LA RISCOPERTA DELLA SOVRANITA’, di Giuseppe Germinario

 

 

Da alcune settimane il tema della sovranità sta conquistando inaspettatamente spazi importanti sulla stampa quotidiana e settimanale. Personaggi insospettabili per il loro retroterra culturale ed ideologico, del calibro di Barbara Spinelli, di Gustavo Zagrebelsky, di Ernesto Galli Della Loggia hanno ripreso il tema, associandolo al popolo, alla nazione, raramente allo stato.

Una assoluta novità per un paese impegnato da tempo a nobilitare la propria subordinazione remissiva verso i paesi dominanti con l’illusione della “governance democratica mondiale” e a rimuovere la frustrazione da servilismo pontificando sulla crisi degli stati nazionali e sulle virtù e sui poteri annichilenti della globalizzazione.

Quanto meno la discussione sta strappando dal guscio della comoda retorica universalistica ed europeista, trita e ritrita negli ultimi cinquant’anni, tutti i fautori del dissolvimento apparente delle strategie politiche nell’internazionalismo delle regole e dei diritti individuali, confezionati ad usum delphini, nel complottismo e determinismo economicista.

Non che questi ultimi stiano perdendo vigore; certamente, però, l’evidenza della condizione penosa in cui si stanno trovando sia l’Europa ed i suoi stati, sia in particolare l’Italia, così gaudiosamente impegnata non solo nella rinuncia ad un ruolo autonomo ma nell’infierire su se stessa ed i pochi paesi amici del giorno prima, deve creare qualche imbarazzo e inquietudine tra gli apologeti, smarriti dall’eventualità di perdere una qualsivoglia moneta di scambio, anche la più scadente.

Se a questo aggiungiamo l’erosione carsica che probabilmente sta innescando qualche torrentello come il nostro blog e il disorientamento che cova in qualche settore soprattutto della destra, allora si potrebbe spiegare la novità.

Il dibattito sull’Europa certamente rappresenterà la cartina di tornasole che evidenzierà la forza, le debolezze e le mistificazioni degli argomenti sul tappeto, proprio perché l’Europa, o meglio l’Unione Europea, rappresenta la summa di queste mistificazioni e debolezze che stanno non solo sancendo il declino definitivo di un continente, ma che per qualche tempo hanno sviato e illuso i possibili protagonisti del multipolarismo incipiente, tra questi soprattutto l’Iran, la Russia, il Brasile ed in minor misura la Cina.

Questi ultimi ci hanno messo almeno un decennio a comprendere che l’Unione Europea è una entità priva di autorevolezza e sovranità, un semplice veicolo di dominio; hanno perso, quindi, anni preziosi ed energie vitali in tattiche evanescenti prima di tornare a misurarsi nuovamente, in condizioni di debolezza, con i detentori reali delle scelte strategiche.

Il dibattito sull’Europa rappresenta ancora il ricettacolo nel quale sinistra liberale, sinistra alternativista modaiola e liberisti, nella loro sfavillante contrapposizione, hanno in realtà trovato un insospettabile retroterra comune: l’indebolimento e il dissolvimento, per alcuni di essi però solo apparente, delle prerogative degli stati nazionali.

Sull’Europa si soffermeranno, quindi, in maniera approfondita i miei prossimi articoli; su Ernesto Galli Della Loggia, il giornalista-accademico, editorialista del Corriere, si soffermerà la mia attenzione in questo scritto.

Una attenzione dovuta sia al peso dei suoi argomenti, sia al pulpito da cui parla.

Dalla fine di gennaio il giornalista  ha speso, sul tema, almeno quattro editoriali.

Ha iniziato in sordina, il 31 gennaio, con una raccomandazione ai partiti a non rimuovere l’Italia dai loro programmi e con l’invito a partire da essa per arrivare ai massimi sistemi europei e mondiali, con un preludio in un altro articolo, già da me citato in altra sede, di critica al regime oligarchico, a metà strada tra democrazia e dittatura, vigente in Italia; ha proseguito poi con gli editoriali del sette e del dodici marzo, sino ad ora i più importanti.

