I RAPPORTI DI FORZA E LO STATO COME “PROCESSO COSTANTE”


 

Mi è capitato di leggere un articolo di Gianluca Di Feo a proposito dell’intervento atlantico in Libia, pubblicato lo scorso 27 ottobre sul sito de L’Espresso. L’esordio suona agghiacciante, ma non sorprende affatto e svela le cifre fornite dal nostro Stato Maggiore, disponibili dopo la fine della missione Nato, ufficialmente dichiarata conclusa il 31 ottobre scorso.

I nostri caccia hanno individuato 1.500 obiettivi e ne hanno distrutti oltre cinquecento con almeno ottocento tra bombe e missili. È il massimo volume di fuoco scatenato dall’Aeronautica sin dal 1943: gli arsenali sono stati svuotati, impegnando contro le postazioni dei “lealisti” l’intera scorta di armi di precisione con puntamento laser o satellitare[1]

Questi dati dimostrano definitivamente la partecipazione dell’Italia all’aggressione nei confronti della Libia, ed il ruolo attivo (non certo meramente passivo) del nostro esercito nelle azioni militari. La potenza di fuoco scatenata dai nostri caccia smentisce, dunque, ciò che il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, aveva affermato il 21 marzo[2], affiancato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che invitò a non fare allarmismi, poiché “non siamo in guerra[3]. Se la dialettica della democrazia partecipativa, illusoriamente promossa e sponsorizzata dalle nostre classi dirigenti negli ultimi sessanta anni, esistesse davvero, ci sarebbero tutti i presupposti per presentare una mozione di sfiducia popolare e una richiesta di dimissioni per queste due cariche dello Stato e per il presidente del consiglio che è a capo del governo.

Ovviamente, conosciamo bene la farsa delle democrazie liberali e la mitologia da esse imposta alla fine della Guerra Fredda: l’ideologia delle fine delle ideologie, la vulgata del compimento della storia e l’invisibile imposizione mediatico-culturale di un ordine unipolare schiacciato sull’unilateralismo di Washington. Sappiamo bene – ed è logico che sia così – che il pluralismo è consentito da un qualsiasi Stato, solo nella misura in cui tale pluralismo si muove entro uno spazio di posizioni e opinioni, divergenti in relazione alle modalità di gestione del potere, ma generalmente concordi sui temi fondanti dell’ordine politico, militare ed economico costituito. Ogni sistema politico e sociale nasce da guerre e sconvolgimenti epocali (nel nostro caso la II Guerra Mondiale), e a sua volta genera un maglio di posizioni nel suo alveo generale, tali da contrapporre interessi divergenti anche in modo feroce.

In tal senso pare necessario superare velocemente la dicotomia democrazia/dittatura, che non ha alcun senso al di fuori di quello retorico ed ideologico, utilizzato ad hoc dalla Nato per definire i suoi obiettivi strategici. L’Unione Sovietica fu quasi sempre – quanto meno dal 1948 in poi – denunciata dall’Occidente come una “dittatura” contrapposta al presunto “mondo libero” costituito dalle potenze atlantiche e dai loro alleati. Per decenni essa fu dipinta nelle cronache statunitensi come un monolite totalitario fondato su imposizioni dall’alto e sui diktat della fantomatica nomenklatura. Questa versione propagandistica, oltre a risultare stucchevole e pretestuosa, sembra perfino insufficiente a comprendere i movimenti interni allo Stato Sovietico e le numerosissime tensioni e dualità, spesso sanguinolente, presentatesi nei settantaquattro anni di storia dell’Urss: destre, sinistre, centri, revisionisti, neo-staliniani, anti-revisionisti, vaviliovisti, lisenkisti, distensionisti, derzhavniki, eurasiatisti, gorbaceviani e chi più ne ha più ne metta.

