TRANSIZIONE, DUNQUE INCERTEZZA DEL FUTURO di Giellegi il 17 maggio 2012
1. A fine pezzo sono riportati due link che, assieme all’art. già riportato circa le mire del Qatar sull’Eni, dimostrano alcune “cosette”. Intanto è ora di finirla con la semplice agitazione sulla finanza (la cattiveria dei banchieri), le borse, lo spread, ecc. La vera crisi, sempre più profonda, è quella dell’economia detta “reale” (il Pil, la disoccupazione di forza lavoro, e via dicendo); e questa si inserisce certamente in una crisi più generale, mondiale (salvo alcune “economie emergenti”, cioè alcune potenze in crescita), ma sconta in Italia il crollo verticale di una minima autonomia del paese, e quindi anche del suo sistema economico-produttivo, conseguenza del concomitante disfacimento di quel debole, e troppo rachitico, “asse” formatosi tra Russia, Italia e Libia (dopo il passaggio di Putin in Sardegna da Berlusconi nell’agosto 2003, di ritorno dai paesi nord-africani). Quell’asse è stato probabilmente alimentato da interessi troppo personali e si è miseramente afflosciato per l’assoluta meschinità e autentica vigliaccheria di uno dei partecipanti (non credo ci sia bisogno di nominarlo), non però supportato, almeno ne ho l’impressione, da chi poteva farlo (la Russia, del tutto assente e quasi muta sulla crisi libica, vero punto di svolta anche dello sfascio italiano).
Gli altri documenti, interessanti le nostre aziende di punta indispensabili per ogni possibile resistenza al suddetto crollo di sovranità, sono ambigui e di lettura non facile, resa tale pure dalla inettitudine e, soprattutto, “codismo” dei giornalisti. Tuttavia, si capisce egualmente che si sono assestati a tali aziende duri colpi. Lo si maschera o attraverso una difesa, assurda nella sua poca credibilità, in merito all’attuazione non sempre “ortodossa” di strategie (politiche tour court) imprenditoriali – chiunque sappia qualcosa di industria non può che restare allibito per simili giri di parole atti a nascondere quello che è normalissimo, anzi utile e indispensabile, si faccia – o mediante una caterva di considerazione pseudo-economiche per far credere che tutta l’attività di imprese, decisive per la forza di un sistema produttivo, si giochi sulla competitività nel “libero mercato” come sostenuto dai meschini “liberisti”.
Inutile ripetere quanto già chiarito circa gli equivoci della distinzione tra pubblico e privato quando si tratti di decidere se dati settori produttivi sono confacenti o meno agli interessi fondamentali di un paese; e non perché essi si adeguino o meno agli interessi dei “consumatori” (con la balla di minori prezzi di prodotti e servizi, diminuzioni mai viste né prevedibili), bensì in base alla valutazione circa la loro congruità rispetto al rafforzamento dell’intero sistema/paese. Quest’ultimo non è un semplice sistema economico, ma un “singolare” insediamento geografico-sociale (e politico, almeno dovrebbe essere pure politico) che ha una sua specificità in termini di lingua, costumi, tradizioni, modi di vita, cultura in generale. Nell’epoca del capitalismo, il sistema economico ha una sua specifica valenza nel determinare la forza del sistema/paese. E tale forza è certo in relazione alla struttura del sistema economico, in cui devono avere largo spazio ed essere privilegiati i settori detti “di punta”, quelli che attribuiscono maggiore impulso (e penetrazione verso l’esterno) all’insieme del paese.
Sono proprio queste punte ad essere smussate dai gruppi dominanti italiani (che definisco subdominanti), interessati invece allo sviluppo dei settori complementari ad un altro sistema/paese predominante. La sub o predominanza si gioca prevalentemente sul terreno della politica, in quanto strategia di attacco o difesa, in cui appunto si confrontano coloro che trovano il proprio interesse nell’affermarsi del proprio sistema/paese e quelli (i “cotonieri”) che invece trovano vantaggio nella dipendenza da un altro. Il sistema economico, per la rilevanza che ha in una forma capitalistica di società, è strumento importante per l’attuazione di questa o quella politica, di una politica di indipendenza o invece di asservimento; ma è strumento, solo strumento, guai ad erigerlo quale scopo di un’azione politica, che allora è solo il mascheramento dei “cotonieri” per nascondere la loro subalternità e fellonia.
