LE CONSEGUENZE DELL’INTERVENTO IN SIRIA
[Tradotto da Alfredo Musto e pubblicato su autorizzazione di Stratfor: “The Consequences of Intervening in Syria]
L’attuale campagna militare francese per eliminare i militanti jihadisti dal nord del Mali ed il recente attacco di alto profilo contro un impianto di gas naturale in Algeria sono entrambi direttamente collegati all’intervento straniero in Libia che rovesciò il regime di Gheddafi. Vi è anche una forte connessione tra questi eventi e la decisione delle potenze straniere di non intervenire in Mali quando l’esercito condusse un colpo di stato nel marzo 2012. Il colpo di stato si verificò quando migliaia di membri Tuareg ben armati stavano tornando a casa nel nord del Mali dopo aver prestato servizio nelle forze armate di Muammar Gheddafi, ed il confluire di questi eventi ha comportato un’implosione dell’esercito maliano e un vuoto di potere nel nord. Al Qaeda nel Maghreb islamico e altri jihadisti sono stati in grado di approfittare di questa situazione per prendere il potere nella parte settentrionale della nazione africana.
Mentre si verificano tutti questi eventi nel nordafrica, un altro tipo di intervento straniero è in corso in Siria. Invece di un intervento militare straniero diretto, come quello preso contro il regime di Gheddafi in Libia nel 2011, o la mancanza di intervento vista nel Mali nel Marzo 2012, l’Occidente – e i suoi partner mediorientali – hanno perseguito una via di mezzo in Siria. Cioè, queste potenze stanno fornendo aiuto logistico alle varie fazioni ribelli siriane, ma non intervengono direttamente. Così come ci sono state ripercussioni per la decisione di condurre un intervento diretto in Libia e di non intervenire in Mali, ci saranno ripercussioni per l’approccio parziale dell’intervento in Siria. Tali conseguenze stanno diventando sempre più evidenti al trascinarsi della crisi.
L’intervento in Siria
Da più di un anno ormai, paesi come Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Qatar e gli stati europei stanno fornendo aiuti ai ribelli siriani. Gran parte di questo aiuto è stato sotto forma di assistenza umanitaria, fornendo per esempio riparo, cibo e medicinali ai rifugiati. Un altro aiuto ai ribelli è giunto con forniture militari non letali, come radio e giubbotti antiproiettile. Ma una disamina delle armi individuate sul campo di battaglia rivela che i ribelli stanno anche ricevendo un numero crescente di forniture letali. Per esempio, ci sono numerosi video rilasciati che mostrano ribelli siriani con armi come il lanciarazzi M79 Osa, l’RPG-22, il fucile M-60 e il lanciagranate multiplo RBG-6. Il governo siriano ha anche rilasciato video di queste armi dopo che sono state prese nei depositi. Ciò che è così interessante di queste armi è che non erano nell’inventario dell’esercito siriano prima della crisi, e tutte probabilmente sono state acquistate dalla Croazia. Abbiamo anche visto molti report e foto di ribelli siriani che trasportavano fucili austriaci Steyr Aug, e il governo svizzero ha protestato per il fatto che bombe a mano costruite in Svizzera e vendute agli Emirati Arabi Uniti stiano andando ai ribelli siriani. Con i gruppi ribelli siriani che utilizzano prevalentemente armi di seconda mano della regione, le armi catturate dal regime, o un assortimento di strani ordigni che essi stessi hanno prodotto, la comparsa e la diffusione di queste armi esogene negli arsenali ribelli nel corso degli ultimi mesi è a prima vista la prova di una fornitura esterna di armi. La comparsa di un singolo Steyr Aug o RBG-6 sul campo di battaglia potrebbe essere un’interessante anomalia, ma la varietà e la concentrazione di queste armi viste in Siria sono ben oltre il punto in cui potrebbero essere considerate casuali. Ciò significa che l’attuale livello dell’intervento esterno in Siria è simile al livello esercitato contro l’Unione Sovietica ed i suoi alleati comunisti dopo l’intervento sovietico in Afghanistan. I sostenitori esterni stanno fornendo non solo formazione, intelligence e assistenza, ma anche armi – armi esogene che rendono il rifornimento esterno evidente al mondo. E’ interessante anche il fatto che in Siria, come in Afghanistan, due dei maggiori sostenitori esterni siano Washington e Riyadh – anche se in Siria si sono uniti a potenze regionali come Turchia, Giordania, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, in luogo del Pakistan. In Afghanistan, i sauditi e gli americani lasciarono determinare ai loro partner dell’Inter-Services Intelligence Agency in Pakistan quali della miriade di gruppi militanti in Afghanistan dovessero ricevere la maggior parte dei fondi e delle armi che essi fornivano. Ciò comportò due cose. In primo luogo, i pakistani finanziarono e armarono i gruppi che pensavano di poter meglio utilizzare come surrogati in Afghanistan dopo il ritiro sovietico. In secondo luogo, essi pragmaticamente tendevano a incanalare denaro e armi verso i gruppi che erano più apprezzati sul campo di battaglia – gruppi come quelli guidati da Gulbuddin Hekmatyar e Jalaluddin Haqqani, la cui efficacia era legata direttamente alla loro teologia zelante che proclamava il jihad contro gli infedeli un dovere religioso e la morte durante tale lotta la realizzazione finale.
