IL LINCIAGGIO DELLA VERITÀ
Ermeneutica del linguaggio democratico
“Il capitalismo in putrefazione ha bisogno per reggersi di mentire continuamente. La realtà lo accusa: dunque deve essere falsificata. La fabbrica della menzogna è diventata arte, tecnica, norma di vita.” Pietro Secchia
È risaputo che, in linguistica, il significante (forma) è strettamente correlato al significato (contenuto).
Nella comunicazione di massa, invece, è solito avvenire un distacco fra significante e significato, con la subordinazione di quest’ultimo al primo. Come se l’espressione assumesse autonomia rispetto al contenuto, svuotato di se stesso, suscitando un forte impatto emotivo nel pubblico. Questo accade in particolar modo con quei concetti astratti talmente inflazionati da perdere ogni significato. Il suddetto fenomeno riguarda soprattutto l’informazione e quindi tutto l’apparato mass-mediatico che influenza, direttamente e indirettamente, le coscienze.
Ogni epoca è caratterizzata da un proprio lessico. L’epoca democratica fonda la propria terminologia su assiomi linguistici quali: libertà, democrazia e diritti umani. Questi, appunto, sono i termini che subiscono il predominio del significante sul significato.
La categorizzazione, positiva o meno, di ogni Stato, movimento e ideologia si basa su questi parametri tanto astratti quanto psicologicamente penetrabili nella mente dell’uomo comune. Notiamo, però, delle new entries nel vocabolario democratico, fagocitate da quello sinistroide, come rivoluzione, rivolta e popolo. Questo ampliamento lessicale permette di persuadere, o meglio ingannare, quelli apparentemente più restii alla propaganda democratica standard, alla quale, talvolta, si credono autoimmuni.
La stessa “primavera araba” è stata etichettata e descritta con i termini appena citati, scatenando grande entusiasmo nei cuori occidentali, in particolar modo all’inizio.
I limiti di tale metodologia sono evidenti e derivano da una distorta visione occidentalista, che vorrebbe adattare ed imporre le proprie lenti al mondo intero.
Per comprendere ed interpretare meglio il linguaggio democratico bisogna partire dal presupposto che, essendo finite le cosiddette ideologie storiche novecentesche, siamo giunti ad una fase in cui impera il nichilismo e il relativismo, che costituiscono il fondamento filosofico di un’altra ideologia, quella democratica, identificata però come verità indubitabile. Pertanto il relativismo nichilista è funzionale all’ideologia democratica nella misura in cui cela la sua natura dogmatica.
Ciò è il frutto dell’uniformazione politica, economica e culturale, che alimenta una presunta e presuntuosa imparzialità, laddove in realtà si palesa una sorta di ideologia “post-ideologica”(termine odioso, ma rende l’idea), tutt’altro che imparziale, il cui scopo è camuffare il carattere totalitario del sistema democratico.
Cerchiamo ora di dare un’interpretazione critica degli assiomi linguistici sopracitati che corrispondono alla trinità della “teologia democratica” (libertà, democrazia, diritti umani):
1. La libertà del nostro tempo ha radici anglosassoni e francesi, figlia del liberalismo e del liberismo. Anzi, più che figlia, potremmo definirla un autentico aborto, poiché, se nel contesto delle rivoluzioni inglesi e di quella francese la libertà poteva essere una necessità storica – come limitazione o abolizione del potere regio e affermazione politica e sociale della borghesia – oggi, nell’era del “trionfo della libertà”, ha perso di significato. La parola “libertà” non ha più senso, o meglio è diventata un concetto indicibile, quasi metafisico. Questo non significa che sia stata effettivamente raggiunta, come vorrebbero far credere i liberal-democratici; direi piuttosto che è stata estraniata dalla realtà effettuale, diventando mero oggetto di culto, con vere e proprie “manifestazioni divine”. La sua esistenza è affidata paradossalmente alla “fede”, professata dai credenti della “libertà assoluta”.
Come ogni divinità che si rispetti viene considerata onnipotente e onnisciente, concedendo persino sporadiche apparizioni agli infedeli che non credono nella sua esistenza. Le sacre scritture dei profeti della stampa occidentale hanno registrato le ultime apparizioni in Libia e in Siria, tacendo la collocazione del santuario delle libertà: Washington.
Senza voler proiettare le contraddizioni del “regno della libertà” nei paesi storicamente immuni, che quindi vanno “vaccinati” per la loro inciviltà, possiamo dare uno sguardo generale laddove essa ha trionfato da secoli, ossia in Occidente.