2. In linea di principio, nemmeno è decisivo se la produzione dei settori di punta attiene all’ambito militare o civile. Solo gli imbelli pacifisti – altri emeriti imbroglioni che abbiamo visto in azione durante la “primavera araba” e l’infame massacro della Libia e del suo leader, assassinato e brutalizzato con metodi su cui questi mentitori e demagoghi hanno come minimo sorvolato – tentano ad es. di distruggere la Finmeccanica con la scusa delle sue tecnologicamente avanzate produzioni belliche; oggi, appunto, in via di essere abbandonate. Quasi sempre, in realtà, la spinta impressa alla ricerca dalle esigenze militari è molto forte e porta a soluzioni tecniche che poi hanno notevoli ricadute nel campo della produzione detta civile. Ancora una volta, i retrogradi liberisti hanno spiegato a modo loro l’incapacità, dimostrata dall’Urss a suo tempo, di effettuare il trasferimento dal militare al civile, del tutto normale invece nella formazione capitalistica.
La colpa viene attribuita allo Stato accentratore perché proprietario di tutti i mezzi produttivi. Non è così e basterebbe un po’ meno di superficialità e di ignoranza per afferrare le linee generali del problema. L’Urss si formò in seguito ad una rivoluzione che si pretese proletaria, e vide comunque la direzione bolscevica di imponenti masse (poco operaie e però molto contadine). Dopo essere rimasta sola come “paese della rivoluzione”, l’Unione Sovietica dovette impostare un vasto e intenso processo di “accumulazione originaria” e di ultra-accelerata trasformazione industriale. In dieci anni realizzò un risultato per il quale in altri paesi c’erano voluti decenni e decenni se non secoli. In questo processo, di cui la pianificazione centrale fu un elemento, si crearono grandi Kombinat, pesanti complessi di imprese produttive, i cui vertici non erano molto manageriali bensì invischiati nel complicato gioco politico all’interno del partito, unico ma con più “punti” (centri) di potere, per quanto apparentemente unificati sotto la direzione del “grande capo”. I vertici aziendali tenevano i collegamenti con i sindacati, cinghia di trasmissione tra partito (i suoi alti dirigenti) e gli operai da indottrinare e da “coccolare” onde mantenere quel blocco sociale, di cui parlò Bettelheim (partito verticistico e masse “proletarie”), con cui tenere a bada il crescente ceto medio, tipico prodotto di ogni industrializzazione.
Tutto ciò ha creato cristallizzazione, staticità, tendenziale mancanza di iniziativa manageriale, impasse del sistema economico, conservatorismo sociale, immobilità politica (in superficie, mentre le lotte si scatenavano a livello di “complotti segreti” con soluzioni drastiche). Lo sviluppo si impantanò progressivamente e le uscite tentate (prima da Krusciov e poi da Gorbaciov) furono disastrose, incapaci di affrontare il passaggio ad una “struttura” sociale assai più flessibile perché articolata non in modo democratico, secondo le panzane raccontate dall’ideologia “occidentale”, bensì quale intreccio di più centri di potere relativamente autonomi ed in contrasto fra loro, portatori di soluzioni diverse dei vari problemi che la crescita tumultuosa di una società come quella moderna pone; soluzioni diverse entro un alveo comune che non lascia certo le massime decisioni alle “grandi masse”. In tale contesto, fra l’altro, anche le sfere sociali dell’economia, della politica (non delle strategie, non della Politica in senso stretto e alto, ma degli apparati statali e degli enti “pubblici”), delle ideologie e cultura in generale, sono fra loro relativamente autonome e creano la sensazione di una grande varietà di proposte e progetti sottoposti ad ampia discussione (il 90% della quale è pura fumosità di ceti intellettuali e giornalistici chiacchieroni e imbonitori). Il tutto contribuisce però al dinamismo, all’addestramento di personale tra cui emergono pure dirigenti capaci e in grado di condurre i loro affari.
