UNA SECONDA MOSSA
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la configurazione dei rapporti internazionali
Preferisco parlare di politica internazionale piuttosto che di geopolitica poiché quest’ultima è una disciplina più complessa e tratta di molte questioni di carattere politico, culturale, storico, etnico, ecc. Io mi limiterò a qualcosa di assai più ristretto perché farei molta difficoltà a controllare un materiale troppo vasto. D’altra parte, sarò anche schematico e succinto perché mi interessa andare al succo della questione. Ritengo indispensabile avvertire il lettore di questi limiti, che si risentiranno certo con molta evidenza nel corso della mia argomentazione.
Innanzitutto, voglio rammentare alcuni punti già più volte discussi in un (anche recente) passato. Il marxismo tradizionale, da cui provengo, è stato spesso poco efficiente nell’analisi internazionale perché interessato fondamentalmente a due altri problemi certo nodali: a) da dove proviene il pluslavoro di cui dispongono le classi dominanti, in quale forma questo si esprime nella società capitalistica (produzione generalizzata di merci) e come si distribuisce al suo interno; b) la struttura “tipizzata” di un modo di produzione specificamente capitalistico con la sua netta divisione in classi (dominante e dominata) e la sua dinamica comportante la formazione intrinseca delle condizioni di base della sua trasformazione, tendenzialmente indirizzata, secondo tale concezione, alla fine dello “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Lenin, nella sua teoria dell’imperialismo, forzò in molti punti lo schema tradizionale – ho scritto in altri testi sull’argomento e non posso ripetere sempre tutto – ma rimase ad esso agganciato ampiamente tanto da affermare che, volendo sintetizzare in una sola le cinque caratteristiche da lui attribuite a quello stadio (che considerava definitivo e finale) del capitalismo, ci si poteva riferire alla prima (ritenuta la principale): la centralizzazione monopolistica dei capitali. In definitiva, anche l’imperialismo, nella sua “essenza”, era pensato quale fase (ultima) dello sviluppo del modo di produzione capitalistico (e dei suoi rapporti tra classe dominante e dominata), fase in cui veniva a perfezionarsi quella condizione di base pensata da Marx in merito alla trasformazione del capitalismo ad opera della “rivoluzione proletaria”. Certo Lenin, malgrado questi “intralci” teorici assai limitanti, articolò e svolse brillantemente la sua concreta prassi rivoluzionaria mediante le tesi, rudimentali ma efficaci, dello sviluppo ineguale dei vari capitalismi, dell’anello debole della catena imperialistica (cioè dei vari capitalismi in sviluppo diseguale), dell’alleanza operai-contadini in questo anello debole (un capitalismo meno sviluppato degli altri), delle arretrate (socialmente) masse d’oriente assai più avanzate però politicamente della classe operaia occidentale, ecc. Tuttavia, prassi e teoria erano in frizione continua; e ciò si è notato sempre di più nella storia successiva del movimento comunista fino al suo fallimento, questo sì veramente finale e definitivo (a meno che non cambi, ma di quel po’, il suo impianto teorico di fondo e, conseguentemente, l’intera strategia e tattica politiche).
Oggi, bisogna riporre al centro una analisi dei diversi paesi (e aree) capitalistici – considerati, ma solo in prima approssimazione, come tali in base all’importanza in essi assunta dalle forme di merce e d’impresa – senza farsi irretire e imbrigliare dalle tematiche del valore e del modo di produzione, che servono solo ad altro “livello di astrazione” teorica. Certamente, la teoria delle relazioni internazionali dovrebbe avvalersi anche dell’analisi detta di classe delle diverse formazioni particolari (paesi e/o aree suddetti), ma non certo in base agli schemi di quella marxista tradizionale, con la sua fissazione di individuare il soggetto della trasformazione in quanto condizione, quella di base già ricordata, della transizione rivoluzionaria al comunismo; essendosi rivelata, quest’ultima, un traguardo comunque non conseguibile entro un periodo di tempo credibile, oltre il quale le previsioni diventano pure profezie. Non sono in linea di principio contrario a che si discuta anche di queste ultime, poiché si tratta di atteggiamento di speranza che credo ineliminabile negli uomini. Ritengo però sterile l’assunzione di tale atteggiamento da parte di chi dovrebbe invece limi-
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tarsi ad indagare, pur teoricamente, le condizioni di una pratica (politica) da svolgersi in tempi futuri realisticamente pensabili.
Mancando ancor oggi una adeguata analisi corrispondente a quella “di classe” della tradizione marxista – e purtroppo non solo a livello internazionale, ma anche all’interno delle diverse formazioni particolari di un capitalismo in sviluppo ineguale per epoche successive di mono e di policentrismo – si è costretti a trattare intanto tali formazioni (lo ricordo: paesi e/o aree) come interi, come “soggetti” dotati di unitarietà nelle loro (inter)azioni reciproche. Se mutamenti intervengono nell’azione (politica) di uno o più “soggetti”, si deve supporre che, per una serie di (con)cause interne ed esterne, le loro decisioni e volontà si sono modificate, un po’ come cambiano quelle di Caio, Tizio, Sempronio nelle loro interrelazioni reciproche (anche se le supposte cause, interne ed esterne, dei cambiamenti sono, fin troppo ovviamente, di tipo differente tra individui e formazioni sociali).
3. E’ innanzitutto necessario fissare, certo solo per ipotesi, qual è il quadro internazionale nelle sue più generali caratteristiche. Avanzo per l’appunto la supposizione che siamo al momento in un’epoca monocentrica a predominanza statunitense, ma con sempre più visibili tendenze di evoluzione verso una crescente competizione policentrica. Rispetto anche solo a pochissimo tempo fa, mi sembra che la previsione di una futura epoca così caratterizzata abbia molte probabilità di realizzarsi; tuttavia, non la possiamo dare per certa al 100% e ancor meno fissarne con sicurezza i tempi di realizzazione e i lineamenti; cioè, in definitiva, quali interi – formazioni particolari o paesi – si presenteranno nella veste di protagonisti del probabile futuro scontro.
E’ comunque sempre più necessario usare i termini giusti, perché anche le semplici parole indirizzano verso conclusioni sbagliate o quanto meno assai parziali. Anch’io ho scritto spesso, per lunga abitudine vischiosa, intorno all’imperialismo. Termine improprio, che induce ad analisi in buona parte destituite di fondamento. L’imperialismo è stata un’epoca di pieno policentrismo, seguita al disfacimento del predominio dell’Inghilterra (nemmeno al suo apice completo e indiscusso, come non lo è mai stato quello Usa, pur dopo il crollo del “socialismo reale”), in quanto primo paese sviluppatosi in base ad un capitalismo fondato sulla produzione generale di merci, effettuata da organizzazioni (poi dette imprese) attive nel settore industriale con largo impiego di sistemi di macchine, e mediante assunzione di forza lavoro salariata e spossessata dei saperi, oltre che dei mezzi, produttivi. L’imperialismo è stato a lungo intrecciato con il colonialismo, con la lotta delle formazioni particolari capitalisticamente più forti (le potenze) per spartirsi (o rimettere in discussione la ripartizione precedente) il controllo di quelli che nel secondo dopoguerra furono chiamati paesi sottosviluppati (poi, per “delicatezza”, in via di sviluppo); in definitiva, paesi e aree ancora largamente precapitalistici e preindustriali, ricchi di materie prime ed energetiche e di prodotti agricoli di largo consumo (nei paesi “ricchi”).
