L’ossessione iraniana
Nonostante l’Iran sia entrato da tempo nel mirino di Tel Aviv, gli apparati decisionali israeliani appaiono alquanto divisi sulle misure da adottare nei confronti di Teheran, in quanto se da un verso sono schierati i “moderati”, come il direttore del Mossad Meir Dagan, dall’altro vi sono gli “interventisti” come il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, il Ministro della Difesa Ehud Barak e il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Secondo questi ultimi – che, Netanyahu in particolare, hanno guadagnato un notevole consenso popolare con lo scambio di prigionieri contestuale alla liberazione del soldato Gilad Shalit – un attacco preventivo all’Iran è sempre rientrato tra le opzioni possibili, per ragioni legate, come sempre al rinsaldamento della posizione israeliana nella complessa regione del Vicino e Medio Oriente.
Nonostante le ragioni ufficiali addotte da Tel Aviv vertano sul mantenimento della sicurezza del paese, minata dal nucleare iraniano, l’attacco all’Iran rappresenta un asso nella manica che Netanyahu e i suoi consiglieri più stretti potrebbero giocare per capitalizzare il duplice obiettivo da un lato di spingere nell’angolo i tentennanti Stati Uniti e dall’altro di lanciare un serio monito alla Turchia, dimostrando che Israele non tollera in alcun modo che vengano messe in discussione le sue mosse strategiche e scelte politiche.
Tuttavia, le incognite che si celano dietro l’attacco al’Iran sono molteplici.
Non si tratta, infatti, di replicare un’ulteriore “Operazione Babilonia”, lanciata nel 1981 contro gli impianti nucleari iracheni di Osirak.
Non solo i siti nucleari iraniani distano circa 1.500 km dagli aeroporti militari israeliani, ma sono molto numerosi, situati in profondità e protetti da bunker che potrebbero resistere alle incursioni degli F – 16.
Non potendo sperare sull’effetto sorpresa, i caccia israeliani sarebbero inevitabilmente esposti alle difese antiaeree iraniane che saranno presumibilmente già in stato di allerta.
Eventuali perdite apparirebbero inaccettabili a una popolazione tradizionalmente favorevole alle azioni militari decise dai propri governi, ma che nel caso specifico si è spaccata a metà (41% favorevoli contro 39% contrari, con il 20% di incerti) sulla possibilità di aggredire l’Iran.
Per effettuare un’operazione simile, inoltre, si renderebbe necessario violare lo spazio aereo di alcuni paesi arabi che molto difficilmente accorderebbero la propria autorizzazione.
Dal momento, però, che Israele non si è mai preoccupato di interpellare i propri vicini, di fronte ad un eventuale (probabilissimo) loro rifiuto deciderebbe comunque, con ogni probabilità, di procedere ugualmente.
A quel punto l’intera galassia araba (tranne forse i sauditi) si incendierebbe, infiammata di un rinvigorito sentimento anti – israeliano.
Il vituperato regime degli Ayatollah, che presenta alcune crepe piuttosto profonde, trarrebbe nuova linfa dall’aggressione, richiamando attorno a sé l’intera popolazione iraniana che si cementerebbe in difesa dei propri governanti.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, indossano le vesti di arbitro della situazione, perché è vero che Washington ha interesse che non emerga alcuna potenza egemone nell’area del Vicino e Medio Oriente, ma è anche vero che l’Iran non ha questa capacità e rappresenta una minaccia solo ed esclusivamente per gli interessi di Israele.
L’enfasi con cui lo stesso George Bush junior – uno dei presidenti più filoisraeliani della storia statunitense – ripeteva che l’Iran costituiva una minaccia mortale per lo stato ebraico, senza menzionare gli Stati Uniti, è indice piuttosto affidabile del quadro strategico della situazione vigente.
Washington non avrebbe quindi nulla da guadagnare appoggiando e prendendo parte a un’azione unilaterale rivolta contro l’Iran, che alimenterebbe i già consistenti sentimenti ostili agli Stati Uniti che serpeggiano in seno alle società del Vicino e Medio Oriente e minerebbe gli interessi americani nell’area.
La Israel Lobby, tuttavia, è capace di esercitare un peso soverchiante sulle scelte politiche statunitensi ed ha i propri referenti politici sia nel Congresso sia all’interno dell’amministrazione Obama (Hillary Clinton e Joe Biden in primis).
Le forti pressioni operate in questa direzione potrebbero forzare la mano a tali comparti decisionali statunitensi spingendoli ad allinearsi sulla posizione oltranzista tenuta da Israele.
Comunque, se Israele deciderà di attaccare, la Gran Bretagna si inserirà senza ombra di dubbio mentre la Francia di Nicolas Sarkozy profonderà ogni sforzo possibile per esaltare il proprio ruolo come aveva fatto in Libia.
Le elezioni per l’Eliseo sono agli sgoccioli e il partito “gollista” (c’è da chiedersi cosa penserebbe il Generale Charles De Gaulle a questo riguardo) di Sarkozy si ritrova a dover recuperare numerose posizioni rispetto al favorito candidato socialista Francois Hollande.
La formazione di una coalizione affine a quella che affrontò la crisi di Suez nel 1956 (Francia, Gran Bretagna, Israele) attirerebbe inevitabilmente gli Stati Uniti, che non possono permettersi di lasciare una vicenda dall’altissimo coefficiente strategico come quella iraniana alle brame egemoniche di altri paesi suoi alleati.
Collocandosi ancora una volta nella prima fila degli interventisti, Sarkozy potrebbe quindi esaltare la propria capacità persuasiva, vantandosi per aver “costretto” altri ben più consistenti paesi come gli Stati Uniti ad entrare nella bagarre, appagando i più infimi sentimenti revanscisti che covano endemicamente in seno alla società francese.
Ad ogni modo, l’Iran non abbandonerà il proprio programma nucleare perché, dopo la bocciatura in sede ONU delle risoluzione contenente le prove tecniche per l’aggressione alla Siria, avverte la vicinanza di Russia, Cina ed anche India, che nel caso specifico molto difficilmente manterrebbero la medesima passività tenuta in occasione dell’affaire libico.
Per queste ragioni l’Iran rappresenta uno snodo primario in cui si concentra la conflittualità strategica che sta segnando il passaggio dall’unipolarismo statunitense al multipolarismo dovuto all’emersione di nuovi e vecchi attori geopolitici destinati a ridisegnare l’ordine che dominerà la “grande scacchiera”.