Ritornando al problema centrale, la scelta tra forma (giuridica) della proprietà privata o pubblica, nonché dell’ambito militare e/o civile in merito agli indirizzi produttivi nei settori (e imprese) “di punta”, va effettuata in base alla struttura prevalente nel paese in cui sussistono diversi gruppi dominanti con differente potere decisionale. Se risultano preminenti le decisioni dei “cotonieri”, è inutile farsi illusioni; ed è una farsa dei “liberisti” quella dei vantaggi economici – per gli azionisti delle imprese in armonia con quelli dei cittadini in quanto consumatori – cui sarebbe indirizzata l’azione “benefica” degli imprenditori se non fosse ostacolata dalla politica dello Stato, giudicata almeno tendenzialmente corrompibile e quanto meno di ostacolo al funzionamento delle “oggettive” e “virtuose” leggi economiche mercantili.
Non dico che tutti i liberisti siano in mala fede né che sostengano tesi sempre sballate. Tuttavia, non è più accettabile che ancora si ripetano – e spesso da parte degli stessi individui che accusano i marxisti di determinismo economicistico – considerazioni puramente economiche sulla crisi in corso; e si propugnino soluzioni che non tengono in alcun conto gli elementi fondamentali dei rapporti di forza (geo)politici, la s-regolazione mondiale sostituitasi a quel minimo di regolazione (da parte degli Usa) nel “campo capitalistico occidentale” che aveva fatto pensare alla fine delle crisi e all’instaurarsi di semplici recessioni. E’ del tutto evidente che siamo di nuovo in una fase storica di s-regolazione (la deregulation appunto tanto osannata dai liberisti come il non plus ultra della politica di crescita economica e, soprattutto, sociale e “democratica”).
3. E’ indispensabile tornare alla politica, alle strategie che vengono applicate dai vari paesi. In base al semplice miraggio economicistico è stata creata una Unione Europea e, al suo interno, un’area a moneta unica. E’ evidente che si è trattato di un’unificazione fasulla, basata sulla prosecuzione di una sudditanza agli Usa (tramite anche un patto militare) come si fosse ancora nel mondo bipolare. Ci si è storditi con le fanfaluche circa la fine, e quindi inutilità (anzi dannosità), degli Stati nazionali, mentre ormai il problema sarebbe stato la competizione nel mercato globale. I presunti critici anticapitalistici hanno coadiuvato queste tesi dei dominanti (in particolare dei predominanti statunitensi), cianciando di controllo dei mercati da parte di grandi imprese transnazionali, tesi da cui gli apologeti hanno tratto false credenze in merito al formarsi di una “classe” dirigente cosmopolita, unita dall’inglese e perfettamente impermeabile al dominio di questo o quel paese “capitalisticamente avanzato” poiché interessata all’efficienza produttiva e alla fattiva cooperazione.
Alcuni vecchi arnesi, passati sempre per “rivoluzionari”, hanno continuato con la solfa dell’imperialismo – ormai tralignato da anni nella sua identificazione (d’origine kautskiana) con il colonialismo – continuando di fatto a predicare nuove forme di “terzomondismo” e prendendo per rivoluzione anticapitalistica qualsiasi lotta si verificasse (e si verifichi) nel mondo “sottosviluppato” (o meno sviluppato), dove nemmeno si stanno affermando, come un tempo, neoborghesie indipendentiste, ma semplici populismi guidati da qualche “caudillo” (e nel migliore dei casi); così molti sono caduti in pieno nella trappola della nuova strategia statunitense tesa a riverniciare vecchi regimi attraverso “rivoluzioni” del tipo di quelle “arabe”; e ciò mette la parola fine al vecchio antimperialismo incapace di ripensare la questione della lotta tra potenze sia pure ancora fortemente squilibrata a favore degli Usa.