Un processo simile è in atto da quasi due anni in Siria. I gruppi di opposizione che sono stati più efficaci sul campo tendono ad essere gruppi di orientamento jihadista come al-Jabhat Nusra. Non a caso, una delle ragioni della loro efficacia è stata la competenza e la tattica che hanno imparato combattendo le forze della coalizione in Iraq. Eppure, nonostante questo, i sauditi – insieme ai qatarioti e agli emirati – stanno armando e finanziando i gruppi jihadisti in gran parte a causa del loro successo sul campo. Come ha rilevato il mio collega Kamran Bokhari nel mese di Febbraio 2012, la situazione in Siria stava offrendo una possibilità agli jihadisti, anche senza supporto esterno. Nel paesaggio frammentato dell’opposizione siriana, l’unità d’intenti e l’efficacia in battaglia degli jihadisti erano di per sé sufficienti a garantire che questi gruppi attirassero un gran numero di nuove reclute. Ma questo non è l’unico fattore favorevole alla radicalizzazione dei ribelli siriani.
In primo luogo, la guerra – e in particolare una brutale, estenuante guerra – tende a rendere estremisti i combattenti coinvolti. Si pensi a Stalingrado, alle lotte della Guerra Fredda in America Centrale o la pulizia etnica nei Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia; questo grado di lotta e sofferenza tende a rendere anche i non-ideologici persone ideologiche. In Siria abbiamo visto molti musulmani laici diventare rigidi jihadisti.
In secondo luogo, la mancanza di speranza di un intervento da parte dell’Occidente ha rimosso qualsiasi sforzo per il mantenimento di una ”narrazione laica”. Molti combattenti che avevano riposto le loro speranze nella NATO sono rimasti piuttosto delusi e irritati che la loro sofferenza sia stata ignorata. Non è insolito per i combattenti siriani dire qualcosa di simile a: “Cosa ha fatto l’Occidente per noi? Ora abbiamo solo Dio“.
Quando questi fattori ideologici sono stati combinati con l’infusione di denaro e armi che è stata incanalata verso i gruppi jihadisti in Siria lo scorso anno, la loro crescita si è accelerata notevolmente. Non solo sono oggi un fattore sul campo, ma saranno anche una forza da non sottovalutare per il futuro.
Lo zampino saudita
Nonostante la vampata di ritorno jihadista che i sauditi hanno sperimentato dopo la fine della guerra contro i sovietici in Afghanistan – e la lezione attuale in Siria dove jihadisti inviati a combattere le forze Usa in Iraq ora guidano gruppi come Jabhat al-Nusra – il governo saudita apparentemente ha calcolato che il suo uso di forze jihadiste in Siria vale il rischio. Ci sono alcuni vantaggi immediati per Riyadh. In primo luogo, i sauditi sperano di essere in grado di rompere l’arco di influenza sciita che va dall’Iran, attraverso l’Iraq e la Siria, al Libano. Dopo aver perso il contrappeso sunnita al potere iraniano nella regione con la caduta di Saddam Hussein in Iraq e l’installazione di un governo a guida sciita che guarda all’Iran, i sauditi vedono la possibilità di installare un regime amico sunnita in Siria come un notevole miglioramento per la loro sicurezza nazionale. Sostenere il jihad in Siria come arma contro l’influenza iraniana dà anche ai sauditi la possibilità di “lucidare” le loro credenziali islamiche all’interno, nel tentativo di aiutare ad evitare le critiche di essere troppo laici e occidentalizzati. Permette al regime saudita l’opportunità di dimostrare che sta aiutando i musulmani sotto attacco da parte del feroce regime siriano. Supportare i jihadisti in Siria dà anche la possibilità di inviare i loro elementi radicali in Siria, dove possono combattere e possibilmente morire. Con un gran numero di disoccupati, sottoccupati e giovani uomini radicalizzatisi, il jihad in Siria offre una valvola di sfogo simile alle passate lotte in Iraq, Cecenia, Bosnia e Afghanistan.
I sauditi non solo stanno cercando di allontanare la loro gioventù travagliata, abbiamo ricevuto rapporti da una fonte credibile che essi stanno anche agevolando degli spostamenti di yemeniti nei campi di addestramento in Turchia, dove sono addestrati ed equipaggiati, prima di essere inviati in Siria a combattere. Le relazioni indicano anche che i giovani viaggiano gratis e ricevono uno stipendio per il loro servizio. Questi giovani radicali dall’Arabia Saudita e dallo Yemen rafforzeranno ulteriormente i gruppi jihadisti in Siria, fornendo loro truppe fresche. I sauditi stanno guadagnando temporanei benefici interni nel sostenere il jihad in Siria, ma il conflitto non durerà per sempre, né potrà comportare la morte di tutti i giovani che vi si recano a combattere. Ciò significa che gli uomini che sopravvivranno, un giorno torneranno a casa e attraverso un processo che noi chiamiamo di “darwinismo tattico“, i combattenti inetti saranno stati eliminati, lasciando un nucleo di miliziani capaci con cui i sauditi dovranno avere a che fare.
Ma i problemi posti dai jihadisti in Siria avranno effetti al di fuori della Casa dei Saud. I jihadisti siriani rappresenteranno una minaccia per la stabilità della Siria più o meno allo stesso modo dei gruppi afghani nella guerra civile intrapresa per il controllo dell’Afghanistan dopo la caduta del regime di Najibullah. In effetti, la violenza in Afghanistan è peggiorata dopo la caduta di Najibullah nel 1992, e la sofferenza patita dai civili afghani, in particolare, è stata enorme. Ora stiamo vedendo che i militanti jihadisti in Libia costituiscono una minaccia non solo per il regime libico – ci sono gravi problemi nella Libia orientale – ma anche per gli interessi stranieri nel paese, come si è visto nell’attacco all’ambasciatore britannico e alla missione diplomatica americana a Bengasi. Inoltre, gli eventi negli ultimi mesi in Mali e in Algeria dimostrano che i miliziani di base in Libia e le armi che possiedono sono anche una minaccia regionale. Ci si può aspettare che simili ripercussioni di lunga durata e di ampio raggio derivino dall’intervento in Siria.