ANCORA DI TEORIA E DI POLITICA di Gianfranco La Grassa, settembre ‘13
1. Per comodità (teorica) ho sempre utilizzato la tripartizione della società in tre “sfere” (tre grossi ambiti, mai concretamente separati da nette delimitazioni di confine): quella politica, quella economica (con sottosfere produttiva e finanziaria), quella ideologica, che a volte denomino ideologico-culturale per indicare sia tutto ciò che si muove nel campo delle idee, dei punti di vista, delle battaglie fra queste(i), sia i depositi accumulatisi durante questo movimento nel corso di lunghi periodi di tempo in dati ambiti sociali forniti pure di un territorio (di solito si tratta di quelli che chiamiamo paesi e, da un certo periodo in poi, spesso pure nazioni).
Ogni sfera è costituita da gruppi di apparati, di strutture organizzate che perseguono date finalità. Nella sfera politica, simili organismi si addensano attorno allo Stato (della cui formazione storica non discuto), che ufficialmente serve all’espletamento di funzioni generali di mantenimento di una data società abitante in un certo paese. Vi sono poi le organizzazioni dette partiti, costruite appunto per accaparrarsi il potere nella gestione dello Stato (e delle sue funzioni generali svolte nell’ambito dei diversi paesi). In determinate congiunture – e anche a seconda di una serie di specifici depositi culturali formatisi nei vari e differenti paesi – un partito esclude tutti gli altri e assume il completo controllo dello Stato; in altre congiunture si svolge invece una compertizione tra vari partiti, in genere soggetta a regolamentazioni diverse da paese a paese e da fase storica a fase storica. Si possono quindi avere le cosiddette dittature o invece le (altrettanto cosiddette) democrazie.
Etimologicamente democrazia significherebbe “governo del popolo”, ma il “popolo” è soltanto un termine di comodo uso; dovrebbe significare un insieme di individui abitanti in un dato contesto geografico-sociale e culturale, dichiarati tutti eguali fra loro e dotati di eguali diritti e doveri. Questa è soprattutto la definizione di stampo liberale, quindi fondata su una specifica ideologia particolarmente semplificatrice e rudimentale. Per altri il popolo è un variegato insieme di gruppi sociali che possono essere classificati secondo diversi criteri; e tra i quali corrono rapporti pur essi soggetti ad analisi teorica in base alle esigenze di chi intende studiare quella data società e precisare le sue caratteristiche considerate più essenziali e decisive, le più opportune per individuare la direzione di sviluppo che si ritiene più propria della società in questione. Secondo questa seconda concezione, più complessa e articolata di quella liberale, non è affatto decidibile in modo univoco e inalterabile qual è il regime – “dittatoriale” o “democratico”, ognuno dei due in varie configurazioni e modulazioni possibili – più adatto nei diversi paesi e nelle differenti congiunture o nelle (più ampie) fasi storiche.
Nella sfera politica, in ogni caso, gli Stati sono ancor oggi gli assembramenti (strutturati) di apparati fondamentali nel governo dei vari paesi e dunque nelle relazioni tra essi. Si è cercato di fingere il loro superamento con la creazione di organismi internazionali. I clamorosi fallimenti della Società delle Nazioni e oggi, sempre più visibile, quello dell’Onu dimostrano l’inanità di tale ideologica finzione; dove qui ideologia sta nel suo significato peggiore di autentica e consapevole maschera con cui si cerca di coprire l’uso di tali organismi detti internazionali, almeno per quanto riguarda le decisioni più rilevanti, nell’interesse di uno (o pochi) dei paesi ivi rappresentati (nell’attuale fase storica soprattutto gli Stati Uniti). Lo stesso dicasi della nostra povera UE, ridotta di fatto a strumento di detta potenza, malgrado gli sforzi compiuti da dati partiti dei paesi europei per far credere che uno o più di questi, ad es. la Germania, intendano conquistare con la prepotenza un ruolo di predominio; in ogni caso, sono ben pochi a pensare che la UE rappresenti “democraticamente” la volontà dei paesi del nostro continente, tutti eguali fra loro, tutti con pari diritti e poteri.
Passando alla sfera economica – che va appunto suddivisa, dato il carattere mercantile generalizzato delle economie definite capitalistiche, in produttiva e finanziaria – gli apparati fondamentali sono quelli definiti imprese, di cui ancora una volta la concezione più semplicistica, quella liberale, predica la “virtuosa” concorrenza nello spazio del sedicente “libero mercato”, uno spazio di cui si immagina l’autonomia e auto-sussistenza in base a semplici criteri di efficienza nella conduzione della gestione aziendale, e dunque il prevalere di queste o quelle imprese nella produzione – di beni e servizi, comunque di merci – a costi, e dunque a prezzi, più bassi.
