTERVENTO DI GIANFRANCO LA GRASSA IN MERITO AL CONTRIBUTO DI MAURO TOZZATO
1.
Caro Mauro,
il testo che mi invii (dicendo che in esso vi è una implicita critica a certe tesi mie) è molto ben scritto e mi sembra maturo; però sai che tratta di cose che capisco poco. Fra l’altro nemmeno comprendo dove sia la critica a me (solo sulla questione della natura umana?).
Faccio dunque alcune obiezioni marginali al tuo scritto, ma per me non irrilevanti in altro contesto.
1) Non credo che Preve ed io possiamo essere messi sullo stesso piano degli altri che citi assieme a noi; sono troppo grandi per noi.
2) Per quanto mi riguarda, non mi sento "illuminato"; onestamente non capisco in che senso tu lo dica. Nemmeno Marx è a mio avviso un "illuminato", visto che certo non si poneva come profeta o giù di lì (come vedi ho una concezione molto ristretta della "illuminazione"; ad es. uno scienziato non è "illuminato" da alcunché).
3) Mi sembra strano citare Marx assieme a Gesù Cristo e agli altri. Senz’altro Marx può non essere trattato da semplice scienziato (pur se credo che lui si ritenesse soprattutto tale), ma non riesco egualmente a collocarlo, neanche di striscio, nel pensiero mistico-religioso e "profetico". Che alcuni marxisti – mettiamo un Bloch o qualche altro – l’abbiano in parte utilizzato per "principi speranza" e questioni del genere, lo considero un almeno parziale fraintendimento e svisamento del pensiero marxiano.
4) Non contesto a nessuno il diritto di parlare di genere umano o di Uomo, ecc. ; nemmeno contesto – anzi apprezzo ancora di più – chi rimugina intorno a Dio. Sono pensieri estremamente umani da sempre, credo anche prima dell’homo sapiens. Contesto al filosofo "umanista" di capire qualcosa di come procede lo scienziato, anche quello delle scienze sociali. Nella prefazione a Il Capitale si dice che "qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista…..può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi".
Quindi l’uomo (singolo) concreto, quello reale, non si riduce ai soli rapporti sociali (questo significa la possibilità di elevarsi al di sopra di essi); ma Marx, nella sua trattazione scientifica, tratta gli individui in quanto punti di snodo (o incrocio) della fitta rete di rapporti sociali, considerati nella tramatura (di classe) da lui scelta per rappresentare adeguatamente la società a modo di produzione capitalistico (che non è la società empirica, complessa, ecc.). Quando la teoria neoclassica fa l’ipotesi dell’homo oeconomicus, è ridicola la critica del suddetto "umanista" che inorridisce perché l’uomo (concreto) non ha sole motivazioni economiche né è puramente razionale in tema di minimizzazione dei mezzi impiegati per un dato risultato (massimo di produzione o massimo di soddisfacimento dei propri bisogni). Questo lo sapevano benissimo Walras, Marshall, Schumpeter, Böhm-Bawerk, Keynes e tutti gli altri grandi economisti delle classi dominanti capitalistiche. Non è questa la critica da rivolgere ai neoclassici dal punto di vista della società a modo di produzione capitalistico, tesi formulata da Marx pur sempre in base alla considerazione degli individui (situati in classi diverse) non come uomini empiricamente esistenti, bensì come "maschere" di rapporti sociali, soggettivazione (solo teorica) di funzioni e ruoli tipici di questo modo di produzione.
Il filosofo umanista, che pretende di cacciare subito l’uomo concreto dentro l’analisi sociale, è semplicemente un gran pasticcione e consegue il solo risultato di parlare a vanvera di tanti "buoni sentimenti umani", di sorti future e imprecisate dell’Umanità, senza capire molto delle tendenze in atto nella società in cui vive, e di come affrontarle politicamente.
Spero sia infine chiaro la “natura” del mio "antiumanismo" (puramente in sede teorica), su cui ad esempio Preve continua a “brontolare” senza in sostanza comprendere il modo in cui io – come qualsiasi scienziato (e come Marx, ne sono convinto) – pongo il problema soltanto al fine di analizzare e fare ipotesi sulle tendenze in atto nell’epoca contemporanea.
Comunque, avremo modo di chiacchierare in merito (ma distinguendo la scienza dalla filosofia e ancor più dalla profezia mistica).
2.
Caro Mauro,
a scanso di equivoci, aggiungo poche altre considerazioni, che richiederebbero però una discussione molto ampia, qui impossibile. Fare politica non equivale a fare scienza. Tuttavia, la politica dovrebbe servirsi di quest’ultima per analizzare (sempre mediante ipotesi, da aggiustare via via) il campo in cui si agisce, la struttura e disposizione delle "forze" in campo, ecc. Una politica che solo si basa sulla "pratica conoscenza" degli uomini (concreti) diventa politicantismo, adeguamento al tran tran quotidiano del cosiddetto uomo comune o medio; diventa poi, in realtà, tentativo di influenzare e orientare tale uomo comune a comportarsi come vuole chi fa politica (per conto di certi interessi dominanti). La "grande visione" politica, la strategia di ampio periodo (anche quella dei dominanti, se hanno interessi di carattere strategico e non limitati alle piccole e meschine "beghe" di gruppi che guardano solo ai prossimi mesi o a pochi anni), non può non servirsi di congrue analisi scientifiche circa il "movimento della società", analisi che esigono ipotesi fatte in base a quadri categoriali ben definiti e precisi (ipotesi quindi sempre rivedibili quando necessario).
Tuttavia, è certo che la scienza serve di base, ma l’azione politica non può esaurirsi in essa. Ed è poco utile usare la magica parolina "dialettica" per dire che politica e scienza debbono essere intrecciate, strettamente unite, quasi sintetizzate insieme. Si fanno solo ulteriori pasticci. Gli scienziati facciano il loro mestiere, e i politici (quelli grandi) il loro; in casi singoli può sussistere l’un aspetto e l’altro nel medesimo individuo, ma è come se egli si scindesse in due (Lenin è un buon esempio di questo fatto; ed è ben separato, in molti casi perfino temporalmente, il Lenin che faceva teoria da quello che si immetteva nell’agone). E’ altrettanto utile, ad es., scindere l’azione del management guidata dalla razionalità strumentale (per semplificare diciamo quella che mira al massimo profitto) e il modo di operare degli agenti imprenditoriali strategici, che debbono senza dubbio tener conto della suddetta attività manageriale, usando però una razionalità diversa e non semplicemente retta dal principio del minimax. Ancora: è bene che siano separate l’azione degli agenti economico-imprenditoriali e quella degli agenti nella sfera più propriamente politica (ecco perché si critica chi amministra un paese come fosse una azienda). Le diverse attività vanno tenute possibilmente insieme, non dovrebbero mettersi in contrasto fra di loro; tuttavia tra di esse vi è interazione e non dialettica (a meno che non si riduca questa, come fece Lenin a mio avviso fraintendendola, a quella). Secondo la mia opinione, tra politica e scienza della società (e tra razionalità strumentale e strategica, tra azione economico-imprenditoriale e azione politica) sussiste costante tensione; ma cavarsela dicendo che questa viene poi "sorpassata" in una sintesi "a più alto livello" è un puro gioco verbale; la tensione sussiste costantemente e non si fa addomesticare dalle parole. L’uomo, quello concreto e individuale (non l’Uomo), continuerà ad agire dibattendosi tra questi vari corni del dilemma, sempre in tensione e urto fra di loro, difficilmente ricomposti a "più alto livello". Va be’, per il momento sospendiamo.