Ne “il contenitore indispensabile” EGDL (Galli Della Loggia) sancisce che “ lo Stato nazionale è pur sempre l’unico contenitore possibile entro il quale possa esercitarsi l’autogoverno di una collettività. In una parola, la democrazia.”; “democrazia e Stato nazionale stanno insieme; se viene meno l’uno, appare destinata a venire meno anche l’altra”. La corrispondenza è univoca, non biunivoca, in ciò differenziandosi dagli apologeti più ossequiosi e demodè della civiltà occidentale, in realtà americana, ormai svuotati della loro duplice certezza dogmatica: la corrispondenza ottimale tra mercato e democrazia (occidentale) prima, tra stato nazionale e la stessa dopo.

EGDL, a ragione, si guarda bene dal definire nazionale la “sede sovranazionale europea”, tacciandola, quindi, di ademocratica ed antidemocratica, senza nemmeno concederle, ancora una volta a ragione, il contrappeso compensativo della parità di condizione della pletora di stati europei in essa associati.

La sovranità popolare democratica consentita dallo stato nazionale, contrapposta quindi all’affermazione della “volontà del più forte”, propria delle entità sovranazionali. Manca soltanto un passaggio logico e plausibile, nell’economia del ragionamento, per scatenare l’indignazione degli europeisti ideologizzati: l’assimilazione dell’Unione Europea a qualche forma di governo imperiale.

La conclusione logica, ma non esplicitata nell’articolo, porterebbe, quindi, a un qualche ritorno alle prerogative degli stati nazionali europei.

Nel “Ma la nazione siamo tutti noi” il giornalista tenta una prima sintesi del suo ragionamento. Conferma la relazione univoca quando afferma che “il volere delle maggioranze non potrebbe nulla senza il potere dello Stato sovrano. Sia logicamente che storicamente la sovranità popolare presuppone quella statale, e si costituisce facendosene l’erede”. La successione ereditaria avverrebbe in quanto “proprio in relazione alla forza minacciosa dello Stato sovrano che si è affermata la necessità «difensiva» costituita vuoi dalla divisione dei poteri dello stesso Stato, vuoi dalla garanzia dei diritti individuali di libertà” . La conclusione è, quindi, che “l’idea di nazione, infine, è sempre l’esercizio della sovranità popolare direttamente derivata da quella dello Stato, che ha rappresentato il presupposto storico che prima o poi è valso a porre all’ordine del giorno in tutti gli Stati nazionali il grande tema dell’eguaglianza delle condizioni tra tutti i cittadini” La dinamica politica porta quindi alla constatazione che “Democrazia e Stato nazionale sono cose per più aspetti sovrapposte. La spinta all’autogoverno non può nascere tra individui sparpagliati, che semplicemente «si conoscono». Può sorgere solo all’interno di una comunità data, di un demos” laddove “Nazione significa precisamente tutte queste premesse dell’autogoverno democratico: un «noi» che ci fa cosa diversa dagli «altri»“. Sono queste stesse premesse, a detta dell’autore, a rendere necessari ed ovvi i limiti, i confini e le barriere.

La polemica rivolta verso il cosmopolitismo senza patria è evidente, in particolar modo quello propinato dagli intellettuali e politici da periferia dell’impero.

La critica esercitata verso di essi,  per quanto benemerita, ha gioco sin troppo facile di fronte al  loro primitivismo, ma soffre, a mio parere, di evidenti lacune e salti logici.