In realtà, la concorrenza è un conflitto in cui conta solo parzialmente l’efficienza economica (caratterizzata dal principio del “minimo mezzo”), largamente coadiuvata invece da più complesse attività di questi apparati nei loro svariati rapporti con le altre sfere sociali e, in particolare, con quella politica. Tuttavia, vi è troppo spesso la tendenza a vedere la sfera economica come quella principale e dominante nella società e a trattare dei suoi apparati, le imprese, in termini di organismi strutturati secondo determinati criteri riconducibili appunto all’efficienza. I rapporti tra l’economia e le altre sfere sarebbero relazioni tra individui o gruppi di individui, che si considerano caratterizzate da “sentimenti” d’ordine personale: in modo speciale, il desiderio di acquisire potere ma ancor più ricchezza; è anzi quasi sempre quest’ultima ad essere messa in primo piano poiché lo stesso potere sarebbe acquisibile tramite essa, dunque sarebbe una variabile subordinata. Al servizio di ogni ambizione, sostanzialmente rinviabile agli individui, si mette l’inganno, la menzogna, la corruzione, la costrizione (quando possibile), ecc.
Poiché ogni ambizione sarebbe comunque condizionata dalla ricchezza posseduta, si tratta di quest’ultima nella sua disponibilità secondo i criteri di più rapida e flessibile utilizzabilità, che è ovviamente – in una società di generalizzazione mercantile dell’attività produttiva – quella monetaria o assimilabile a quest’ultima; cosicché, in definitiva, si enfatizza sempre la funzione spettante alla sfera finanziaria come se fosse la fonte di ogni potere, nel senso migliore o peggiore del suo uso. Alla fin fine, tutti gli accadimenti sociali più rilevanti – compresi gli eventi detti bellici – vengono attribuiti al denaro, al desiderio di accumularlo e al modo del suo utilizzo che provocherebbe spesso le più acute crisi di tutti i generi. La sfera finanziaria viene quindi pensata quale principale sfera sociale, predominante, causa dei maggiori accadimenti; e poiché di ogni accadimento si tende generalmente a porre in primo piano l’aspetto “demoniaco”, la sfera finanziaria e l’ingordigia di denaro sono considerati le più decisive fonti dei mali sociali di tutti i generi.
Infine vi è la sfera ideologica e, in senso più generale, quella culturale in quando deposito di lunghissimo periodo dello scontro ideologico legato alle successive epoche storiche, attraverso cui sono passate le varie formazioni sociali. Tale sfera non ha suoi specifici apparati, poiché questi o fanno parte della struttura dello Stato o sono organizzati in forma di impresa. La sua precipua caratteristica è rappresentata dall’occupazione di particolari ruoli, comunque utilizzati negli apparati di tipologia politica o economica, da parte degli intellettuali in quanto personaggi espletanti le funzioni speciali attinenti alla lotta ideologica e alla trasmissione intergenerazionale di quei saperi e pensamenti (“depositati”) che fanno parte di una determinata cultura. Gli intellettuali sono o incardinati esplicitamente negli apparati in questione o sono apparentemente liberi di svolgere le loro elucubrazioni; in ogni caso, salvo eccezioni (frequenti solo in periodi di crisi e trapasso tra formazioni sociali diverse), tali personaggi svolgono soltanto, talvolta inconsapevolmente, funzioni che coadiuvano la riproduzione di una data struttura di rapporti sociali.
2. Se questa è la configurazione – teoricamente considerata e analizzata – delle diverse sfere costituenti la società, ben diverso, come sempre abbiamo rilevato, è il senso (significato e direzione di orientamento) più specifico di quella che chiamiamo solitamente politica. Intendiamo riferirci alla già più volte indicata serie di mosse compiute da dati agenti sociali, serie di mosse coordinate in quella che denominiamo strategia e che gli agenti mettono in opera nel loro confronto (scontro) teso a prevalere gli uni sugli altri. La strategia non ha nulla a che vedere con movimenti compiuti a casaccio, nel più completo disordine, pura reazione primitiva, quasi istintiva, ad uno stimolo proveniente dall’esterno, che spesso è l’agitazione altrettanto caotica di altri contendenti. La strategia implica un ordine di successione delle mosse; non certo deterministico, ma comunque sempre fondato su una studiata concatenazione delle stesse, sulla ricerca, tramite esse, della massima possibile efficacia (concetto del tutto differente da quello di efficienza) in relazione alla finalità perseguita: il successo e la supremazia.