Quanto incidono effettivamente le “storiche” libertà politiche ed economiche in Occidente?
La libertà politica è concepita in senso lato come multipartitismo, fondato sulle libertà civili (libertà di espressione, di associazione, di pensiero etc..). Basta però un minimo di onestà intellettuale e di senso critico per osservare come il multipartitismo occidentale non sia sinonimo di libertà politica. Ammetterlo non significa riportare in auge il monopartitismo, bensì smascherare l’ipocrisia liberale che individua nel multipartitismo la realizzazione della libertà politica, quando invero consiste, nella società democratica occidentale, nell’acconsentire alla preselezione del burattinaio di turno, garante in tal caso degli interessi della “casta” americana.
L’inadeguatezza della classe politica italiana non consiste tanto nell’essere corrotta e – benché innegabile, sia chiaro – bensì nel governare per conto terzi. Quello che “mangiano” dei nostri soldi sono briciole rispetto ai pezzi di sovranità e ai “mezzi di produzione” che affidano o svendono ai pescecani del capitale finanziario. Questo implica che anche le tanto decantante libertà economiche dei neoliberisti non sono che specchietti per le allodole. Non mi riferisco alla lapalissiana contraddizione dell’intervento statale nelle stesse economie neoliberiste, bensì all’accondiscendenza verso le politiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e, come vediamo ultimamente in Europa, dalla Banca Centrale Europea (BCE). La libera iniziativa privata oramai è priorità del capitale finanziario internazionale.
Vediamo quindi come la politica economica, fondamentale per ogni Stato, sia principalmente eterodiretta, nei paesi occidentali, da organizzazioni sovranazionali. Rifiutare o mettere in dubbio tali direttive può comportare l’emarginazione o l’espulsione dal “mondo della libertà”.
Parlare seriamente delle libertà civili risulta superfluo di fronte a tutto ciò, giacché è risaputo come la stampa sia controllata, di come l’opinione sia influenzata e di come la parola critica sia resa muta.
L’aveva compreso bene 60 anni fa Pietro Secchia che, nel suo scritto “I Crociati della Menzogna”, ammoniva:
”I temi ideologici arrivano dall’America assieme ai carri armati: si tratta della parte ideologica del piano Marshall. (..) Tutta la “propaganda” organizzata in tutti i paesi capitalisti dell’imperialismo americano o dalle sue agenzie è un cumulo di menzogne. Basta dare uno sguardo alla stampa dei vari paesi per accorgersi che gli stessi temi vengono trattati in Inghilterra, in Francia, in Italia, in Belgio, che le stesse parole d’ordine, gli stessi slogan vengono lanciati dappertutto contemporaneamente. (..) Milioni di italiani che ogni giorno leggono Il Messaggero, Il Corriere della Sera, Il Giornale d’Italia, La Stampa, Il Tempo, ecc., ignorano che tutte le notizie provenienti dal mondo intiero e pubblicate su questi giornali vengono confezionate nelle cucine di Hearst e degli altri agenti dell’imperialismo americano.”
2. Il significato etimologico della democrazia, che deriva dal greco, corrisponde al “potere del popolo”. Tale forma di governo è stata applicata, e diversificata, in base al contesto storico, dall’Antica Grecia ad oggi. I caratteri della democrazia moderna risultano diversi da quella antica, che, benché diretta e quindi non rappresentativa, era limitata ai “cittadini liberi”, escludendo gli schiavi e le donne. Quella moderna è rappresentativa e parlamentare, presupponendo quindi la separazione dei poteri e il pluralismo politico.
Dal XVIII secolo al XX è avvenuto un ampliamento della partecipazione tramite il diritto all’istruzione elementare gratuita (prorogato fino alla superiore) e il suffragio universale, oramai propri di ogni democrazia moderna, chiamata anche liberal-democrazia, poiché dovrebbe essere la sintesi principio liberale e del principio democratico, anche se fra questi vi sono alcune storiche contraddizioni. Il liberalismo nasce infatti come l’affermazione dei diritti civili e politici inalienabili mentre la democrazia come applicazione della sovranità popolare, esercitata direttamente o indirettamente tramite delega ai rappresentati del popolo. Benché la divisione dei poteri derivi dalla tradizione liberale (Montesquieu), questa non ha riconosciuto storicamente il suffragio universale e la sovranità popolare fino al Novecento, dove appunto si colloca la nascita delle liberal-democrazie occidentali. Viceversa pensatori democratici, come Rousseau, hanno rifiutato la teoria della divisione dei poteri e, nel caso del filosofo ginevrino, anche la delegazione del potere, auspicando una forma di democrazia diretta.