Potremmo individuare altrettante dicotomie e divergenze anche in altri Stati dell’era del socialismo reale, perfino nella tanto vituperata Corea del Nord e a Cuba, o anche in Stati quali l’Iran, il Pakistan e la Siria, che un arrogante rapporto della Casa Bianca, all’indomani dell’Undici Settembre, si affrettò a definire “canaglia” (Rogue States). Senz’altro, però, il caso più emblematico in questa direzione è quello della Cina, che ha resistito alla catastrofe del 1989, vincendo quella autentica guerra civile e mediatica, enucleatasi nella reazione a catena innescata da decenni di accerchiamento militare e politico del “campo socialista”, e da almeno dodici anni di ingerenze e soft-power “diritto-umanitarista” e “non-violento” (quanto meno a partire da Charta77 e Solidarnosc in poi). La repressione di Piazza Tien An Men, pur tuttavia, è ancora oggi utilizzata da gran parte degli opinionisti occidentali come un’arma di ricatto morale da puntare contro la Cina all’occorrenza, assieme alla questione tibetana, alla questione uigura e alla crisi taiwanese. La nuova vulgata di propaganda che oggi si sta affermando in Occidente è chiara e limpida: il vero successo della Cina sarebbe costituito dalla crescita economica, mentre per tutto il resto permarrebbero i pesanti problemi di un Paese “autoritario” e di una società “chiusa” e “nazionalista”. Insomma, l’equazione dei liberali di casa nostra è semplice: i meriti della Cina sono riconducibili al “capitalismo” e i demeriti/crimini/orrori al “comunismo”. Ovviamente, non è così, e questa ridicola bipartizione manicheista di uno stesso Paese, mette in luce la pochezza delle argomentazioni e la scarsezza assoluta del dibattito politico in Occidente.

Né Pechino, né Mosca, tra l’altro, hanno mai strumentalizzato in modo talmente ridondante e stucchevole le sommosse metropolitane di Washington, di Seattle o di Los Angeles, le repressioni delle popolazioni afro-americane, le proteste e gli scioperi negli Stati Uniti, sino a giungere al punto forse più radicale della questione statunitense: lo sterminio delle tribù native nord-americane. Come può ergersi, difatti, a gendarme morale del pianeta, una nazione che non ha mai rispettato nessuno dei diritti di cui si proclama promotrice, e che fonda la sua politica internazionale sul più bieco pragmatismo e sul più cinico calcolo opportunistico? Come può questa nazione appropriarsi del diritto di stabilire cosa sia la democrazia e quali Paesi ne facciano parte? Non prendiamoci in giro. Così come si era dato vita ad un “campo socialista” geograficamente e militarmente racchiuso tra la Germania Orientale e la Kamchatka, si è dato contemporaneamente vita ad un “campo liberale”, costruito sulle basi della Carta Atlantica del 1941, ampliato e ridefinito quale Patto Nord-Atlantico grazie agli esiti della Seconda Guerra Mondiale sul fronte occidentale, ed espansosi, tra il 1994 e il 2009, a tutta l’Europa orientale, dalle repubbliche baltiche fino ai Balcani e ai Carpazi. La Nato è, come tanti altri eserciti o alleanze della storia, il braccio militare di un impero economico e politico che cerca di espandere internazionalmente la sua sfera d’influenza a tutti i teatri regionali rimasti fuori dal suo controllo e dal suo dominio. L’Unione Sovietica rappresentò in tal senso un’eccezione storiografica: fu l’unico “impero” fondato su una dottrina politica di liberazione nazionale ed anti-egemonica (il marxismo-leninismo), malgrado la storia lo volle naturale erede del ruolo geopolitico che fu della Russia zarista, inizialmente abbattuta e detestata, ma in seguito almeno in parte riconsiderata, specie per effetto delle politiche di Stalin. In definitiva, tutta la storia della politica strategica sovietica – dal dibattito Lenin-Stalin a proposito della struttura geografica ed etnografica della neo-nata Federazione Sovietica alla crisi dei missili, dalla Dottrina Brežnev alla crisi sino-sovietica – è contrassegnata da un continuo divincolarsi tra questi due livelli di dialettica (quello ideologico e quello geopolitico), da un continuo e costante “Che fare?” e dal difficile mantenimento dei tanti e precari rapporti sul piano interno e sul piano internazionale.

Al di là di questa eccezione, in generale, gli Stati e soprattutto le entità/alleanze sovra-nazionali o imperiali, non hanno mai presentato sostanziali differenze strutturali e comportamentali: essi, infatti, impongono ad ogni costo la priorità della sicurezza interna e della difesa dei territori sottoposti al loro dominio, prediligono una linea economica di accumulazione produttiva a modalità variabile o integrabile tra il settore “pubblico” e il settore “privato”, con prevalenza del primo sul secondo (Stati in condizioni di inferiorità strategica e commerciale, dunque “protezionisti”) o del secondo sul primo (Stati in condizioni di superiorità strategica e commerciale, dunque “liberisti”), e ricercano una proiezione verso l’esterno, che può andare dalla cooperazione bilaterale semplice (win-win strategy) e da un soft power “passivo” – ossia volto al solo mantenimento dello status quo – sin’anche alle forme di ingerenza più estreme come l’embargo economico o l’invasione militare (hard power).