Prima di attuare una strategia è dunque indispensabile costruirla in quanto coordinazione di movimenti tesi ad un fine ben prestabilito. Nulla si costruisce senza la preliminare esplorazione del campo della sua applicazione. All’esplorazione segue una più minuta analisi del campo, cioè degli elementi fondamentali che lo strutturano e gli attribuiscono date caratteristiche salienti, senza stabilire preliminarmente le quali non ci si può muovere se non disordinatamente e nelle più diverse direzioni, ponendosi alla mercé di altri contendenti che si applichino scientificamente allo studio della strategia da svolgere in quel campo. Oltre al campo è quindi indispensabile tener conto e valutare, al meglio possibile, la posizione, la forza e le intenzioni strategiche degli altri avversari in gioco in esso e in quella contingenza temporale (a volte un’intera fase storica). Tutto questo è sufficiente? Nient’affatto, è importante ma non sufficiente.
Se ci si limita ad operare secondo quanto sinteticamente appena accennato, si ha evidentemente una concezione della “realtà”, in cui ci si muove, quale mera interazione tra gli agenti in conflitto; insomma, una sorta di vettore di composizione delle diverse forze in campo. Tale concezione rinvia di solito alla convinzione di poter eliminare ogni iato tra “soggetto” e “oggetto”, sostenendo la loro indissolubile unità, una separazione soltanto fittizia coltivata dagli individui sulla base di mere apparenze. La “realtà” sarebbe invece unitaria, non esisterebbero, appunto in realtà, soggetto e oggetto: ognuno dei due si compenetrerebbe con l’altro. Questa è a mio avviso la concezione più ingenua e primitiva, fonte di innumerevoli disastri. Perché, comunque si vogliano mascherare simili tesi, esse si rifanno all’idea fondamentale secondo cui il soggetto crea il proprio oggetto. Del resto, anche chi sostiene invece che l’oggetto è dato in sé, e il soggetto deve immedesimarsi in esso, aderire cioè (intuitivamente ed in via immediata) ad esso, si crea un falso oggetto (un simulacro di “realtà”), che non è altro se non il pensiero del soggetto “condensatosi” in un oggetto cui egli attribuisce forma e sostanza.
Per quanto mi riguarda, sono favorevole ad un deciso dualismo, ad una netta separazione tra soggetto e oggetto. Con la precisazione che il soggetto è attivo, non aderisce passivamente (con finzione più o meno consapevole) all’oggetto, con cui si dovrebbe compenetrare e unire, in pratica fondere. Perfino il soggetto contemplativo agisce tanto quanto l’attivo per eccellenza; crede (o finge) di soltanto aderire alla realtà che scorre, in effetti vi interviene, pur con la sua inazione, la interpreta e tenta di piegarla ai suoi scopi pur apparendo immobile. E’ sovente un subdolo attore, uno dalle cui mene guardarsi, poiché magari tenta, con questo suo comportamento, di sollevare e orientare l’azione di altri soggetti contro coloro che agiscono senza mascheramenti di sorta. E se anche non lo fa consapevolmente, è egualmente, a volte ancor più, pericoloso. Il contemplativo non va mai ignorato da chi confligge e lotta per la supremazia; in certi casi, va eliminato per primo, così come anche chi predica l’amore, la cooperazione e simili, armi micidiali nelle mani di mentitori “universali”.
Una volta accettato, come orizzonte ineliminabile, il dualismo soggetto/oggetto, si deve fare attenzione a non coltivare “ingenuamente” il loro rapporto. Secondo me, l’affermazione di Marx (Introduzione del ’57) secondo cui è possibile la “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” appartiene a questa concezione ingenua. Il “concreto” dovrebbe essere l’oggetto – la realtà a noi esterna, il campo in cui agiamo – in quanto caratterizzato dagli elementi che lo strutturano, ivi compresi gli altri attori contro cui si lotta. In effetti, non riproduciamo questo concreto, ce lo rappresentiamo soltanto; e la sua struttura (da noi costruita) nasce dal nostro bisogno di agire nella stabilità, fingendo che quel campo resterà tale almeno per un congruo periodo di tempo: attimi in un duello alla spada, magari decenni o secoli nella considerazione di date “realtà naturali”, che portiamo alla nostra attenzione (costruttiva) per utilizzarle secondo “storicamente determinate” finalità.