Nei vari passaggi, infatti, non si riesce a comprendere come l’esercizio della sovranità possa trasferirsi o diffondersi, già qui una prima ambiguità, per successione dallo stato, alla nazione, al popolo. Se per lo stato questo esercizio è individuabile attraverso gli strumenti di cui dispone, le procedure che utilizza e la capacità coercitiva che riesce a realizzare, per la nazione e ancor di più per il popolo diventa alquanto nebuloso; tant’è che già nella vulgata dei manuali di educazione civica tale volontà può essere esercitata solo attraverso lo stato. Quello che esprime la nazione è, in realtà, l’identità di una comunità. Secondo Della Loggia “un demos per l’appunto, che si riconosca preliminarmente come tale. Cioè come un insieme di persone le quali – consapevoli di condividere un territorio, una storia, dei costumi, dei valori, e del legame che tale condivisione crea – decidono di volersi rendere padroni del proprio destino. Essendo poi in grado di mettere concretamente in pratica un tale autogoverno disponendo dello strumento indispensabile, cioè di un medium comunicativo adeguato, rappresentato da un comune linguaggio”. Ma, intanto, il “demos”, compreso quello contemporaneo, non è costituito da un insieme di singole persone impegnate a definire un contratto sociale e un linguaggio comune, ma da gruppi e gerarchie in rapporto e conflitto intanto tra di loro in uno spazio a sua volta da definire e, contestualmente, con l’esterno di quello spazio. Il linguaggio comune, Habermas con un termine più efficace e suggestivo lo ha definito “mondo vitale”, è il veicolo, il bagaglio e lo strumento rappresentativo che permette alle strategie di questi gruppi di trovare un percorso e un significato, di motivare e di dare efficacia positiva alle armi e alle risorse a disposizione, anche le più distruttive. La forza stessa lo modifica, ma senza di esso la forza sarebbe cieca e nichilistica, assimilabile alla natura. Se si andasse a vedere, dai primordi, il processo di formazione statale e nazionale nei due paesi antesignani degli odierni stati nazionali, la Francia dal VIII secolo e la Gran Bretagna dal XIII, sarebbero evidenti il legame con i diversi diritti di successione garantiti dai vari clan e la forza acquisita da alcuni di essi, la formazione delle élites attraverso i conflitti interni e tra i clan, la commistione di questi gruppi in alleanze, sorprendenti per i puristi delle ideologie, esterne con gli stessi infedeli e i barbari più vituperati; apparirebbe chiaro come gli stati si siano formati attraverso la sconfitta e l’inclusione dei gruppi e delle loro élites perdenti e al momento sottomesse in strutture regolate, dotate appunto di sempre maggiore sovranità, potere e forza e come le nazioni si siano formate attorno ad essi. Carl Schmitt, ma anche giovani contemporanei come Chauprade, hanno fatto notare spesso che la misura e la pervasività del potere attuale di uno stato, ormai attivo in tutti gli ambiti delle relazioni umane, farebbero letteralmente impallidire gli atti, pur nella loro forza arbitraria, di un qualsiasi imperatore e sovrano medioevale o di epoca moderna.

Tale misura crescente e tale pervasività lo fanno diventare sempre più allo stesso tempo terreno e risultato di conflitti e mediazioni tra élites, impegnate nella costruzione gerarchizzata di blocchi necessari a garantire il successo delle loro strategie e ai disegni di destrutturazione di quelli alternativi; a complicare ulteriormente il campo di analisi vi sono due fattori importantissimi.

Il primo, ormai del tutto evidente ed acquisito, è la connessione e la dipendenza stretta, l’integrazione di queste élites con quelle particolari operanti nello spazio esterno all’ambito di sovranità nazionale; fattore importante nel VIII secolo, essenziale nel mondo contemporaneo, con la differenza notevole che allora il barbaro era spesso un perfetto sconosciuto, mentre oggi è più semplice ipotizzare una sorta di “linguaggio comune” decisamente più fluido anche oltre il limes.

Il secondo  fattore, invece, è molto più difficile da focalizzare, se non impossibile in particolare da parte di chi vede lo Stato come un Moloch monolitico o come una struttura contrapposta alla “società civile”; le élites dello Stato sono parte integrante e determinante delle élites di potere capaci di elaborare ed attuare strategie in relazione conflittuale o collusiva tra di esse; le figure dello Stato sono parti, esse stesse di blocchi sociali aggregati e mutevoli; entrambe, però, agiscono con logiche particolari rispetto all’insieme di cui fanno parte, essenziali a loro volta da individuare. Sono argomenti sui quali, ad esempio, Gumplowitz, l’antesignano dei sociologi che vedono nel conflitto tra gruppi la dinamica evolutiva dello stato, ha glissato o che semplicemente non ha fatto in tempo ad affrontare.