La distinzione fra liberali e democratici è più una realtà storica che presente. Tale dicotomia, sebbene abbia esaurito la sua funzione storica, viene oggi squallidamente riproposta, tant’è che è diventato un gioco di abilità identificare e distinguere i liberali dai democratici, intercambiabili nella grande maggioranza dei casi.
Questa brevissima e alquanto superficiale ricostruzione storica ed etimologica del concetto di democrazia serve per affermare ancora una volta la sua equivocità , poiché, nel suo uso quotidiano e mediatico, anche il termine “democrazia” significa tutto e niente. È un assioma, un dogma, anzi, senza scomodare matematica e religione, possiamo affermare che la democrazia oggi non è altro che un prodotto di mercato con il marchio D.O.P (Denominazione di Origine Protetta) e come tale viene esportato, poiché l’ingente sviluppo dei mezzi di divulgazione impone la “vendita” in quei paesi dove vi è penuria di questo “prodotto primario”.
Cos’è invece la democrazia per coloro che ne ingeriscono talmente tanta da abusarne per poi rigurgitarla nelle menti del “popolo”, tanto amato e lodato, soprattutto in tempo di elezioni?
Per figuri del genere la democrazia potrebbe essere l’espressione e la divulgazione della propria opinione, purché sia “politically correct”. È fondamentale essere corretti, come i caffè, da un “liquore” americano, altrimenti, se non ti bevi ciò, non ti ingerisce nessuno. Se correggi ad esempio con la vodka russa, oltre che scorretto, sei pure un’alcolista.
Più verosimilmente questa democrazia è un bombardamento di menzogne, un’esplosione di bombe, una raffica di presunti valori arbitrari, benché creduti assoluti.
Ma se in estrema sintesi noi volessimo identificare la democrazia con la sovranità popolare, con quale coraggio potremmo ritenere di vivere in una democrazia se nemmeno vi è effettiva sovranità nazionale, figuriamoci quella popolare?
3. I diritti umani sono norme morali riguardanti i diritti dell’individuo e dei popoli. Filosoficamente si fondano sul giusnaturalismo moderno, ovvero sulla dottrina che afferma l’esistenza di diritti di natura universali (diritto alla libertà, alla sicurezza, alla proprietà ecc..). Il giusnaturalismo si diffonde in particolar modo a partire dal XVII secolo, grazie all’opera “De Iure Belli Ac Pacis” di Ugo Grozio, nello stesso periodo del liberalismo di John Locke, con il quale condivide i presupposti filosofici. Di fatto il liberalismo non è nient’altro che la dottrina politica preposta alla salvaguardia dei diritti naturali contro il predominio del diritto positivo (leggi dello Stato).
Tralasciando la diatriba fra giusnaturalismo e positivismo giuridico, che in opposizione al primo afferma la sola esistenza del diritto positivo, quindi l’inesistenza di quello naturale, ricordiamo brevemente il percorso storico dei diritti umani moderni.
Si è soliti suddividere i diritti umani in quattro generazioni: la prima scaturisce dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (26 Agosto 1789), frutto della Rivoluzione Francese, ed è caratterizzata dai diritti civili e politici; la seconda generazione si realizza con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 Dicembre 1948) nella quale vengono implementati anche i diritti socio-economici e culturali (diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione ecc…), promossi dall’Unione Sovietica e dagli altri Stati socialisti; la terza generazione riguarda soprattutto la collettività e tutti quei diritti tornati in auge con il fenomeno della “decolonizzazione” (diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, al controllo delle risorse nazionali ecc…); la quarta generazione, affermatasi negli ultimi tempi, è espressione delle sviluppo tecnologico, quindi legata a tematiche come la libertà informatica e la bioetica.
Come si può ben dedurre i diritti più apprezzati dall’Occidente, ma non per questo sempre rispettati, sono quelli di prima e quarta generazione. Anche quelli della seconda e della terza generazione sono spesso sbandierati, ma sono i primi ad essere violati. Sia perché è difficile che il sistema capitalistico garantisca i diritti socio-economici, sia perché le potenze capitaliste egemoni, pur essendo costrette ad agire all’interno del diritto internazionale, non possono garantire né la pace, né l’autodeterminazione dei popoli, né l’autonomia energetica delle nazioni, poiché altrimenti non potrebbero imporre il loro dominio, hard o soft che sia. Le contraddizioni nascono anche in seno alle organizzazioni sovranazionali, come l’ONU, costretta ad agire in base ai rapporti di forza e non a principi di imparzialità ed equilibrio.