L’importante è essere coscienti che tale rappresentazione non è la realtà, ma nemmeno un semplice fantasticare; è il modo di porsi nelle condizioni necessarie ad agire. Talvolta sembra che non vi sia alcun movimento, invece sempre in essere. Ho citato altre volte l’esempio di un uomo in piedi, immobile sull’attenti. Sembra fermo, ma vi è invece un incessante moto dei suoi muscoli per creare quell’apparenza. Il movimento affatica e l’apparente immobilità può a volte concludersi con un vero e proprio crollo. Nemmeno il fantasticare è una “fuga dalla realtà”, è un altro modo di porsi in azione; talvolta dovuto al riconoscimento anticipato di una sconfitta, talaltra quale tentativo di sormontare le difficoltà che sembrano condurre alla sconfitta. Non complichiamo però il discorso, altrimenti non ne usciamo più.
In definitiva, non vi è mai riproduzione (peggio ancora, rispecchiamento) di una realtà; e nemmeno vi è immedesimazione immediata del soggetto con il suo oggetto. E la si smetta pure con l’improprio riferimento al principio di indeterminazione della microfisica quantistica, su cui si sono sbizzarriti fior di filosofi convinti di possedere sufficienti cognizioni scientifiche invece assenti; come messo in luce brillantemente, per quanto mi riguarda, da Sokal e Bricmont nel loro Imposture intellettuali. Si deve partire, innanzitutto, dall’intreccio conflittuale delle azioni di più “soggetti” che a tal fine si pongono all’esterno di una “realtà”, da loro costruita nel modo più realistico possibile in quanto campo di stabilità su cui attestarsi per meglio procedere poi a pensare lo scontro in atto e a muoversi adeguatamente in esso; a volte si tratta di uno scontro tra posizioni teoriche, tra idee e punti di vista, che tuttavia rappresentano, magari mediante una serie di passaggi intermedi, un più acuto e diretto “conflitto tra gruppi” per assumere una posizione di supremazia.
Prendiamo ad es. le concezioni tipiche dell’economia neoclassica. Questa immagina la preliminare assenza del mercato – la cui generalizzazione, attraverso processi storici di trasmutazione della formazione sociale precedente in quella capitalistica, è invece la reale causa delle teorizzazioni di tale scuola di pensiero – e formula una serie di leggi economiche, eterne e immutabili, a partire dalla supposta relazione tra un individuo (un soggetto umano) dotato di bisogni e i mezzi atti a soddisfarli. Queste leggi sono poi utilizzate per studiare la competizione nell’ambito del supposto “libero mercato”. Tale impostazione teorica, senza immaginare una subdola attività di contrapposizione ad altra teoria (di fatto, quella marxista), è comunque servita a spostare l’asse della riflessione da un campo occupato dalle classi sociali, pensate quali soggetti collettivi dominanti e dominati (“sfruttatori e sfruttati”) fra loro in lotta, allo spazio di una competizione (concorrenza) tra singoli “soggetti” liberi ed eguali.
3. Ogni volta che noi ci rappresentiamo una data “realtà”, in quanto campo in cui si lotta per la supremazia, secondo le modalità sopra sinteticamente delineate, si può essere sicuri che tale costruzione mostrerà entro un dato periodo, non determinabile a priori, precisi limiti. L’insistenza nel voler aderire ad essa a tutti i costi – tipico atteggiamento di coloro che dimenticano il suo carattere di utilità per l’azione (sempre ricordando che tutto è azione, anche ciò che appare contrario a simile definizione) per credervi fideisticamente – conduce infine alla sconfitta i suoi adepti e alla progressiva scomparsa di simile rappresentazione. Per restare sufficientemente elastici e pronti al mutamento di impostazione di pensiero in merito a date realtà, è necessario un supplemento di ipotesi.
Dobbiamo supporre l’esistenza di un mondo a noi irriducibile, al cui mutamento certo noi contribuiamo agendo (in lotta reciproca), ma in modo tutto sommato “non essenziale”; un mondo, che noi siamo obbligati a sottoporre ad attività detta conoscitiva senza la pretesa di attingere il suo “vero essere”. Un mondo da presumere in continua oscillazione, vibrazione, sommovimento o come vogliamo definire la sua incessante mutevolezza che non trova mai momenti di effettivo e costante equilibrio. In certi suoi comparti (ad es. i “cieli”, ma non solo) tale mondo conosce oscillazioni e mutamenti con vibrazioni di tale durata temporale che alla nostra “sensibilità” (pur strumentalmente molto potenziata) esso appare sufficientemente equilibrato e stabile, dotato di un movimento costante, fissato non a caso in “leggi” (fisiche). Tuttavia, ciò non ci deve indurre a pensare il contrario di quanto sopra indicato, altrimenti potremmo irrigidirci spesso in costruzioni teoriche che mostrano infine una decrescente capacità di orientare il nostro muoverci nel mondo.
