MUOIA L’ITALIA ED I SUOI FILISTEI

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Quando un Paese si trova in crisi di sovranità, a cagione di scelte politiche ed economiche autolesionistiche – compiute da governanti privi di coraggio e di larghi orizzonti che si fanno condizionare da minacce e pressioni internazionali – il suo apparato statale inizia a sfaldarsi, i suoi corpi  istituzionali entrano in una competizione dissolutiva, perdendo di vista i limiti dei loro compiti e dei loro conflitti, e la sua capacità di reagire alle mutazioni dell’ambiente esterno diviene debole ed incoerente, svuotandosi progressivamente di realismo.

Lo Stato di una siffatta formazione sociale rinuncia, in tal maniera, alle sue peculiarità strategiche e si tramuta, in tutti i settori, in una macchina amministrativa inefficiente, dal funzionamento disordinato e scriteriato, che tenta di gestire (senza riuscirci) l’emergenza ricorrendo alla liquidazione dei suoi asset fondamentali e coprendo la sua inettitudine con menzogne ideologiche, sconfessate dalla situazione storica. Diversamente, per esempio, è difficile spiegarsi le persecuzioni giudiziarie contro le nostre imprese di punta, vedi Eni e Finmeccanica, che preludono al loro smembramento, con cessione di rami di attività, tecnologicamente importanti, a stranieri assetati di profitti e di posizioni dominanti, in nome del mercato e della libera concorrenza.

In queste circostanze critiche, esso non riesce a conservare le sue esclusive prerogative, di comando, di selezione delle decisioni, di sintesi sociale, di convogliamento del consenso  ed è costretto a cedere fette sempre più ampie di sovranità  agli organismi extraterritoriali (sperando di preservare un certo ordine interno, scaricando fuori dai confini le sue responsabilità) e a liquidare i suoi beni strategici  (per placare le scorrerie finanziarie con atti di sottomissione volontaria). Tanto una cosa che l’altra peggiorano la sua condizione di soggezione, esponendolo ad attacchi ancora più spregiudicati e disintegrativi.

Di questo fenomeno decostruttivo, che riguarda l’autodeterminazione stessa del corpo collettivo nazionale, viene data una lettura carnevalesca dai media, dalla stampa e dalla stessa classe (ormai non più) dirigente che  tende a differenziarsi in se stessa su basi psicologiche e soggettive, interpretando capziosamente la débâcle sistemica come l’effetto di un decadimento spirituale degli uomini dei suoi ranghi, facilmente isolabili e punibili. E poco importa che il malcostume sia esteso a tutto il regime politico, poiché ponendosi su un simile terreno settario è impossibile leggere la gravità degli eventi. La politica decade allora ad atto di purificazione fideistica, a disputa teologica tra bene e male che, in una speranza ingenua e vana, esito di una fede cieca ed antistorica, dovrà necessariamente concludersi la vittoria dei buoni sui lestofanti.

Inizia così la caccia alle streghe degli apprendisti stregoni che inseguono una infattibile rinascita morale (suddivisi tra chi ci crede veramente in quello che fa e chi cavalca subdolamente gli umori popolari), i quali anziché riuscire nell’intento di ristabilire i fantomatici valori dell’etica pubblica e della rettitudine personale, si ritrovano, presto o tardi, essi stessi ad essere accusati di aver contribuito, direttamente o indirettamente, alla degenerazione (in)civile, quanto meno per non aver saputo individuare e marginalizzare le mele marce. Insomma, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura.

Inoltre la  crisi sovrana si  presenta , come già sapeva Gramsci, “nella  sempre  crescente  difficoltà  di  formare  i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi  stessi:  essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi  partiti  (si  verifica  cioè  nell’interno  di  ogni  partito  ciò  che  si  verifica  nell’intero  parlamento: difficoltà di governo e instabilità di direzione). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni frazione di partito crede di avere la ricetta infallibile  per  arrestare  l’indebolimento  dell’intero  partito,  e  ricorre  a  ogni  mezzo  per  averne  la direzione  o  almeno  per  partecipare  alla  direzione,  così  come  nel  parlamento  il  partito  crede  di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno pretende, per dare l’appoggio al  governo,  di  doverci  partecipare  il  più  largamente  possibile;  quindi  contrattazioni  cavillose  e minuziose,  che  non  possono  non  essere  personalistiche  in  modo  da  apparire  scandalose,  e  che spesso sono infide e perfide. Forse, nella realtà, la corruzione personale è minore di quanto appare, perché  tutto  l’organismo  politico  è  corrotto  dallo  sfacelo  della  funzione  egemonica.  Che  gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere e proclamino a gran voce che si tratta della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principii» (immortali o no),  potrebbe  anche  essere  giustificato:  ognuno  è  il  giudice  migliore  nella  scelta  delle  armi ideologiche  che  sono  più  appropriate  ai  fini  che  vuol  raggiungere  e  la  demagogia  può  essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto il cervello”.

Questo paragrafo sembra descrivere perfettamente la nostra fase, a fortiori ratione quando il pensatore sardo aggiunge che: “ l’unità  e  omogeneità  del  gruppo  dirigente [si pensi al nocciolo duro dei principali partiti del nostro presente]  è  una  grande  forza,  ma  di carattere  settario  e  massonico,  non  di  un  grande  partito  di  governo.  Il  linguaggio  politico  è diventato un gergo, si è formata l’atmosfera di una conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensare più”. E, di fatti, i protagonisti, singoli e collettivi, del nostro arco costituzionale, benché rei di vent’anni di sfaceli, non si ritengono colpevoli delle devastazioni (che attribuiscono alle controparte parlamentare) e si dicono in grado d’invertire la rotta, nonostante ci abbiano provato in più occasioni, senza mai farcela. Et pour cause. Questo, appunto, non accadrà perché è l’irrigidimento delle loro convinzioni ideologiche, l’inabilità a comprendere le trasformazioni vorticose sulla scacchiera globale, l’irrisolutezza nel prendere atto dei cambiamenti e del peso dei nuovi rapporti di forza mondiali, a riportarli sempre alla medesima impotenza intrinseca e dipendenza estrinseca. A ciò, si unisca anche la ricattabilità di molti di loro che devono carriera e risorse alle trasferte oltreoceaniche e alle autorità di spicco incontrate in questi giri ed avrete di fronte un panorama mortificante. Ci salveremo? Difficile dirlo, ma finché saranno detti filistei a tenere in mano i destini della Penisola non possiamo nutrire alcuna speranza di scampo. Ci aspettano tempi bui e pericolosi, ed è possibile che per rivedere la luce debba morire l’Italia insieme ai suoi filistei. Poi, forse, si potrà ripartire ma dalle macerie lasciateci in eredità da una generazione politica vergognosa ed inscusabile.