Fino a quando l’imperialismo (il policentrismo tra fine ottocento e primi decenni del novecento) fu sostanzialmente, nel suo primo periodo, lotta per la conquista di colonie, ci furono continue guerre, ma in genere locali o comunque relativamente limitate, con grande intervento di altri mezzi di pressione: diplomazia, minacce di intervento, attività di corruzione di classi dominanti locali nelle colonie (le borghesie dette compradore), “aiuti” iugulatori, colpi di Stato, sanzioni politiche ed economiche, ecc. Tuttavia, anche il sistema capitalistico, malgrado l’enfasi posta sempre sul lato economico della questione, non può assestarsi senza il relativo predominio di una delle formazioni particolari, che assicuri un sia pure temporaneo e non costante e compatto coordinamento d’insieme (non solo economico, ma ancor più politico e latamente culturale). Non si arriva mai a situazioni “imperiali” del tipo di quelle dell’antica Roma, ma comunque anche nell’epoca del capitalismo (prima mercantile, poi finanziario e industriale) si verificano fasi, quelle che indico come monocentriche, in cui una potenza si situa al di sopra delle altre quanto a dotazione di forza (non certo esclusivamente militare); a conclusione, tuttavia, di un lungo periodo di conflitto tra più formazioni capitalistiche assurte al livello di potenze. Tale conflitto si svolge tra gruppi capitalistici dominanti e
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sussiste pure all’interno di ogni formazione particolare, dove esso rimane aperto o si risolve in favore di un “blocco” che rappresenta di fatto l’intero nella sua complessiva azione verso l’esterno. Il marxismo non ha ignorato le contraddizioni interdominanti (intercapitalistiche), ma ha fin troppo enfatizzato l’antagonismo tra dominanti e dominati nell’ambito del modo di produzione capitalistico in generale – e, per ciò stesso, pure in seno ad ogni formazione particolare – mentre invece l’antagonismo in questione è decisamente subordinato agli esiti di quello tra gruppi dominanti, che ha particolare rilevanza sul piano internazionale.
Lo sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari capitalistiche conduce infine, per periodi ricorrenti (fasi dette policentriche), ad un certo livellamento dei loro reciproci rapporti di forza, la cui conseguenza è il disordine crescente in campo internazionale con scatenamento finale di un generale regolamento di conti. E’ in una di tali fasi – quella appunto tra fine ottocento (declino della supremazia inglese) e primi decenni del novecento (ascesa del capitalismo statunitense affermatosi infine contro gli antagonisti: Giappone e Germania) – che il semplice colonialismo è stato superato e si è entrati nella fase realmente imperialistica, caratterizzata dai grandi conflitti intercapitalistici a livello mondiale; il possesso di colonie (dunque di aree da cui rifornirsi di materie prime e soprattutto energetiche, di materiali agricoli e alimentari, ecc.) rappresentò un fattore che favorì alcune potenze piuttosto che altre, ma non fu affatto il più decisivo nella lotta per la supremazia. Negli scontri policentrici vengono messi in azione molti altri dispositivi: militari in primo luogo, sistemi di alleanze, “attrazione” (politico-finanziaria) di gruppi dominanti in paesi posizionati in zone strategicamente rilevanti, sobillazione di gruppi di popolazione dominati in paesi avversi, forte richiamo ad ideologie di identità nazionale, religiosa, comunque culturale, ecc. L’economicismo – che, se non è sufficiente, ha comunque buona consistenza nell’interpretare certe imprese coloniali e date lotte tra potenze per le colonie – diventa largamente deficitario e obnubilante in riferimento all’interpretazione dell’imperialismo.
Lenin si liberò spesso, nella pratica, dell’interpretazione economicistica; e, fra l’altro, criticò Kautsky per l’identificazione dell’imperialismo con il semplice colonialismo, oltre ad aver ampiamente intuito lo sviluppo ineguale dei diversi capitalismi. Tuttavia, nelle sue cinque caratteristiche dell’imperialismo, messe sotto la preminenza della prima – il carattere monopolistico del capitale in quanto ultimo stadio della società da esso dominata; successivamente, il sovietico Varga e alcuni marxisti francesi se ne inventarono uno ulteriore, e sempre ultimo, il capitalismo monopolistico di Stato – è del tutto evidente la perniciosa influenza dell’economicismo marxista. Le vere caratteristiche dominanti dell’imperialismo di quell’epoca erano in realtà la quinta (sopra a tutte le altre) – lo scontro tra potenze (le formazioni particolari capitalistiche più sviluppate) per la spartizione delle sfere di influenza (che non sono le semplici colonie) nel mondo – immediatamente seguita, quasi come suo corollario, dalla lotta tra grandi concentrazioni produttive (e finanziarie) per la spartizione delle quote del mercato mondiale; oggi vi aggiungeremmo quella delle aree da sottoporre al proprio prevalente controllo onde effettuarvi remunerativi investimenti di capitale.
Quanto appena sostenuto implicherebbe pure una rivisitazione completa di quello che il marxismo, non so quanto felicemente, indicò come materialismo storico; non è comunque la terminologia impiegata che più solleva in me perplessità, quanto la riduzione della storia ad un succedersi di diverse forme “storico-determinate” (dei rapporti sociali), secondo cui viene effettuata la produzione delle basi materiali della vita umana. Non ne parlerò qui, perché è “fuori tema”, ma deve ormai uscire dagli orizzonti di uno studioso la cosiddetta “economia marxista”, autentico condensato di tutti i semplicismi, coperti da inutili elaborazioni matematiche, di quel rozzo economicismo che ha distrutto le attitudini conoscitive (e di prassi politica) dell’elaborazione teorica iniziata da Marx, ridotta a sterile “dottrina”. Dato che anch’io sono stato, almeno in parte, entro questa paralizzante prospettiva, sarò generoso e non insulterò nessuno, ché sarei autolesionista; adesso però basta discutere di un simile obbrobrio, poiché “errare è umano, ecc.”.
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4. Siamo dunque in una fase ancora monocentrica, di “impero” parziale e ormai molto “corroso”, con tendenze che a me sembrano piuttosto evidenti di avvicinamento a quella policentrica. Se già fossimo all’interno di quest’ultima, con il latente o già in atto scontro generale tra potenze per la supremazia – non necessariamente nelle stesse forme delle guerre mondiali del XX secolo (anzi ritengo poco probabili tali forme) – l’atteggiamento da tenersi sarebbe quello di una decisamente maggiore accuratezza nell’individuazione del punto di condensazione delle contraddizioni tra dominanti, laddove si vanno producendo le lacerazioni più gravi del tessuto sociale con possibilità evidenti di mettere in moto le generiche “masse” (in realtà, un coacervo di raggruppamenti sociali) che, nei punti di condensazione della crisi, possono essere amalgamate, tramite opportuna direzione politica, e “scagliate” contro i dominanti in reciproco conflitto.
Siamo tuttora lontani da uno di questi punti; le forze principali in azione, quelle che occupano la scena nelle principali aree di crisi, non sono per nulla le “masse diseredate in rivolta contro l’imperialismo”, di cui blaterano gli ultimi “conati” dei movimenti che occuparono la scena nel secolo passato. Pur se sembrano rinnovati nelle forme di “presentazione”, tali movimenti sono invece sclerotici residui del passato e, man mano che ci si avvicinerà al vero policentrismo, rischieranno di assolvere, in mancanza di rinnovamento (teorico e pratico), una funzione reazionaria di intralcio all’azione dei dominati, e dunque di oggettivo appoggio ai dominanti; anzi proprio a quelli fra questi che giocano un ruolo di più o meno morbida subordinazione al centro “imperiale”.
Ritornando alle presunte “masse diseredate”, che si tratti dell’Iran o dell’Afghanistan, del Medio Oriente o del Sud America (magari del Venezuela, circa il quale si straparla, da parte di alcuni, di “socialismo del XXI secolo”), abbiamo a che fare con caotici ammassi popolari diretti da gruppi di agenti che rappresentano il nocciolo (talvolta già formato, tal’altra in gestazione) di nuove “classi” dominanti, la cui forza e capacità di rinsaldarsi in posizione preminente non è nemmeno del tutto sicura. Ovviamente, esse vanno comunque appoggiate – senza nessuna reticenza, ma senza perdere le proprie capacità d’analisi e non lasciandosi portare dove vuole “il cuore” – perché i loro tentativi di emersione e rafforzamento avvengono, almeno nel periodo attuale, in netto contrasto con la potenza ancora centrale. Poiché ritengo positivo l’affermarsi del policentrismo, mi sembra obbligatorio stare con tutti quei gruppi che, a livello internazionale, lavorano oggettivamente per l’avvicinarsi di tale fase.