Senza dubbio, saremmo in forte disagio se ci atteggiassimo a “soggetti agenti” nello squilibrio, nella vibrazione e oscillazione. E’ quindi per noi obbligatorio fissare delle “leggi” (di movimento), costruendo un campo di possibile agibilità. In definitiva, supponiamo appunto un mondo capace di equilibrio e di movimento costante, che sarebbe possibile conoscere nella sua realtà, dotata di stabilità e immutabilità dei suoi caratteri essenziali pensati come atemporali. E quando detta “realtà” è la società, in cui noi siamo più direttamente inseriti in quanto soggetti capaci di organizzazione e cooperazione o invece di conflitto, dobbiamo essere specialmente consapevoli, nel nostro ragionare, che si tratta di un mondo instabile e oscillante. E’ quindi indispensabile dedicarsi con particolare flessibilità alla costruzione – al cui scopo servono appunto le teorie, e non invece la pretesa di attingere il Vero! – dei campi di stabilità necessari all’agire: giorno per giorno o per intere fasi storiche (con le varie gradazioni intermedie). Senza però fissarsi ostinatamente sulle costruzioni realizzate, che saranno sempre superate dai cosiddetti avvenimenti – in tempi più o meno lunghi a seconda dei campi da questi interessati – richiedendo dunque periodiche revisioni sovente molto radicali.
Prendendo a prestito un’espressione utilizzata in ben diversi contesti, “in ultima analisi” ciò che decide del realismo di una data teoria, in quanto guida della nostra azione, è il successo o meno di quest’ultima nel conseguimento degli scopi con essa perseguiti. Stando sempre ben attenti al modo di porci “in teoria”. Innanzitutto, “realismo” non significa riproduzione della “realtà”, quella vera e indubitabile. La realtà è un qualcosa di fluido, melmoso, sfuggente, in continuo movimento e trasmutazione, un qualcosa in cui ci si impantana se si ha la pretesa di aderire ad esso. Il realismo implica soltanto che non fantastichiamo, ma cerchiamo di immobilizzare il mutevole e fluido in modo tale da poter comunque conseguire dei successi, con la consapevolezza che essi sono in ogni caso temporanei. Del realismo fa parte pure la presa d’atto che la stabilità, attribuita dalla teoria al mondo in cui ci “agitiamo”, è obbligatoria per quanto riguarda le modalità del nostro agire, non attingendo però alcuna “realtà vera”; quest’ultima, anzi, deve essere supposta sempre in scorrimento vibrante, sussultorio, squilibrante, per cui ogni teoria va appunto considerata transitoria.
Ci sono senz’altro i “grandi pensieri” di genere assai diverso: che so, sulla morte, su quanto ci dovrebbe accadere dopo di essa, sul senso “ultimo” dell’immenso mondo in una infima parte del quale siamo immersi, un senso sul quale sono ovviamente ammesse le fantasticherie che più aiutano gli esseri umani a vivere in varie epoche e in diverse società, con differenti “depositi culturali”. Ecc. ecc. Nessuno vuol negare la rilevanza di simili pensieri, che vi sono sempre stati e sempre saranno. Tuttavia, la teoria ha poco a che vedere con essi, deve tenersene lontana; deve attenersi allo scopo dell’agire nel mondo cosiddetto concreto, un agire che, lo ripeto, deve crearsi un’immagine stabile, irrigidita, dunque “non vera”, di quest’ultimo. La stabilità serve, sempre “in ultima analisi”, a combattere un conflitto per la supremazia tra “gruppi sociali”, variamente configurati in base al ruolo economico, politico o ideologico svolto in date società e in determinate epoche storiche.