Gli Stati Uniti oggi godono di un primato militare e di eccellenze tecnologiche perfettamente in simbiosi con la fitta trama del loro controllo marittimo e della loro supremazia navale (sea-power), che ne contraddistingue il predominio globale: il potere di regolazione e di “controllo” sui commerci e sui mercati (per effetto del “doppio ruolo” del dollaro, come moneta nazionale e come moneta di riferimento nei tassi di scambio internazionali) garantisce a Washington un costante afflusso privilegiato di materie prime e di liquidità da riversare e reinvestire nella complessa filiera militar-industriale e nel settore Reasearch & Development, laddove ponderati intrecci tra pubblico e privato permettono un funzionamento generale della strategia nord-americana.

Spesso Gianfranco La Grassa ha ricordato come gli Stati siano soggetti politici di importanza fondamentale per la comprensione del campo dei rapporti di forza internazionali, assolutamente da pensare come processi e non come oggetti: essi costituiscono dunque delle “generiche costanti” in movimento, per lo più dinamiche sia sul piano dialettico interno alle classi dominanti, sia sul piano strettamente politico, sia sul piano territoriale. E gli Stati Uniti costituiscono, in quest’ottica, una (im)perfetta macchina da guerra, pronta ad imporre – qual’ora sia necessario ai fini della salvaguardia del proprio interesse – la sua volontà attraverso il ricatto, la coercizione e la sopraffazione, così come la “soluzione” alla crisi libica ha dimostrato.

Non ci può essere alcuno spiraglio di credibilità, anche minima, in tutti i tentativi di filtrare il comportamento neo-coloniale degli Stati Uniti e della Nato attraverso immagini morali o retoriche, come ad esempio la difesa dei fantomatici diritti umani o l’esportazione della democrazia. Queste considerazioni cadono e crollano alla prima analisi obiettiva. Basta farsi semplicemente delle domande immediate e per nulla complicate: perché porre questioni in merito alla mancanza di democrazia in Iraq, in Libia o in Siria, e allo stesso tempo ignorare costantemente le terribili condizioni delle popolazioni sottoposte al giogo della monarchia saudita o del sultanato omanita? Perché denunciare la presunta ingiustizia di un sistema politico – quello di Gheddafi – che, secondo le stesse cifre fornite dalla Cia all’inizio dell’anno, garantiva un reddito pro-capite di 13.800 dollari annui, mentre in mezza Africa il sistema debitorio imposto dal Fondo Monetario Internazionale e gli interessi delle compagnie energetiche britanniche, americane, olandesi e francesi impediscono qualunque serio piano di sviluppo e di reale (NON formale) decolonizzazione?

Nessun impero nella storia era mai arrivato a tanto, auto-legittimandosi non più soltanto dinnanzi alla propria popolazione, ma di fronte al mondo intero e ricercando un consenso anzitutto a partire dai Paesi vassalli e sottoposti, come il nostro, attraverso una fitta rete di informazione distorta e manipolata, generata da un’accurata selezione del personale, volta ad impedire l’accesso ai principali circuiti mediatici a qualunque giornalista/analista che provi a denudare i cardini politici e istituzionali di un tale sistema di dominio internazionale. La scomparsa del blocco sovietico ha avuto un effetto catastrofico non solo sul piano geopolitico, ma di conseguenza anche su quello dialettico e mediatico. Ne è riprova il fatto che oggi in Europa è completamente scomparsa qualunque seria riflessione in merito alle più importanti questioni internazionali, e persino i politologi più illustri e i giornalisti più autorevoli solo raramente sembrano possedere le capacità e le competenze per poter innescare un dibattito serio, analitico e scientifico e per fuoriuscire dai dogmatici presupposti positivistici di un ottocentesco suprematismo “morale” e “tecnico”, ormai completamente anacronistico e decadente. Se l’Europa non cambia rotta entro breve, recuperando le sue migliori qualità e ritagliandosi una sua posizione autonoma nella direzione del nuovo ordine multipolare in fieri, sbatteremo la testa contro il muro di un nuovo secolo tutt’altro che “americano”.


[1] G. DI FEO, Libia: la vera guerra italiana, L’Espresso, 27 ottobre 2011

[2] ITALIA-NEWS.IT, Libia, ministro La Russa: non siamo in guerra, è una missione ONU, 21 marzo 2011

[3] LIBERO-NEWS, Napolitano: “No allarmismi, non siamo in guerra”, 20 marzo 2011