Bisogna però avere un bel po’ di giudizio in quest’appoggio. Intanto, sono senza dubbio doverose la protesta e denuncia di ogni barbarie (perché, nel caso della politica “imperiale” Usa, siamo alla solita, anzi ancor peggiore, barbarie dei dominanti di ogni epoca) commessa nella repressione delle lotte, che determinati settori popolari (i già sopra ricordati ammassi al momento caotici e poco strutturati, nel cui ambito sono in gestazione nuovi gruppi dominanti) conducono contro il predominio centrale e chi lo sostiene: ad es. dati gruppi capitalistici europei, e italiani in specie. Tuttavia, non è che, da questo punto di vista, i gruppi al potere (economico e politico) nelle nuove potenze in ascesa (non solo le principali, ma anche quelle, in un certo senso, di secondo rango) si comportino tanto “gentilmente” verso chi si oppone loro, per qualsiasi motivo lo faccia. Di conseguenza, il senso di giustizia non basta, e l’indignazione (insopprimibile di fronte a date azioni di repressione selvaggia, di massacro, ecc. da qualsiasi parte vengano compiute), pur positiva come stimolo a “pensare contro”, deve essere poi supportata dall’analisi della situazione esistente; un’analisi che la potenzia in certi casi, in altri la smorza, sia pure a malincuore. E’ necessario sforzarsi di afferrare il “capo” di quella “matassa” intricata che è ormai la situazione internazionale odierna.
Bisogna in ogni caso condannare le posizioni assunte da gran parte dei (per fortuna non numerosi) comunisti iracheni, che appoggiano l’invasione statunitense e il Governo fantoccio. Altrettanto dicasi in merito a quei gruppi – un tempo all’avanguardia nella lotta di liberazione nazionale in Palestina – che oggi si schierano dalla parte del “collaborazionista” (con gli oppressori israeliani e, di conseguenza, con quelli statunitensi) Abu Mazen, e contro Hamas. Così pure chi, in nome dei “più avanzati” costumi occidentali (da noi le donne non portano il velo!), appoggia i “modernizzatori” in Iran, Afghanistan (e Pakistan), ecc. è un analfabeta politico o un opportunista (mi si permette di dire
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“traditore”?). Si tratta ormai di “quinte colonne” dell’“occidentalismo” che – in questa specifica congiuntura (o fase) storica, ancora prevalentemente monocentrica – giocano a favore della predominanza “imperiale” statunitense. Vanno dunque combattute e criticate aspramente e senza esitazioni.
Non è ovviamente possibile restare indifferenti di fronte alla repressione russa dei ceceni o a quella recente del regime militare birmano, ecc. Tuttavia, non dobbiamo fare i “buonisti” e saltare a piè pari il fatto evidente, salvo che per gli ingenui o i servi degli Usa, che è precisamente questo paese ad alimentare certi movimenti (pur con tutte le loro “buone ragioni”) allo scopo di mettere in difficoltà le nascenti potenze ad est (Russia e Cina in particolare). Mi dispiace apparire cinico: a mio avviso si deve essere, “nel lungo periodo” e in “linea di principio”, per i diritti di tutti i popoli a liberarsi da ogni forma di oppressione. Tuttavia, in questa specifica fase, indispensabile diventa la nettezza di giudizio proprio sul problema della situazione geopolitica generale, cioè sui rapporti di forza intercorrenti tra i già nominati interi (paesi) sul piano mondiale. E’ per noi un bene o un male che ci si avvii al policentrismo? Ciò accresce o diminuisce le possibilità che i popoli si liberino dall’oppressione, sia pure nel lungo periodo? La mia risposta è già stata data; per cui, la simpatia, la pietà, il senso di ribellione di fronte alle ingiustizie, ai massacri, alle repressioni, ecc. non sono sufficienti a scegliere la posizione da prendere nei confronti dei suddetti rapporti di forza internazionali (tra interi). Tanto meno lo è un generico e imbelle pacifismo. Va appoggiata ogni “azione” che favorisca e acceleri l’avvento del policentrismo; chi si comporta in senso contrario a questo scopo, per quanto si dica antimperialista, antiamericanista, pacifista, animato da senso di giustizia, ecc. si schiera in realtà con la potenza centrale; non abbiamo più bisogno di “anime belle”, c’è assoluta necessità di “cattivi” (detto provocatoriamente, ben s’intende).
In ogni caso, chi scrive, e chi è d’accordo con lui, sa bene di trovarsi ad operare – e anche il “fare teoria”, se non significa dedicarsi solo a pensieri “alti ed astrusi”, appartiene all’operare pratico-politico (è ora di smettere di credere che la “prassi” sia pura agitazione scomposta e cieca) – in un’area a sviluppo capitalistico avanzato; e si rifiuta di pensare solo in termini di succursale di movimenti che avvengono in assai differenziate aree quanto a livello di sviluppo, tenore di vita, cultura. Per quanto isolato sia al presente, nessun critico della formazione capitalistica (dei funzionari del capitale) può rinunciare a pensare i problemi del rivolgimento e trasformazione dei rapporti sociali inerenti a tale forma di società; chi punta solo le sue carte su movimenti in altre parti del mondo (in genere quelle che un tempo si definivano terzo mondo), assume atteggiamenti che inducono ostilità (come minimo indifferenza) in parti maggioritarie della popolazione, favorendo così l’isolamento e la sterilizzazione di qualsiasi critica all’ordinamento capitalistico qui esistente. Personalmente, non a caso, firmo per solidarietà tutti gli appelli in favore dei popoli oppressi e aggrediti (da USA, Israele, UE, ecc.), ma proseguo lungo una linea di critica interna alle formazioni particolari in cui mi trovo a vivere; non concorderei perciò mai con una mera attività da agenzia legata a movimenti operanti in altre realtà economico-sociali-culturali.
5. Difficile controllare l’intera, e sempre più complessa, realtà delle relazioni internazionali a livello complessivo. Molte zone e aree di possibile crisi saranno da me ignorate. Soprattutto in un paese miserabile come l’Italia, il provincialismo è pressoché totale; nella stampa e alla TV, le notizie internazionali rappresentano, si e no, il 10% del totale. Sarebbe necessario mettere in piedi gruppi di lavoro in grado di studiare le varie situazioni a livello mondiale. Limes ed Eurasia sono riviste meritorie in tal senso, ma non possono coprire gli immani buchi di una cultura così meschina e ossessionata dal localismo, dall’“avvenimento sotto casa” (d’altra parte non si tratta di una scelta innocente, bensì consona al predominio di una classe dirigente appartenente al peggiore e più limitato orizzonte capitalistico che si possa immaginare).
Si deve innanzitutto – nell’ambito della supposta, e probabilmente non lontana (2-3 decenni), entrata nel policentrismo – tentare di capire quali saranno i protagonisti del futuro acceso scontro. Ricordo che, negli anni ’90 dopo il “crollo del muro”, fior di marxisti previdero soprattutto l’ascesa
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del Giappone quale prossimo antagonista storico degli USA, predicendo anzi la sua sicura vittoria e lo spostamento della supremazia centrale verso il “Sol Levante”. Tuttavia, “chi è senza peccato…..”, per cui non mi metterò a criticare simili fallimentari previsioni; faccio solo rilevare, perché qui è il nodo cruciale dell’errata previsione, che simili “marxisti” sembravano solo interessati al declino americano e alla sostituzione degli USA con il Giappone quale nuovo “centro imperiale”. In realtà, tra un monocentrismo e l’altro intercorre un lunghissimo periodo storico (credo oltre un secolo tra la supremazia mondiale inglese e quella americana); ed è questo periodo che deve attirare il nostro interesse (soprattutto in chi è leninista), perché è in esso che sobbolle, si scuote, si destruttura, si trasforma e si sconvolge a volte dalle fondamenta, tramite devastanti scosse telluriche, l’intero mondo. Che il predominio centrale sia passato dalla Spagna all’Olanda all’Inghilterra agli USA, e un domani forse (ormai non più) al Giappone, interessa veramente poco a chi non nutra solo passione per i “grandi cicli storici”, per quel “lungo periodo in cui saremo tutti morti” (Keynes).