Alcuni gruppi vogliono conservare l’ordinamento sociale esistente, altri mutarlo; a seconda delle convenienze ritenute confacenti ai diversi gruppi in conflitto. All’interno dello scontro per l’ordinamento sociale, si svolgono lotte diverse e peculiari riguardanti settori specifici della società. Fra questi settori vi è anche quello in cui la lotta per la supremazia prende a proprio oggetto la validità o meno di questa o quella teoria; anche nell’ambito delle teorie riguardanti le cosiddette “realtà naturali”. Per fare un semplice esempio, nel “Galileo Galilei” di Brecht, malgrado l’eccessiva semplificazione dei termini e modalità dello scontro, si colgono alcuni aspetti sociali (e politici) dell’aspro conflitto intorno alle tesi dell’eliocentrismo. I “grandi pensatori” devono limitarsi a tentare di interpretare il cosiddetto “spirito del mondo”, che non è poi altro che l’insieme delle credenze caratteristiche di determinate “epoche storiche della formazione sociale”. Tenendo ben conto che tali formazioni sociali non sono mai state finora unificate in una sola, differenziandosi invece per la loro sussistenza in diversi contesti geografico-sociali, caratterizzati da una storia relativamente comune e da conseguenti “depositi culturali” non divaricati oltre certi limiti (ma sempre sufficienti a creare contrasti e lotte per l’affermazione del proprio “essere”, quello supposto tale e superiore agli altri).
Non sono però questi “grandi pensatori” a far vincere determinati portatori soggettivi delle più cogenti esigenze di date formazioni particolari (da ormai molto tempo riconducibili di fatto ai paesi) e di dati gruppi sociali all’interno di queste; il successo o meno è compito di chi elabora le strategie del conflitto, cioè degli agenti della politica nel suo senso più specifico che riguarda ogni ambito (sfera) della società: politica (gli apparati della stessa), l’economia (imprese in testa) e l’ideologia. Sono soprattutto le prime due – e nel capitalismo, nell’epoca della formazione sociale più moderna, ha acquisito grande rilevanza la seconda – ad avere un più alto impatto nella lotta per la vittoria (nella “guerra” e non in “singole battaglie”). I “grandi pensieri”, quelli che poi impregnano a lungo i “depositi culturali” di diverse formazioni sociali, sembrano orientare e muovere “grandi masse”; in definitiva, però, se un conflitto di lunga lena o di particolare acutezza e rilevanza viene perso per incapacità o condizioni sfavorevoli alla lotta di determinati agenti delle strategie (della politica), le “masse” influenzate da questi ultimi si disperdono e poi si riuniscono, sia pure magari in periodi lunghi, sotto l’egida di nuove “formazioni ideologiche” che coadiuvano di solito la stabilità del successo degli agenti vittoriosi.
4. Quando si sostiene, e del tutto correttamente a mio avviso, che la “politica è sempre e comunque al posto di comando”, è necessario intendersi bene su tale affermazione. Non significa, secondo me, che gli apparati della sfera politica, e dunque i soggetti posti in ruoli di comando in questi, occupano un posto privilegiato rispetto a quelli di altre sfere della società. Il reale senso dell’affermazione sta nella politica in quanto sequenza di mosse facenti parte di una strategia adeguata a combattere il conflitto nella società (in una determinata area sociale più o meno vasta, al limite “superiore” la società mondiale) per assumere il controllo di sue parti decisive. Questo tipo di politica permea l’intera formazione sociale e dunque le sue varie sfere (sempre ricordando che la suddivisione di una società in queste sfere ha carattere largamente strumentale, è pur sempre un “fare teoria”).
Il fatto che, nello svolgimento della politica, abbia prevalenza o l’una o l’altra delle sfere sociali (con i loro apparati e i loro agenti nei ruoli di comando degli stessi) è “fatto” connesso alle diverse epoche – in molti casi specifiche congiunture – storiche “concrete”, tenuto conto dei rapporti di forza intercorrenti tra le diverse formazioni particolari (paesi) e tra i vari gruppi sociali al loro interno. E’ in questo contesto che ha senso quanto disse Lenin in merito alla “analisi concreta della situazione concreta”. Guai ad interpretare tale frase nel suo senso più piattamente empirico (al di là di quelle che potevano essere le intenzioni del grande rivoluzionario). Partiamo, per fare un esempio ben noto, da una delle conclusioni di tale tesi leniniana: la considerazione dell’“anello debole della catena dell’imperialismo” (rappresentato dalla Russia nel 1917); il che implica l’altrettanto fondamentale conclusione secondo cui le rivoluzioni vincono non tanto dove le forze rivoluzionarie sono più forti (e numerose, seguite dalle più ampie “masse”, secondo le credenze dei rivoluzionari più superficiali che, infatti, perdono e la “guerra” e spesso pure la vita) bensì dove quelle reazionarie sono più deboli e con le loro istituzioni in sfacelo, i loro “comandanti” demotivati e le “truppe” in movimento disordinato e spesso in fuga non ricevendo più comandi di indirizzo.