E’ oggi necessario imprimere una drastica virata a tutte le vecchie teorie, a tutti gli “ismi” del passato. Non si tratta di perdere la memoria storica. Più volte ho messo in luce la somiglianza dell’attuale crisi con quella di fine ‘800, che vedeva ancora l’Inghilterra in auge ma, con il senno di poi, in declino e “assediata” dalle nuove potenze in crescita. Così pure attribuisco importanza alla lotta tra “ricardiani” e “listiani”; anche se Ricardo è considerato, e penso a ragione, un pensatore e studioso di maggiore livello, non vi è dubbio che sono le tesi del secondo ad aver avuto ragione nel formarsi di potenze quali gli Stati Uniti (la cui forza, divenuta infine preminente, ha preso inizio dalla “guerra civile o di secessione”) e la Germania. Importante è anche ristudiare la crisi del ’29, che è in realtà, nel suo aspetto più sconvolgente e drammatico, crisi del ’31-’32; e che si è risolta solo con la seconda guerra mondiale. Non faccio però tali affermazioni, e non chiedo che si ristudino quei periodi, per trarne pari pari le lezioni per il presente.
Quelle epoche sono comunque irrimediabilmente passate; è finito il cosiddetto “movimento operaio”, sono finite le vecchie guerre di indipendenza o, in altri paesi e in altri tempi, di liberazione nazionale; finita la decolonizzazione e la lotta antimperialista che, lo ribadisco, è stata trattata (in chiave terzomondista) da mera lotta anticoloniale, quindi con grave scadimento rispetto alla più vecchia impostazione leniniana. Tuttavia, tale scadimento implica l’acquisizione della consapevolezza – che non avemmo a suo tempo – della fine di un’epoca, del trapasso doloroso a qualcosa di molto diverso che ancora ci appare sconosciuto. Lancio solo un’ideuzza: la transizione dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale (definizione del resto generica, di massima, che aspetta una sua più precisa “astrazione scientifica”) ha visto il gonfiarsi del “ceto medio”, altra dizione generica per indicare una realtà molto variegata. E’ questa espansione che ha decretato la fine del “socialismo reale”, arrestatosi all’ideologia della rivoluzione (e “dittatura”) del proletariato. E’ il ceto medio che vede prodursi una situazione non semplicemente complessa, ma proprio molto confusa in senso sociale, nei paesi dell’area capitalistica detta avanzata.
Siamo in forte deficit di analisi. Il ceto intellettuale, anche quello che si crede critico, è in realtà in completa bancarotta, ha abbandonato l’idea di una minima comprensione del mondo tramite l’analisi attenta degli svolgimenti in atto; preferisce darsi a dotte elucubrazioni, producendo idee che fanno della società umana una sorta di “polenta pasticciata”, di cui si può impunemente predicare ciò che si vuole, facendosi passare per pensatori “complessi”, mentre si è solo confusionari. Intendiamoci: siamo tutti confusionari, ma c’è chi se ne bea (perché, appunto, crede che la complessità sia un valore assoluto, la via verso la “verità”) e chi si rende conto che stiamo affondando nelle sabbie mobili di un pensiero senza più ordine né logica. Soprattutto un pensiero che non comprende la necessità dell’astrazione semplificante, non per stabilire “la verità”, ma solo per poter compiere qualche passo nell’azione tendente a poi correggersi secondo la normale prassi del “sbagliando s’impara”. In ogni caso, è indispensabile ripristinare una conoscenza storica di alcuni importanti periodi del passato abbastanza recente (anche l’800 è a mio avviso da ritenersi tale); e tuttavia, avere coscienza che si stanno producendo processi, in specie sociali, nuovi e molto poco analizzati. Per il momento è tutto. Da qui riprenderà sovente, in futuro, il nostro discorso.