L’importante è sapere che viviamo sotto il predominio “imperiale”, pur se sempre parziale e oscillante, di un certo intero (paese, potenza; oggi gli USA); ancora più decisivo è però domandarsi se vivremo ancora molto a lungo in una situazione del genere oppure se questo predominio è già intaccato e sussistono forti probabilità di passaggio, in tempi realisticamente pensabili (ma comunque non brevi), ad una fase tumultuosa di carattere policentrico. Quest’ultima è la fase che ci interessa, poiché è generalmente aperta a molte possibilità; è una lunga singolarità (non soggetta dunque a leggi generali); anzi, ancor meglio, è un lungo susseguirsi di singolarità, in cui le previsioni sono senza dubbio necessarie (perché non siamo in grado di agire senza di esse), ma debbono essere elastiche, con buona consapevolezza che esiste un ampio ventaglio di soluzioni, in larga parte affidate al caso. In tale fase, è perciò necessario restare aperti alle varie possibilità, non creare schemi rigidi e deterministici, essere pronti a modificare, perfino radicalmente se necessario, le proprie ipotesi e assunti teorici e, dunque, le nostre pratiche (politiche). In epoche del genere, assumono netta superiorità i saperi strategici rispetto a quelli solo scientifico-tecnici e strumentali; importantissimi senz’altro questi ultimi, ma soprattutto al fine di fornire ampi materiali agli strateghi, per cui i loro “portatori” (ad es., i “quadri-e-competenti” di cui parlano Bidet-Duménil in un loro recente libro) debbono essere subordinati agli agenti delle strategie. Va ricordato quanto disse Lenin, dopo l’ottobre 1917, a proposito degli specialisti borghesi: è necessario utilizzarli, non si può fare a meno di loro, ma debbono lavorare con “il fucile dei proletari puntato alla schiena” (possiamo addolcire i termini, e cambiare quello di “proletari” con “portatori” delle strategie rivoluzionarie, ma il significato essenziale resta).
Finita male la previsione di Marx, relativa al formarsi del soggetto della trasformazione comunistica pensato quale corpo lavorativo collettivo, in cui le potenze mentali della produzione (fondamento del cosiddetto general intellect) e il lavoro esecutivo avrebbero formato un insieme unitario e cooperativo, le suddette potenze mentali vanno costrette al servizio delle strategie, in modo del tutto particolare nell’epoca delle singolarità, cioè in quella di scontro policentrico tra gruppi dominanti e tra interi (potenze) per la supremazia globale. Chi vuol portare in auge l’“intelletto generale”, mi dispiace per alcuni amici, svolge funzione negativa, poiché la sua azione (pur teorica) si oppone di fatto all’emergere di nuovi gruppi rivoluzionari; ci si comporta in realtà da conservatori, da gruppi (di intellettuali) che cercano, in una fase di ritirata e sconfitta delle precedenti e fallite speranze comuniste, di riacquisire un ruolo, pur subordinato, nella riproduzione capitalistica secondo gli arretrati moduli caratteristici del nostro paese (e dell’Europa).
In questo contesto, il leninismo ha la funzione di spartiacque tra i “rivoluzionari” (o comunque quelli che si pongono in una prospettiva di profondo cambiamento delle attuali strutture di dominio) e gli “altri”: sia i conservatori e i conformisti sia i sostenitori di improbabili, per quanto timide, “riforme”, che hanno un minimo di senso nelle epoche (monocentriche) di relativo acquietamento delle principali contraddizioni – legate allo scontro tra dominanti! – ma diventano invece una forma di “romanticismo reazionario” quanto più ci si avvicina al policentrismo. Il conflitto interdominanti, in quanto aperto scontro mondiale tra interi, ha precisi e inequivocabili riflessi anche sulla lotta tra
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dominanti (e tra questi e i dominati) all’interno delle varie formazioni particolari, soprattutto in quella che occupa la posizione di anello debole nel corso dell’urto tra potenze capitalistiche avanzate.
Ovviamente, il leninismo di cui parlo è un atteggiamento, una presa di posizione; si tratta di assegnare alla strategia la prevalenza sulle mere “potenze mentali della produzione”, quelle in fondo miranti all’efficienza, messe in pieno risalto dalla falsa rappresentazione che l’ideologia dei dominanti (elaborata dal loro ceto intellettuale) fornisce della “libera competizione” mercantile sul piano globale. Sarebbe ridicolo e fuorviante ripetere a pappagallo tutte le indicazioni leniniane. Le forme strategiche debbono essere mutate in concomitanza con il modificarsi delle condizioni storiche, ma senza effettuare il rovesciamento prediletto dalla suddetta ideologia dei dominanti (seguita dai “marxisti” codisti), che pone in primo piano la razionalità strumentale (del minimo sforzo o del massimo risultato); questo rovesciamento caratterizza sia la teoria neoclassica dell’ottimale combinazione dei fattori produttivi, sia quella marxista dell’estrazione del massimo profitto (in quanto pluslavoro/plusvalore), da cui si fa derivare la centralità e predominanza del conflitto capitale/lavoro, causa non ultima (in campo teorico) della sconfitta della “rivoluzione” e della rivincita completa dei dominanti capitalistici (poiché un mero contrasto per la divisione della “torta prodotta” è stato fatto passare per detonatore, innesco, della “rivoluzione proletaria”, che è sempre rimasta “di là da venire”, in specie nei centri del capitalismo). In tale contesto, che la funzione antagonistica rispetto al capitale sia assegnata agli “operai” (tesi dei marxisti della sclerosi) o alle masse diseredate dei paesi sottosviluppati (tesi dei terzomondisti ormai fossilizzatisi) o ai possessori delle potenze mentali produttive (novità apparente, che enfatizza il lavoro intellettuale e direttivo rispetto a quello manuale ed esecutivo), a me sembra si sia pur sempre nell’ambito di un “romanticismo” (obiettivamente reazionario), un tempo detto piccolo-borghese; non chiamiamolo più così, ma la sua funzione di annebbiamento della prospettiva rivoluzionaria resta inalterata.
6. Si tratta innanzitutto di avanzare qualche previsione circa gli interi che potrebbero, e dovrebbero, costituirsi come i principali antagonisti degli USA in una eventuale, e per me ormai probabilissima, nuova epoca policentrica. Ormai escluso il Giappone, le potenze nascenti si situano comunque ad est, partendo dalla Russia – in via di rinascita dalle ceneri dell’URSS (pur se in un territorio più ristretto) – fino alla Cina e all’India. Si tratta in ogni caso di paesi che hanno pure un buon, e antico, contenzioso tra loro, per cui è piuttosto improbabile che formino – tutte e tre – un saldo, stabile e duraturo “blocco alleato” in opposizione radicale agli Usa.
Per quanto accelerato sia stato lo sviluppo dell’India negli ultimi anni, propenderei al momento a pensare che peserà anche in futuro un “di più” di potenza a favore della Cina rispetto a tale paese. Non è poi escluso che l’India, malgrado tutto, mantenga alla lunga rapporti di discreta alleanza con gli Usa, sia per il suo antagonismo rispetto alla Cina sia per quello nei confronti del Pakistan, che – tendenzialmente, in specie quando interverranno i dovuti cambiamenti interni – vedrei più vicino a quest’ultima. Comunque, anche l’India non avrà certo il ruolo filoamericano che ha assunto, ad es., Israele in Medio Oriente; e lo ha già dimostrato in occasione della crisi in Birmania – crisi con motivazioni interne ma sicuramente alimentata anche dalla potenza ancora centrale – dove gli stessi sbiaditi europei propendevano per il rovesciamento del regime militare, mentre entrambi i grandi paesi asiatici hanno agito di conserva in senso contrario a quest’esito (e oggi perfino la leader dell’opposizione interna cerca un compromesso con i militari, deludendo gli “occidentali”).