La tesi dell’anello debole non rinvia dunque alla semplice analisi empirica di un dato assetto delle forze in una breve congiuntura, ma è effettiva tesi strategica che, non a caso, servì per contrastare e superare i dubbi (e gli opportunismi) di coloro che, perfino tra i bolscevichi, sostenevano la necessità di attendere un avanzamento della rivoluzione democratico-borghese, da cui sarebbe emersa pure una più forte e numerosa “classe operaia” (il soggetto rivoluzionario per eccellenza secondo i marxisti, in specie quelli scolastici). L’unico errore di Lenin – che è stato possibile giudicare tale soltanto in base all’esperienza storica degli ultimissimi decenni, ed esclusivamente da chi ha un cervello per ragionare – fu quello di credere che tale tesi non contraddicesse in definitiva il marxismo tradizionale e i suoi assi teorici portanti. Così non era e si è creduto per troppo tempo che le rivoluzioni, succedutesi dopo la seconda guerra mondiale, fossero un prolungamento della rivoluzione detta proletaria (della “Classe” per antonomasia) in tanti ulteriori “punti deboli”. Nei “punti forti” – i veri paesi capitalistici con un numero elevato di operai (nient’affatto una Classe!) – non c’è mai stato nemmeno il più piccolo balenio di una rivoluzione dopo il 1945; e quei pochi sussulti precedenti, tipo gli spartachisti nella Germania post-Grande Guerra, non erano gran che di meglio di un Pisacane nell’ottocento pre-unitario italiano o di un Guevara tra i contadini boliviani, ignari di che cosa volesse simile “intruso”.
Comunque, oggi chi sa ragionare – non i rimasugli che propugnano un comunismo “etico e religioso”, del resto predicato da certi perfetti imbroglioni nel tentativo di raccogliere ancora alcuni voti dai residui decerebrati di un movimento in altri tempi molto incisivo e colmo di effettive speranze – è consapevole della necessità di abbandonare il marxismo così com’è stato formulato. Tutto sommato, la migliore (o meno peggiore) definizione di questa corrente teorica è quella data molti anni fa da Althusser: Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia. In effetti, continuo a ritenere che un’analisi dei fenomeni storici fondata solo sulla lotta tra Stati e paesi, tra religioni o in senso più generale culture, tra etnie, ecc. non sia senza senso, ma resti abbastanza alla superficie dei processi che riguardano – a mio avviso, ben più fondamentalmente – anche dati gruppi sociali all’interno di ogni Stato, di ogni paese, di ogni religione e cultura (e lingua), di ogni etnia, e via dicendo. Il vero problema è che il marxismo si è imbozzolato nell’analisi del capitalismo nella sua prima compiuta affermazione in Inghilterra e ha creduto di generalizzare quell’esperienza – per di più appena uscita dalla sua “prima rivoluzione industriale” – impostando così il decorso storico sulla lotta di classe tra borghesia e proletariato (che non era altro se non la classe operaia). Da qui è derivato infine un sostanziale fallimento, ostinatamente mai ammesso dai marxisti ulteriori (nemmeno da Lenin che, per fortuna, seguì però nella rivoluzione altre tesi strategiche, effettivamente revisioniste).
Questo fallimento teorico prima ancora che pratico-politico – la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani, del tutto diversi in questo dagli altri animali – ci ha fatto regredire alla necessità di seguire altre teorie della società, e del conflitto in essa, a mio avviso più primordiali e rudimentali del marxismo. La regressione è proprio consistita, a mio avviso, nell’incapacità di andare all’analisi del conflitto tra gruppi sociali oltrepassando il superficiale livello rappresentato dal “cemento” della cultura (e della lingua), della religione e via dicendo. Oggi anche noi, formatici nel marxismo, siamo obbligati a ripiegare spesso sul sovranismo (o l’autonomia o la neutralità, ecc.); in un certo senso, si è obbligati a “pagare dazio” per gli errori commessi così a lungo. In questa fase ci troviamo in mezzo ad una gran quantità di macerie da sgombrare; dopo si potrà, e a mio avviso si dovrà, ridare senso all’analisi secondo l’impostazione concettuale che fu nostra, senza però ricadere in “visioni” di prevalente antagonismo duale e in verticale, usando le solite, al momento difficilmente sostituibili ma assai poco perspicue, categorie dei “dominanti e “dominati”. Se qualche ritardato intende ancora dilettarsi con tale dualità, utilizzando addirittura i termini di “sfruttatori” e “sfruttati”, di “oppressori” e “oppressi”, meglio toglierselo subito dai piedi. Nemmeno prendo in considerazione i “ricchi” e i “poveri”, i “privilegiati” e i “diseredati”!