L’affermazione dei diritti umani in sé è comunque un fattore storico positivo, fintantoché essi sono rivolti a garantire la pace. Quando però diventano il leitmotiv della guerra, come è puntualmente accaduto negli ultimi 20 anni, conferiscono agli aggressori la giustificazione morale e ideologica per “evangelizzare” al verbo umanitario gli aggrediti, autorizzando de facto il conflitto bellico. Anzi, per l’ideologia democratica la vera o presunta violazione dei diritti umani (non si sa mai quali di preciso) deve essere additata come causa stessa della guerra, per questo umanitaria. Questo è l’imperialismo ”dal volto umano”, dipinto bonariamente, perché non è razzista o nazionalista come un secolo fa. Non fa male a nessuno, tranne a coloro che sono costretti a sperimentarlo sulla propria pelle.
L’Occidente (alias Comunità Internazionale, alias USA) si erge quindi ad unico depositario dei diritti umani, poco importa che esso li rispetti davvero, così come importa poco che la nazione aggredita li violi davvero. L’abbiamo visto chiaramente nell’ultima esportazione umanitaria, in Libia. L’assioma generico era che la Libia di Gheddafi violasse i diritti umani, eppure in un rapporto dell’ONU del 4 Gennaio 2011 leggiamo: “la protezione dei diritti umani è generalmente garantita nella Jamahiriya araba libica, ed include non solo i diritti politici, ma anche quelli economici, sociali e culturali. La stessa Libia ha riferito la sua esperienza all’avanguardia nel campo del diritto alla salute e nella legislazione sul lavoro”. Sì, stiamo parlando della stessa ONU che neanche due mesi e mezzo dopo istituirà, con la Risoluzione 1973, la no-fly zone sulla Libia, permettendo quindi i bombardamenti, affidati in seguito al comando della NATO per “proteggere la popolazione civile”, con attacchi chirurgici ad obiettivi militari. Le bombe su scuole, ospedali e altre infrastrutture civili sono un puro accidente, un caso di malasanità nella chirurgia atlantica.
L’assioma specifico è stato propagandato dal 22 Febbraio 2011, con la denuncia, da parte della maggior parte degli organi della stampa occidentale, di un criminale bombardamento dei civili libici da parte dell’esercito di Gheddafi, che avrebbe addirittura ucciso 10.000 persone, ammassate in fosse comuni. La notizia è stata smentita dai militari russi che, tramite immagini satellitari, hanno constatato come non vi sia stato alcun bombardamento di tale portata su Tripoli e Bengasi. L’amplificatore propagandistico è riuscito persino a trasformare le immagini di un comune cimitero civile, in realtà dell’Agosto 2010, in fosse comuni, trasportate nel tempo. Il vero funerale è stato fatto alla verità, questa sì seppellita nella fossa della disinformazione.
In conclusione osserviamo come i diritti umani siano stati usati, ancora una volta, come un vero e proprio inganno per imporre la supremazia geopolitica dell’Occidente, per mutare i rapporti commerciali e diplomatici degli Stati e controllarne la gestione delle risorse energetiche.
Con il colonialismo si diceva che le potenze occidentali esportassero civiltà, ora, grazie alla neolingua democratica di cui abbiamo tracciato generalmente i capisaldi, esportano umanità. Questo significa che le vittime, o beneficiari – dipende dal punto di vista – di queste “esportazioni” furono a suo tempo incivili, oggi degenerati in bestie disumane, con le quali il diritto internazionale deve essere invocato, ma non rispettato.
Il filantropismo umanitario è dunque una taciuta nostalgia coloniale da parte dell’Occidente, che camuffa la barbarie perpetrata con il concetto di umanità.
Risulta dunque drammaticamente attuale la riflessione di Pierre-Joseph Proudhon su tale concetto:
“L’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, poiché essa non ha nemici: poiché anche il nemico non cessa di essere uomo. Che poi vengano condotte guerre in nome dell’umanità non contrasta con questo semplice verità, ma ha un significato politico intenso. Se uno Stato combatte il suo nemico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo si possono utilizzare i concetti di pace, giustizia, progresso, civiltà per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è uno strumento di imperialismo economico(..) Chi parla di umanità vuol trarvi in inganno.”