L’opinione corrente ritiene che la Cina, ancora ridicolmente definita “comunista”, diventerà il vero antagonista mondiale degli americani entro un ventennio. Malgrado ci sia chi elenca le gravi contraddizioni interne a questo paese (tra città e campagna, tra zone costiere orientali e quelle più interne ad ovest, assai arretrate), predicendo che il paese potrebbe alla fine esplodere, credo invece che nella sostanza esso reggerà (qualche crisi non rappresenterebbe il suo incepparsi definitivo); anche perché l’idea di uno sviluppo “armonico” è puramente ideologica, l’unica “armonia” essendo quella del ristagno e del declino. Qualsiasi sviluppo nasce da una forte tensione a livello sia di zone
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geografiche (il dualismo è fenomeno inevitabile; il problema è se poi permane oppure si attenua) sia di settori (per alcuni che avanzano a ritmi vertiginosi, altri decadono e poi restano al massimo come una sorta di reperto archeologico, senza considerare che sempre l’industria, per una lunga fase, cresce a spese dell’agricoltura) sia di ceti e grandi raggruppamenti sociali (l’accumulazione originaria capitalistica ha spazzato via il piccolo artigianato e ha dato vita all’inurbamento di grandi masse contadine, spopolando o quasi la campagna, mentre il piccolo coltivatore è rimasto, dov’è rimasto, quale residuo).
Dubbi sul futuro della Cina potrebbero semmai nascere dal permanere di un potere molto centralizzato nello Stato e dall’eventuale scarsa consapevolezza che non avrebbe senso perseguire la costruzione di un “socialismo” sia pure detto, contraddittoriamente, “di mercato”; nel mentre assume sempre più rilevanti funzioni l’imprenditoria (non solo i manager di imprese pubbliche, ma ancor più gli imprenditori-proprietari privati, un numero crescente dei quali viene accettato nel partito), funzioni ormai riconosciute con specifico articolo della Costituzione, votato pressoché all’unanimità dall’Assemblea del Popolo. Francamente, credo che i “comunisti” cinesi – a differenza di quelli sovietici dell’era staliniana – non abbiano le idee annebbiate dall’ideologia “comunista” (in realtà statalista) e sappiano bene che si tratta solo di mantenere ben salda, in questo periodo di transizione (al ruolo di grande potenza), l’unità del paese, del resto favorita dal fatto che al 90% esso è abitato da un’unica nazionalità. Quanto alla costruzione del socialismo, si tratta ormai di un leggero, impalpabile, involucro ideologico che non distorce idee e intenti di una società (dei suoi gruppi dirigenti) che si affida al mercato e all’impresa, quindi alle principali istituzioni del capitalismo; pur se non credo che quello cinese sarà mai simile a quello occidentale, dei funzionari del capitale.
Altro elemento di incertezza, circa i futuri scontri o alleanze della nuova potenza, potrebbe essere rappresentato dai forti legami con gli Usa (e anche con il resto del mondo “occidentale”) in tema di joint ventures e di succursali di grandi e meno grandi imprese di tale mondo che si insediano laggiù; anche l’interscambio tra Stati Uniti e Cina è considerevole e a tutto vantaggio della seconda. Soprattutto però sono forti i legami finanziari tra questi due paesi; e la seconda sta effettuando rilevanti investimenti nel settore finanziario americano. Citiamo solo i due ultimi casi; la China’s Investment Corporation ha acquistato azioni della Blackstone (società di private equity) per tre miliardi di dollari (rimettendoci un bel po’, poiché ha comprato a 31 dollari ciò che adesso, dopo 6 mesi, ne vale 24; ma questi sono gli alti e bassi del capitalismo, in specie finanziario); attualmente, l’analogo cinese del nostro Inps sta valutando – mettendo magari a rischio le pensioni dei lavoratori cinesi – di acquisire fino al 10% del capitale o della Carlyle o di altri due grossi gruppi finanziari americani (KKR e TPG). Aggiungiamo ancora che si è poco tempo fa vociferato di quattro importanti banche cinesi (non nominate) piene di crediti immobiliari americani, con i corrispondenti rischi.
Tuttavia, anche questi intrecci contano fino ad un certo punto nel decidere del futuro policentrico (o meno) del mondo; non ci si scordi che, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, numerose erano le grandi società miste tedesco-americane. La finanza tedesca era invece sotto stretto controllo nazionale, dopo aver subito la preponderante influenza di quella americana durante la Repubblica di Weimar; ma credo proprio che anche quella cinese odierna sia ben controllata dai gruppi dominanti del paese asiatico. Dire questo non equivale ad affermare che non possano verificarsi crisi finanziarie che si diffondono da un paese all’altro. In una economia, sempre più caratterizzata da istituzioni tipiche del capitalismo, non tutto può essere deciso da un centro che prevede e dirige l’intero sistema; e tanto meno lo sarà quanto più si andrà acuendo lo scontro policentrico per la supremazia. Ciò che però deciderà, in ultima analisi, sarà la strategia attuata in questo scontro e nel farsi e disfarsi delle alleanze a tal fine; sarà quindi infine la politica a dire l’ultima parola, e in tal senso propendo per l’ipotesi di un tendenziale accentuarsi dell’antagonismo tra Usa e Cina.
Negli ultimi tempi si è andata comunque precisando una rivalità più accesa tra Usa e Russia. Mentre la Cina appare più propensa ad attendere tempi abbastanza lunghi, nel corso dei quali agire
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con prudenza senza entrare in troppo accentuato conflitto con gli Stati Uniti, come ha tentato di fare ad esempio negli ultimi anni con la sua discreta ma decisa penetrazione nel continente africano, la Russia – che deve anche riprendersi dallo sfascio provocato dal nefasto duo Gorbaciov-Eltsin – è costretta ad un confronto assai più serrato e in tempi ravvicinati. Il fatto che la potenza d’oltreoceano controlli gran parte del lato orientale della UE (con basi militari, ecc.), che abbia condotto un attacco – tramite le “libere elezioni democratiche” con finanziamenti stratosferici e corruzione di lobbies e gruppi di pressione mafiosi locali – in direzione di Stati già facenti parte dell’Urss (e verso le stesse repubbliche centroasiatiche russe), ha costretto la nuova dirigenza di tale paese, ormai ri-lanciata verso l’acquisizione di una potenza autonoma e capace di lottare per le sfere di influenza, ad irrigidirsi e a rafforzare le sue difese (anche militari).
Per il momento, l’elemento di debolezza della Russia è il fatto di ricavare la gran parte delle sue risorse da un’unica fonte; quella energetica relativa al petrolio e ancor più, oggi, al gas. Tuttavia, malgrado il gran blaterare di energie alternative, ancora a lungo le fonti di energia saranno quelle tradizionali, nell’ambito delle quali la Russia si trova in ottima posizione. Del resto, l’unica reale alternativa, per i paesi che pensano alla potenza e non a impossibili (e molto ideologiche) “decresci-te”, è l’energia nucleare; e la Russia sarebbe in grado di competere in questo campo, il cui ulteriore e consistente sviluppo non è ne sicuro né comunque previsto per domani. In questo periodo, e per almeno un decennio (ma anche più), mi sembra del tutto probabile che il maggior antagonista degli Usa sarà proprio la Russia; che, fra l’altro, si trova in mezzo a due punti chiave dell’equilibrio di forze in campo internazionale: il Medio Oriente, ma soprattutto l’Iran, e il Pakistan-Afghanistan. Mentre la Cina, ad es., si trova vicino soltanto a quest’ultima “zona calda”.
