IN RICORDO DI ANDREOTTI

ANDREOTTI

Amo così tanto la Germania che vorrei vederne due”. Questo fu il commento di Giulio Andreotti all’indomani degli eventi del 1989 e della caduta del Muro di Berlino. Il più volte primo ministro democristiano, dall’alto di una grande intelligenza politica, aveva intuito che se solo fosse crollato il sistema dei paesi a socialismo reale, determinando la vittoria americana nel cinquantennale antagonismo tra Est ed Ovest, lo scacchiere planetario non sarebbe stato più lo stesso. Sarebbe diventato un posto peggiore ed aggressivo verso le comunità più deboli o restie ad accettare la supremazia militare degli States e l’american way of life come strumento di soggiogamento culturale. Ciò avrebbe rappresentato una dramma soprattutto per l’Italia e per la sua sovranità nazionale. Non si sbagliò il divo Giulio e di lì a breve la vecchia classe politica, sarà spazzata via dalle manovre di Palazzo, sapientemente assistite da tali “manine oltreoceaniche”, per far posto a uomini arrendevoli e proni al nuovo ordine mondiale (o New american century), in estensione geopolitica anche oltre i confini dell’ex Patto di Varsavia. Vae victis.

Se nella precedente fase storica, con abili tatticismi e mosse brevi ma sicure nel cono d’ombra del conflitto bipolare Usa-Urss, ci eravamo guadagnati dei margini di manovra, in primis col mondo arabo e altri governi neutrali o non allineati (pur dovendo sottostare ad invalicabili “limiti atlantici”), successivamente quei margini sarebbero del tutto scomparsi e con essi la nostra autonomia decisionale in campo internazionale, fino al rischio di sovvertimento degli stessi assetti statali interni. Anche Cossiga in “Fotti il potere”, parla di questi aspetti sostenendo che se pur in determinate tematiche, come il paventato coinvolgimento dei comunisti nel governo (in epoca di compromesso storico) o nella scelta di esponenti politici nei posti chiave di alcuni ministeri (vedi quello della difesa o degli esteri), il veto americano diventava inappellabile e quasi inaggirabile, tuttavia, l’ingerenza americana dimostrava una certa flessibilità, anche per ragioni di collocazione geografica del nostro paese, in alcuni settori internazionali dove agli italiani veniva permesso di coltivare un approccio “friendly” oltre la linea ufficiale (per esempio con gli Stati arabi). Cossiga rammenta inoltre che nelle “pieghe” della Guerra Fredda, sebbene l’Italia fosse indiscutibilmente posta sotto l’ombrello della Nato e “protetta” dalle spalle larghe dell’amministrazione Usa, la classe dirigente democristiana seppe comunque coltivare i propri interessi ricavandosi uno raggio di autonomia che non inficiava il disegno complessivo del suo maggiore alleato. Un paese a “sovranità limitata” ma ancora in grado di valutare l’opportunità di un proprio percorso preferenziale tra i due blocchi egemoni.

Andreotti aveva paventato che da quel momento in avanti gli equilibri in Europa si sarebbero radicalmente rovesciati con un inevitabile spostamento dell’asse delle “simpatie” americane dai contesti nazionali in prima linea sul fronte anticomunista, come era stato il Belpaese, enorome portaerei naturale tra i due mondi, al cuore del vecchio continente e agli stati della New Europe (Zbigniew Brzezinski), quelli cioè che stavano staccandosi dalla sfera dominante di Mosca con l’aiuto degli acerrimi nemici di un tempo.

I timori di Andreotti purtroppo si concretizzeranno e gli Usa, prima di retrocedere la nostra Repubblica ad appendice dell’Impero (comunque tenuta sotto il tallone di ferro della Nato), si assicureranno che il vecchio ceto dirigente DC-PSI, invalidato dalle convinzioni maturate in un’epoca ormai morta e sepolta, fosse quasi del tutto annichilito. Washington, difatti, non poteva rischiare di trovarsi tra i piedi una élite addestrata e guastatrice della sua strategia ridefinita globalmente, laddove essi prevedevano che il ceto politico italiano della old generation avrebbe posto i bastoni tra le ruote ad ulteriori deleghe di potere senza la garanzia degli antichi vantaggi.

Tangentopoli, come più volte ribadito, nasce da questa esigenza storica di riconfigurazione geopolitica della superpotenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, anche se il complesso disegno messo a punto dagli yankees (con la connivenza dei poteri forti nostrani e della magistratura politicizzata) non ha prodotto tutti gli effetti scientemente perseguiti e auspicati dai suoi infausti “architetti”. Almeno fino ad ora, pur se dagli sconquassi istituzionali recenti e dalle ingerenze sempre più pesanti nei nostri affari interni deduciamo che quella transizione incompleta, verso un pieno ed assoluto servaggio, sia in via di concretazione, anche se con vent’anni di ritardo.

Andreotti è stato l’abile ed astuto statista  di un’Italia consapevole e cosciente dei suoi mezzi e della sua dignità che pare destinata ad essere sotterrata ignobilmente dai dilettanti odierni.