Da queste particolarità scaturisce la rappresentazione, nel conflitto e nelle mediazioni, del “bene comune”, rappresentazione non semplicemente strumentale e ideologica, quest’ultima nella sua accezione riduttiva di costruzione di una immagine artefatta e strumentale ad una strategia.

Per tornare alla contingenza politica, quello della sovranità non è, soprattutto non sarà un argomento ad esclusivo appannaggio di quelle forze sovraniste che vedono nella costruzione di una formazione sociale con una sua forte identità ed una forza statuale e economica che viva soprattutto di energia propria la possibilità di affrancamento dagli attuali legami di dipendenza dagli Stati Uniti, senza per questo ridursi ad analoghe subalternità verso altri paesi emergenti, sempre che siano in grado questi ultimi di prevalere sull’attuale potenza dominante.

Sono sempre più numerosi, infatti, i politici e le eminenze grigie che dai pulpiti più sorprendenti cercano di confezionare una veste nazionale  su misura per le loro scelte.

Personaggi come Monti, De Benedetti paiono riscoprire i valori italici proprio in quegli ambiti dove risulta più evidente il loro disarmo senza condizioni; eccoli, quindi, richiamare Montezemolo ad una visione meno rapace del loro liberismo, la Germania di Merkel ad una adesione meno furba agli ideali europei e così via.

Pensar male si fa peccato, ma per una volta glisserò sulla perla di saggezza  distribuita da Andreotti un paio di decenni fa.

Si conceda la buona fede, aspettando gli sviluppi. Rispetto all’incalzare degli eventi, il tragitto da percorrere pare pressoché incolmabile e irto di ostacoli e di barriere poste, come se non ce ne fossero già abbastanza, dagli stessi illuminati.

Così Galli Della Loggia continua a ritenere che il Governo Monti sia la parabola necessaria alla resurrezione del paese; scopre la trappola dell’Unione Europea sovranazionale indicando nella Germania e, forse, nella Francia le uniche beneficiarie del vuoto pneumatico istituzionale europeo, ricreando quel guscio che nasconde il vero grande beneficiario d’Oltreatlantico; parla di un regime oligarchico imperante in Italia, una via di mezzo tra democrazia e dittatura, costituito da caste, burocrati e commis dediti all’esclusiva difesa delle proprie prerogative senza vederne i legami capillari e la subalternità costruiti in sessant’anni di onorato servizio nell’Alleanza Atlantica.

È il riflesso condizionato di chi continua a vedere strutture monolitiche al posto di fazioni e di élites in lotta, al posto di strutture che sono in realtà un colabrodo, con il risultato di concedere la patente di riformatori ai restauratori “politicamente corretti”.

Così tocca ascoltare da Barbara Spinelli l’accorato appello a che l’Europa si costituisca in Stato Federale sovrano e indipendente, pur nell’ottica di uno stato senza nazione; sia chiaro, però, non per forza e volontà di potenza propria, ma perché, bontà di tutti, gli Stati Uniti sono troppo oscillanti e incerti per condurre con chiarezza le danze e l’Europa ha il vantaggio di essere ormai un’area marginale adatta alle sperimentazioni istituzionali per disinteresse altrui e a beneficio eventuale dei posteri.

L’unione e la forza dei pusillanimi, insomma.

A sole venti righe di distanza devo riconsiderare positivamente la sagacia cardinalizia del pensiero andreottiano.

L’eventualità che il recupero in questi termini del tema della sovranità sia parte integrante del sostegno al dinamismo subalterno di questo governo pare più che fondata.

Il pallino del cambiamento, non della semplice restaurazione, è purtroppo saldamente in mano a questa leva di tecnocrati subalterni, gli eredi attempati dei “funzionari del capitale” e sta permettendo loro, rivelatisi una squadra al momento ben affiatata, di tracciare la strada per i prossimi anni.