Resta l’India, che diventerà sicuramente una grande potenza, malgrado le sue contraddizioni interne. Anche in tal caso, c’è chi vede un grave pericolo per la sua ascesa nella guerriglia che attanaglia tre o quattro suoi stati interni (alcuni governati da sedicenti comunisti, che operano repressioni più “accurate” di qualsiasi altro possibile governo). Mi sbaglierò, ma tali guerriglie sono il portato dell’accelerato trapasso da paese nettamente agricolo, con una enorme massa contadina, a paese sempre più industriale e tecnologicamente avanzato. Sappiamo bene che cosa comporta tale trasformazione; sia pure in forme diverse, che non furono magari una vera e propria guerriglia, sono fenomeni verificatisi anche nell’accumulazione originaria capitalistica in Europa. Perfino quelle che da noi, nei paesi maggiormente avanzati sulla via del capitalismo, furono prese per grandi lotte operaie, annuncianti la prossima presa del potere da parte della nuova (presunta) classe destinata a transitare il capitalismo verso il comunismo, sono state in realtà lotte di resistenza – di ceti ancora in parte legati ad una vecchia condizione sociale, cui si associava una vera cultura altra; non mai capace di divenire dominante, ma comunque altra – all’ascesa della borghesia e poi dei nuovi agenti funzionari del capitale, che hanno permeato con i cascami della loro cultura le “classi” lavoratrici “occidentali”.
La rivoluzione “proletaria” – erroneamente considerata quale crescita dell’“avvenire” della società nel seno stesso del suo “passato” capitalistico – è sempre avvenuta laddove vi era una gran massa contadina e assai pochi operai, per di più ancora in situazione di passaggio da una condizione all’altra; è quindi esplosa nelle formazioni sociali particolari che stavano transitando dal precapitalismo al capitalismo (e non si è nemmeno trattato di ciò che si diceva, ma di effettive guerre di liberazione nazionale e anticoloniale), con l’ascesa di nuove couches dominanti. Le rivoluzioni “comuniste” sono state perciò rivoluzioni contadine, guidate da gruppi di agguerriti agenti rivoluzionari, che agitavano l’ideologia della classe operaia annunciante il prossimo avvento del comunismo, ma hanno saputo cogliere con puntualità strategica le reali contraddizioni in società ancora lontane dal pieno affermarsi del capitalismo, approfittando di congiunture in cui i dominanti capitalistici si scannavano fra loro in scontri generali (prima e seconda guerra mondiale, soprattutto). Perfino il sedicente non violento gandhismo vinse in India solo quando il capitalismo inglese uscì completamente spossato dai confronti mondiali, dopo il lungo declino del suo predominio centrale iniziato già negli ultimi decenni dell’ottocento. Le rivoluzioni proletario-contadine – di resistenza al
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passaggio al capitalismo, guidato da troppo deboli e inetti strati di proprietari capitalisti privati (borghesia) – sono riuscite a portare al potere gruppi di agenti a questi ultimi antagonisti e capaci di innescare una profonda trasformazione della società (non certo però tendente al fine ufficialmente perseguito: il comunismo), approfittando di specifiche contingenze di conflitto acuto policentrico, con gravi difficoltà per lo sviluppo capitalistico-borghese (mercantile e finanziario più ancora che industriale) nei punti (“anelli”) deboli dell’articolazione dei rapporti tra formazioni particolari coinvolte nel conflitto in questione.
Questa digressione serve a ribadire che non sussistono oggi le condizioni mondiali (policentriche) affinché le attuali guerriglie contadine in India possano conseguire un effettivo successo. Ciò non significa far loro mancare il nostro appoggio e solidarietà – contro i loro oppressori rappresentati perfino da un sedicente partito comunista marxista (questi sono i “comunisti” oggi! E non solo in quel grande paese asiatico) – senza però illudersi che esse possano costituire nulla più che un intralcio, un’ultima resistenza; l’India sembra dunque destinata, prima dell’aprirsi di grandi confronti mondiali tra potenze, a superare la soglia dello sviluppo che la indicherà come una di queste ultime. Solo che, stante la situazione di sempre latente (e talvolta aperto) antagonismo con i vicini (Cina e Pakistan), molto difficile è invero che l’India agisca apertamente nell’ambito di uno schieramento in contrasto con gli Usa. Tuttavia, non accetterà nemmeno che questi ultimi pretendano di aggregarla puramente e semplicemente al loro carro (la Birmania, appunto, insegna). Quindi, dall’Asia perverranno comunque molte scosse al predominio monocentrico statunitense.
Al momento, teniamo debito conto sia di accordi tra Cina e India (pur nella permanente “diffidenza” reciproca) e soprattutto tra Russia e India, con la prima che è ancor oggi, di gran lunga, la principale fornitrice di armamenti alla seconda (ma gli armamenti non sono tutto, sia chiaro; gli Usa sono ancora i più avanzati in tutte le tecnologie recenti e, pur se quelle di decisiva importanza militare non vengono certo fornite direttamente ad altri paesi, l’interscambio con la potenza predominante ha pur sempre dei vantaggi ai fini di un processo di ammodernamento). Si può in ogni caso parlare di una qualche forma di alleanza a tre – tra Russia, Cina e India – perché vi sono interessi comuni in questa fase di loro progressiva ascesa al ruolo di potenze, processo contrastato da quella ancora prevalente. Nel medio-lungo periodo però – quello di 2-3 decenni che sembra necessario per la piena entrata nel policentrismo – propenderei per la formazione di blocchi di alleanza (flessibile e aperta) del tipo: Usa-India-Giappone, da una parte, e Russia-Cina-Pakistan, dall’altra.
7. Francamente, dal Sud America mi aspetterei molto meno di quello che altri si attendono. Mi sbaglierò, ma non credo che da lì partiranno le maggiori spinte verso il policentrismo prossimo venturo. Certo un Brasile ha grandi potenzialità, il Venezuela (meno di quanto non si dica, invece, la Bolivia) ha un buon contenzioso con gli USA, ma ribadisco di non credere all’evolversi di questi paesi a potenze tali da impensierire il colosso americano. Forse diventeranno subpotenze (regionali), e sarebbe già tanto. Non credo che la presidenza Bush – cioè lo staff che lo attornia, perché non so se lui capisca bene quello che gli fanno fare – abbia sbagliato a lanciarsi in pesanti avventure militari (in fondo coloniali) in aree lontane come il Medio Oriente (dove, tuttavia, c’è da preservare Israele, che da solo correrebbe molti rischi dopo aver così bene assolto per molti decenni la funzione di solido puntello della potenza americana in una regione tanto importante) e l’Afghanistan. Senza tener conto che anche il foraggiamento delle “rivoluzioni democratiche” in Georgia e Ucraina, l’appoggio al Pakistan (con l’instabilità che adesso sta venendo qui prepotentemente a galla), le pressioni costanti sull’Iran, ecc. hanno un costo non inferiore a quello delle guerre aperte.
Tali “avventure” non finiranno assai probabilmente secondo i desideri della potenza centrale, che ne uscirà con ammaccature sufficienti a ribadire l’approssimarsi della nuova fase storica; tuttavia si tratta di operazioni dirette a contrastare quelle che sono state correttamente individuate quali possibili potenze antagoniste fra un paio di decenni o poco più. In ogni caso, soprattutto in Medio Oriente, non è ancora del tutto chiaro il futuro decorso dello scontro in corso, perché alla fin fine non è che in Irak e dintorni tutto fili liscio in direzione di una verticale sconfitta americana. Diciamo
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che si è in bilico. Tutto sommato, gli Usa mi sembrano più in difficoltà nell’area asiatica, nei pressi della Cina, e nel tentativo di “accerchiamento” (indispensabile al contenimento) della Russia. E forse nemmeno con l’Iran avranno grande successo; interessante la situazione in Turchia, ma non è ancora sicuro quale sarà lo sbocco della sua evoluzione, così come anche nei Balcani dove, in Serbia e Kosovo, sotto le ceneri il fuocherello non sembra proprio spento.