5. Concludo adesso questo tutto sommato breve excursus sulla teoria e la pratica (politica). Lo consegno alla lettura di quel 10% (sono troppo ottimista?) che comprende come la teoria sia, nell’essere umano pensante, la massima espressione dell’agire pratico, che implica una riflessione di primo, secondo, terzo, ennesimo grado. Noi, cioè, ci dedichiamo intanto al primo approccio al mondo caotico in cui ci si deve muovere se si vuole vivere. La “riflessione” immediata comporta già la grezza formulazione di abbozzi di teorie – chi si ferma a questo primitivo stadio non si rende di solito conto della formazione di simili abbozzi nel suo cervello, crede di essere soltanto pratico e disprezza i “teorici” – con cui fissiamo comunque dati campi di stabilità; talvolta convinti, ingenuamente, di aver “riprodotto la realtà”. Su questi primi approcci si riflette ancora e, una volta “ri-aggiustati” i primi campi, se ne stabiliscono di ulteriori e poi altri ancora; fino a quando non ci sembra di essere arrivati alla “più realistica” stabilità consona alla nostra attività.
Diceva Lenin: “senza teoria rivoluzionaria niente azione rivoluzionaria”. Togliamo di mezzo il termine rivoluzionario, che non contraddistingue se non eccezionalmente il nostro modo d’agire. Resta pur sempre: senza teoria niente azione. Teoria e prassi sono le usuali “due lame della forbice”, apparentemente diseguali ma entrambe complementari per “tagliare”. Se una lama è troppo usata, bisogna arrotarla, spesso sostituirla. Ho sopra usato l’espressione “grandi pensieri”, con dizione generica ma che spero sia chiara ai più e che a nessuno venga in testa di pensare che li consideri con ironia. Mai avuta una simile, in tal caso sciocca, intenzione. Non si può vivere senza simili pensamenti. E anche chi non “ci pensa”, è solo perché ritiene che l’intero mondo non abbia alcun senso dato, definito. Mi sembra tuttavia ovvia la dannosità della confusione tra gli ambiti dei “grandi pensieri” e i campi stabilizzati dalle teorie (in quanto aspetto della pratica d’azione). Se teoria e prassi sono le due lame della “forbice” indispensabile al nostro concreto intervento nel mondo, tra di esse sussiste una tale complementarietà da renderle di fatto un unitario “strumento” per agire. E’ possibile che tra le due lame si crei una qualche discrasia, si verifichi uno scarso adattamento reciproco nell’uso; la rivelazione dell’imperfezione si ha in genere relativamente presto giacché infine la “realtà” non viene più ben “tagliata”.
Una relazione così stretta non corre tra “teoria e prassi” e la “grande meditazione” che caratterizza le civilizzazioni in diversi contesti spaziali e temporali. Esiste senz’altro complementarietà, reciproca influenza, anche in tale relazione; tuttavia, con più alto grado di indipendenza e, dunque, con l’eventualità (non rara) di scarti e divaricazioni temporali in grado di provocare gravi problemi per l’integrità e il buon “funzionamento” (riproduttivo dei rapporti) di una data formazione sociale. Con metafora di larga massima, pensiamo la seconda quale “strumentazione” di acclimatazione (mantenimento di temperatura e grado di umidità) adeguata alla rigogliosa crescita di piante e fiori in serra. La “forbice” (teoria e prassi) è rappresentata dal sapere e dall’abilità del “giardiniere” che cura tale crescita.
Vi sono purtroppo, soprattutto di questi tempi, tanti pasticcioni che trasferiscono d’emblée i “grandi pensieri” nel campo della teoria, sostituendola con affabulazioni perniciose. Purtroppo influenzano ambiti intellettuali assai degradati soprattutto nei periodi di decadenza di una formazione sociale. Vengono così provocati danni incalcolabili, ritardando il superamento della “crisi epocale” di detta formazione. E’ indispensabile denunciare e criticare aspramente personaggi altamente deleteri, che pronunciano frasi insensate di possibile effetto su cervelli deboli e quasi inermi; essi annientano ogni rigore di vera ricerca di una via di uscita con discorsi “ultrasecolari”, di “speranza” in mondi di cui non sussiste il minimo accenno di avvento. Un conto è pensare all’“altro mondo”, un altro produrre fantasie su questo in cui ci troviamo realmente, arrabattandoci alla bell’e meglio per (soprav)vivere. E con questo termino il mio intervento (ancora largamente provvisorio).
Settembre 2013