Le evidenze sono ormai inquietanti: dalla Severino che ha prospettato ai ceti professionali autonomi classici un futuro di pubblici ufficiali, alla Fornero che sta ponendo le premesse di un conflitto aspro tra imprenditori medio-piccoli e dipendenti e di un precariato da terza età, senza alcun minimo disegno di accompagnamento graduale alla pensione della forza lavoro anziana e la contestuale salvaguardia del corrispondente patrimonio professionale, alle incursioni maramaldesche di Befera, allo snaturamento della funzione della residua grande industria ad opera di Monti e Passera, il campionario è vieppiù completo.

Con gli occhi puntati unicamente sul salasso fiscale e sulla potatura delle prestazioni redistributive (sanità e pensioni), l’attenzione è distolta da una politica recessiva e distruttiva di risorse produttive che renderà traumatiche le pesanti scremature legate alla riorganizzazione dello stato da qui ad un paio di anni.

Da un paese che in trent’anni, con la liquidazione dell’IRI, lo snaturamento di ENI, Finmeccanica ed ENEL e la liquidazione di una marginale grande industria privata minimamente presentabile (Pirelli, Montedison, Olivetti, ….), con l’affossamento di un qualsiasi progetto di scuola di pubblica amministrazione e management ha dismesso non solo gran parte del patrimonio industriale e di capacità operativa, ma la possibilità stessa di formazione di gruppi dirigenti di alto livello, abbassando con ciò sempre più il livello del bacino da cui attingere forze dirigenziali autonome e delegando il resto ad istituzioni legate a doppio filo alla scuola americana ed europeista, non ci si poteva aspettare altro.

Qua e là, sulla stampa, appaiono voci allarmate, a volte apocalittiche ma incostanti.

Le democrazie di tipo occidentale, lungi da essere state l’espressione della volontà sovrana del popolo, sono state un ottimo strumento di mediazione, di regolazione dei conflitti e di costruzione di una egemonia ed una identità nazionale in alcuni contesti; in altri, specie in alcune ex-colonie, sono state lo strumento delle peggiori e distruttive discriminazioni. Oggi appaiono un po’ dappertutto in crisi. L’Italia non fa eccezione.

Dalla padella del declino delle democrazie parlamentari, si rischia, però, di ricadere nella brace dei nazionalismi esasperati e del grigio collettivismo dei funzionari, quest’ultimo alquanto illusorio nelle reali possibilità di riproposizione.

Il blog, in primo luogo La Grassa, sta cercando di costruire delle chiavi interpretative che permettano di individuare i flussi contrastanti in una possente corrente apparentemente fluida. Attraverso l’acqua torbida deve cercare di scorgere le irregolarità dei fondali e delle sponde, la diversità delle temperature e delle composizioni per comprendere la causa e la logica della dinamica conflittuale dei fluidi.

Con questa visione, l’analisi dello Stato e del conflitto di strategie assumono sembianze più promettenti.

Gli stessi strati popolari possono trovare, in questo ambito, una collocazione allo stesso tempo più favorevole e realistica, meno soggetta alle suggestioni populistiche e demagogiche di chi vuole accorparle indistintamente in una comunità per poi nulla concedere  o di chi vuole assegnare loro un ruolo egemone e di dominio del tutto velleitario e mistificatorio rispetto alle competenze necessarie richieste dall’esercizio della funzione.

Anziché liquidare sommariamente  i nuovi illuminati, bisogna costringerli a seguire questa strada. Dopo tutto hanno il pregio di aver spostato, quanto meno, almeno parzialmente i termini del dibattito su un terreno a noi più congeniale. Con avversari più agguerriti, miglioreremo anche noi….o soccomberemo meritatamente.

 

http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_12/ma-la-nazione-siamo-tutti-noi-ernesto-galli-della-loggia_f4ad7fb4-6c0c-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml

http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_07/della-loggia-contenitore-indispensabile_de6ee90c-681c-11e1-864f-609f02e90fa8.shtml

 

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_20/supercasta-galli-della-loggia_022dd928-4330-11e1-8047-0b06b4bf3f34.shtml

 

http://www.repubblica.it/politica/2012/03/07/news/spinelli_europa-31078525/index.html?ref=search