Mi par di capire comunque che nel paese predominante centrale vi sono correnti di revisione strategica che premono per un certo arretramento di posizioni onde meglio consolidarle. In tal caso, verrebbe probabilmente riconcentrata l’attenzione sull’area sudamericana; e ribadisco la mia convinzione che in quest’ultima, se gli Stati Uniti ricominciassero a pensarci “seriamente” e con la loro abituale brutalità “imperiale”, verrebbero ridimensionate le possibilità di autonomia di molti paesi dell’area (cioè, in realtà, dei loro gruppi dominanti in gestazione), nonché molte speranze dei “globetrotters” della “rivoluzione dei diseredati”. Se anche però gli Usa adottassero, e con successo, tale strategia – anzi proprio se la adottassero ed avessero successo – non farebbero che ribadire la rinuncia alla loro pretesa di fare del XXI secolo il “secolo americano”. Di fatto, accetterebbero ciò che a mio avviso è inevitabile: il ridistribuirsi delle forze tra alcuni potenti interi che saranno i nuovi centri da cui si irradieranno i flussi conflittuali policentrici, secondo forme adesso non prevedibili con chiarezza (la sostanza del conflitto è prevedibile, non appunto le forme concrete dello stesso). Del resto, non si dica che, alcuni anni prima del 1914, qualcuno era in grado di vaticinare con esattezza di contorni la prima guerra mondiale. Si sentiva nell’aria un regolamento di conti, si poteva capire, data la forza bellica delle potenze in gioco, che soluzioni di tipo militare erano all’ordine del giorno, ma nessuno immaginava la forma specifica che avrebbero assunta: quella di un unico enorme “macello” generale e sanguinoso, con un così gigantesco dispiegamento di mezzi e di uomini, una così forte concentrazione su relativamente pochi fronti, una così alta intensità di combattimenti in pratica senza soste e per un lungo periodo (in relazione alla concentrazione e all’intensità).
Per il momento, nell’attuale fase storica, si verificano conflitti “a bassa intensità” (sembra una presa in giro, visti i risultati, ma in termini militari, odierni, la definizione è questa). Siamo però ancora, lo ripeto, nel monocentrismo; la situazione muterà radicalmente in futuro, ma non è detto che le forme di una nuova resa dei conti debbano essere ulteriori giganteschi scontri mondiali. Comunque, non sono un esperto militare, non sono a conoscenza di tutte le armi (alcune molto diverse dalle tradizionali) a disposizione, attuale e futura, dei contendenti. Quindi mi limito alla previsione del policentrismo; tanto nemmeno vedrò nulla di tutto questo, è una previsione “a futura memoria”.
Ho tralasciato il continente africano, che probabilmente acquisterà buona rilevanza dati i vari focolai attuali (in Somalia, Darfur e vari altri). Del resto, non è che volessi rappresentare un quadro esauriente dell’intera configurazione delle relazioni internazionali; data fra l’altro la mia convinzione che le due fondamentali aree di crisi saranno, e a lungo, il Medio Oriente fino all’Iran e poi la zona asiatica tra Russia, Cina e India.
In tutto il bailamme succintamente descritto, ho volutamente lasciato da parte l’Europa. Un’area in cui vi sono almeno 5-6 paesi ad ottimo livello di tecnologie, di consumi e tenore di vita, di cultura certo in degrado ma forse non più che altrove (comunque i paragoni tra culture tanto diverse non sono facili e non comunque alla mia portata), con una ricerca scientifico-tecnica che, lasciando stare il nostro penoso caso, ha buoni livelli in alcuni paesi. Eppure, tale area è in chiaro declino, incapace di sottrarsi ad una perfino umiliante subordinazione alla potenza predominante. Manca veramente di autonomia (ormai nemmeno la Francia la persegue con convinzione) e affida ogni “sua” difesa, che è invece di fatto difesa degli interessi statunitensi, a chi non può far altro che difenderli perché, appunto, sono i suoi propri. In tale contesto di avvilente dipendenza, i più servili sono indubbiamente i paesi fu “socialisti” dell’est; tuttavia, tra i 5-6 maggiori (occidentali), qual è il più prono ai comandi americani? Facile la risposta, che nemmeno formulo per non offendere l’intelligenza dei lettori. E’ comunque utile soprassedere qui ad una ulteriore disamina, perché l’Europa (e soprattutto il nostro paese) meritano un discorso a parte, in futuro.
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8. In definitiva andiamo, secondo le previsioni appena fatte e supportate da un minimo di descrizione del presente quadro dei rapporti a livello mondiale, verso una fase di policentrismo; al momento, tuttavia, le probabili potenze in ascesa non hanno ancora quel livello di forza (non semplicemente militare, ma economica, politica e, più generalmente, sociale) atto a competere, veramente alla pari, con gli Usa. La Russia comincia a prendere atteggiamenti più aperti di antagonismo, mentre la Cina sta ancora abbastanza al coperto e l’India è tuttora un “mezzo” alleato del paese predominante; i paesi sudamericani danno “grattacapi”, ma ripeto che credo assai meno alla loro capacità di indebolire nettamente la supremazia statunitense. Quanto alla lotta che si è aperta in zone cruciali del mondo, soltanto i soliti “innamorati del popolo” credono che il conflitto sia tra dominanti e masse popolari povere, soprattutto dell’area araba o comunque islamica. In realtà, nei paesi di tali aree, nuove classi dominanti si sforzano di emergere – e come sempre, in casi simili, si appoggiano al popolo nella sua indistinta massa indigente, e quindi facile alla rivolta – ma non mi sembra esistere al presente in dette classi quella forza e quella chiarezza, ma soprattutto unità, di intenti tali da consentire una sicura previsione del loro successo.
Che si tratti di Pakistan (e del collegato Afghanistan) – zona a mio avviso cruciale in cui si giocherà un più netto mutamento degli attuali instabili equilibri a livello mondiale – o dell’Iran o del Brasile, solo per citare alcuni dei molti paesi in cui stanno emergendo nuovi gruppi dominanti, questi sono ancora estremamente incerti e troppo “fluidi”, divisi da antagonismi spesso assai acuti. Abbiamo gruppi più “moderati” e gruppi più “radicali”; il che significa semplicemente che alcuni di essi hanno deciso di emergere con una più drastica opposizione alla potenza ancora preminente, mentre altri cercano varie vie di compromesso, o addirittura di larvata sudditanza (pur se in nuove forme) a tale paese, che d’altronde sta già oggi modificando la sua strategia geopolitica (ad es. quella bellica in Irak e quella politica in Pakistan con l’appoggio alla Bhutto e il tentativo di gettare via, come “un limone spremuto”, il militare Musharraff) e ancor più la cambierà con la prossima presidenza.
Non è affatto ancora chiaro lo sbocco dello scontro, in atto tra “moderati” e “radicali” nei vari paesi citati, al fine di prevalere; ed esso non sarà affatto deciso, nei prossimi anni, dai “movimenti”, dalle “masse popolari” (come sostiene stupidamente la sinistra “estrema”, quasi solo italiana, ormai irritante e fastidiosa permeata com’è, soprattutto qui da noi, dal “cattolicesimo” dei “pietosi” e “poveri di spirito”), bensì dalla crescita più o meno rapida della potenza dei nuovi interi (paesi) quali Russia, Cina, ecc. E, ovviamente, è tutt’altro che indifferente quale sarà l’atteggiamento dell’Europa nel medio-lungo periodo, in particolare quello dei 5-6 paesi più avanzati, perché se essi continueranno nella politica attuale, sempre più servile verso gli Usa, l’avvento del policentrismo sarà logicamente ritardato. Va però detto con chiarezza che tutti i paesi in grado di garantire il passaggio in tempi medio-lunghi a tale nuova epoca – paesi dalla cui politica, assecondata da un più o meno veloce rafforzamento della propria potenza, dipende il prevalere, nelle aree in cui è oggi più acuto l’antagonismo verso gli Stati Uniti, dei gruppi dominanti “moderati” (compromissori) o di quelli “radicali” (i reali antagonisti) – sono formazioni particolari appartenenti alla tipologia capitalistica, comunque a quella basata sul sempre più ampio impiego delle forme del mercato e dell’impresa, pur se invece le forme del dominio politico sono diverse.
Pur essendo fondamentalmente capitalistiche tutte le potenziali potenze – e senza alcuna avvisaglia di scatenamenti di rivoluzioni (non di qualche mera rivolta) dei dominati al loro interno; circa le lotte contadine in India ho già detto che cosa ne penso (pur nutrendo per esse la massima simpatia e un coinvolgimento emotivo) – non ve n’è ancora nessuna, come già rilevato, alla pari con gli Usa. Impossibile quindi rinverdire “parole d’ordine” (ad es., quelle di Lenin) dell’epoca della prima guerra mondiale. Vorrei essere chiaro in merito. Ci sono degli sciocchi, in specie i reazionari più accaniti, che irridono sempre chi conserva la memoria dei passati eventi rivoluzionari perché è ormai trascorso un secolo o anche più (si pensi ad esempio alla Comune di Parigi) dal loro verificarsi; perché oggi andiamo sulla Luna e sui pianeti, mentre allora si utilizzava il cavallo e la carrozza (o si era appena scoperto il motore a scoppio e ci si alzava a mala pena in volo). Non sono così ingenuo
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da ritenere che il progresso tecnico, e le mirabolanti aperture di nuove frontiere della conoscenza, rappresentino tutto l’orizzonte dello sviluppo sociale e civile. Solo i corifei dei dominanti ci ammanniscono – o con un ottimismo da “sfegatati” di tale progresso o con il pessimismo di coloro che tentano ideologicamente di paralizzare la volontà di riscatto dei dominati – discorsi invasati sulla Tecnica, che ci sovrasterebbe e dirigerebbe il nostro “destino”. Sono solo o futili individui à la page oppure ideologi ben consapevoli di fare gli interessi di chi li “paga” (non solo in “vili soldi”).
Tutto invece dipende dalla politica, dalle scelte strategiche. Queste, però, non sono certamente effettuate in base a mere volontà e decisioni soggettive. I “grandi rivoluzionari” (Lenin ad esempio) emergono in contingenze specifiche; sono comunque dei grandi, perché altri avrebbero magari fallito pur dandosi certe condizioni, ma in assenza di queste ultime non sono in grado, nemmeno loro, di combinare gran che. Tali condizioni, tuttavia, dipendono prevalentemente dalle configurazioni assunte dai rapporti tra raggruppamenti sociali (“classi”): sia all’interno delle formazioni particolari sia nell’articolazione di queste ultime sul piano mondiale. Ad esempio, non essendo ancora entrati in un’epoca effettivamente policentrica, né essendosi quindi prodotti scontri acuti e netti tra un certo numero di interi -potenze, non avrebbe alcun senso fare appello alle “masse”, ai “popoli”, per trasformare simili scontri in rivolte dei dominati, che potrebbero assumere, nei punti deboli dell’assetto capitalistico predominante, carattere di autentica rivoluzione. Nulla di tutto questo è nemmeno in vista, non è pensabile se non in una visione di pura fantasia.
E’ quindi necessario procedere in altro modo, tenendo conto di un obiettivo prioritario: indebolire l’attuale supremazia degli Stati Uniti nonché, all’interno delle varie formazioni particolari, l’influenza dei gruppi dominanti che, per loro interessi precipui, si schierano con tale paese. Questo obiettivo va perseguito ovunque possibile e con qualsiasi azione che si sia in grado di compiere: dunque, in mancanza di mezzi più efficaci, anche con lo scritto, con l’analisi della situazione, con il disvelamento dell’ideologia sottesa al libero scambio (che favorisce la potenza predominante, come già accadeva con la teoria ricardiana del commercio internazionale all’epoca della supremazia industriale inglese), con l’opposizione al dilagare della cultura del paese ancora centrale (non nei suoi punti “alti”, ammesso che oggi ce ne siano, ma nel ciarpame che “esporta” e che plasma l’“opinione pubblica”), ecc.
Naturalmente, in un contesto come l’attuale, il pacifismo che si oppone alle imprese militari statunitensi è il benvenuto; la richiesta di ritiro delle truppe dall’Afghanistan è positiva. Non però quando è fatta senza forza, per salvarsi la faccia di fronte al proprio elettorato, e quando non si accompagni alla richiesta di non più partecipare a forze sedicenti Onu (o peggio ancora, Nato) che vanno a occupare – mettiamo – aree in Medio Oriente, portando oggettivamente aiuto a Israele, in quanto longa manus della preminenza statunitense. Inoltre, è indispensabile non farsi catturare dall’ideologia pacifista tout court, dalla pace sempre e comunque, perché si tratterebbe di un boomerang, che un domani – mutata la situazione e presentatasi l’occasione della rivolta dei dominati – giocherebbe a favore della repressione attuata dai dominanti.
C’è poi un punto che mi preme ricordare, anche se può sembrare irrilevante in un paese a sviluppo avanzato come il nostro, in una fase in cui il comunismo è stato sbaraccato quasi dappertutto, anche nei paesi (ivi compresa la “comunista” Cina) dell’ormai crollato e sepolto “socialismo reale”. Ci sono ancora alcuni rigurgiti “comunisti” che sono ormai del tutto reazionari. Nell’area capitalistica “occidentale” contano poco (ma hanno purtroppo qualche “sussulto” in una Italia devastata dalla cultura della sinistra sedicente “estrema” e da quella “cattocomunista”), giocando però ancora, in qualche area del mondo (e fra le più calde), un ruolo del tutto negativo, oserei dire quasi criminale. Penso ai già nominati “comunisti” che appoggiano l’invasione americana dell’Irak, che si schierano con Abu Mazen (dunque con Israele) contro Hamas, che reprimono e massacrano i contadini in India, che accolgono festanti Benazir Bhutto in Pakistan, “agente” del cambio di strategia americana dalla repressione militare (Musharraff) alle “elezioni democratiche”. E nel tentativo di mascherare questo comportamento da “traditori”, bruciano le bandiere americane. Vi ricordate la frase
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di Mao: “levano la bandiera rossa per meglio affossarla”? Parafrasandola, possiamo dire di questi disgustosi commedianti: “Bruciano la bandiera a stelle e strisce per sollevarla più in alto”.
In Italia, questi mercenari travestiti da “comunisti” non possono far altro che essere forza di complemento della sinistra governativa per catturare, e tenere agganciata al carro della reazione, qualche frangia di demenziali anarcoidi; tuttavia, nemmeno essi debbono essere sottovalutati, per la putredine che possono diffondere in quei pochi settori in cui si agitano sentimenti anticapitalistici (purtroppo non sorretti dalla ragione) e perché, appunto, fanno da “pretoriani”, da “squadre d’azione”, ai partiti di sinistra legati al peggiore capitalismo italiano (ma ne riparleremo nella “terza mossa”). Intanto, attenzione a questi manipolatori e giocatori “delle tre carte”.
Chiudo, per il momento, ribadendo per l’ennesima volta – ma quelli intorno sembrano proprio affetti da una sordità completa – che ci troviamo in un paese a capitalismo avanzato, della tipologia “occidentale” (dei funzionari del capitale), in una fase che si avvia ad essere, ma non è ancora, policentrica. Questo il punto di partenza di ogni ulteriore riflessione e del tentativo di pensare anche una politica, per cui occorrono tuttavia forze congiunte e non solo studiosi isolati!
Novembre 2007
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