KOBA IL TERRIBILE
Koba il terribile fa ancora tanta paura, soprattutto a chi teme di fare i conti col passato e di doverlo paragonare con il nostro misero presente di infingimenti e di vigliaccherie globali.
Politici e filosofi liberali, a noi contemporanei, vengono presi dal panico appena lo sentono nominare. Che nessuno provi a riabilitare l’aguzzino comunista, il persecutore di dissidenti, il carnefice dei gulag, il despota della steppa, l’uomo che osò opporsi alla civiltà capitalistica e all’egemonia americana costruendo una grande potenza militare ed economica (che, pur tuttavia, non era la terra del socialismo benché così si facesse chiamare), oltre che all’avanzata del nazismo, mentre tutti in Europa cercavano ancora un compromesso con Hitler, o fuggivano a gambe levate, oppure si sottomettevano alla croce uncinata. Per la storiografia ufficiale i liberatori del mondo dal male assoluto del nazifascismo sono stati gli americani, eppure i primi ad entrare a Berlino furono i soldati dell’Armata Rossa. Il 30 aprile del ’45 sul tetto del Reichstag sventolava la bandiera rossa con la falce ed il martello, issata dai sergenti Michail Jegorov e Meliton Kantarjia del primo battaglione della 150.ma divisione d’assalto del generale Pereveretnik, non quella a stelle strisce degli yankees. Anche il lager simbolo dell’olocausto degli ebrei, Auschwitz, fu spalancato, il 7 gennaio 1945 dai reparti sovietici della 60ª Armata del 1° Fronte ucraino. I morti sovietici nella seconda guerra mondiale sono stati 23 milioni, quelli americani appena 400.000, eppure, non fanno altro che ripeterci, dalle scuole dell’obbligo, che dobbiamo ringraziare gli statunitensi per la nostra libertà. Ormai abbiamo perso la posizione eretta a forza di tutti questi inchini ingiustificati.
Per impedire a Stalin di riemergere dal fango in cui è stato sospinto da decenni, intellettuali indegni e politici minuscoli dei nostri giorni, si aggrappano a tutto. Persino agli esiti del XX congresso del Pcus, del febbraio ’56, e alla relazione di Nikita Krusciov, quella che decretò la damnatio memoriae del georgiano da parte dei membri del partito a lui più vicini, gli stessi che lo avevano seguito con incrollabile zelo fino alla fine, senza mai accorgersi di alcun crimine. Anzi, costoro a tratti, nella battaglia per il potere e la propria affermazione personale, furono più feroci e spietati di Soso ma altrettanto abili a nasconderlo ed a scaricare ogni responsabilità su chi non poteva più contraddirli. Soltanto dopo morto l’Uomo d’acciaio divenne il corpo molle da sbranare, il passato da nascondere, il pezzo di storia da rinnegare per assurgere ai ranghi più elevati dello Stato e del partito. Krusciov e soci, a spese della lealtà e della coerenza, si rifecero una verginità che non non avevano mai posseduto.
Dopo tanti anni di smemoratezza, c’è qualche storico onesto che prova a dire come stanno veramente le cose. Stalin non non è stato un santo ma chi, tra i condottieri che governano e guidano le nazioni e i popoli, lo è mai stato? Gli statisti non si riconoscono dalla loro umanità, dai buoni sentimenti e dalla bontà d’animo, ma dalle cose che fanno e dalle decisioni, anche tragiche, che assumono. Lo Stato non è un oratorio e mai potrà diventarlo. Ha provato Luciano Canfora a scriverlo sul Corriere, citando Norberto Bobbio il quale, in una lettera a Paolo Spriano, consigliava di “considerare la grandezza del vostro, e potrei dire anche del nostro, Stalin, venerando e terribile al pari di Annibale, in quanto è lecito al Principe violare le regole della morale comune se fa gran cose“. Uguale giudizio ne dava Alcide De Gasperi, al quale pur s’ispirano molti moderatucci nostrani, che del Padre nobile della DC, hanno, evidentemente, capito poco o niente, il quale definiva Stalin un genio, riconoscendogli “merito immenso, storico, secolare delle armate da lui organizzate”. Non si discostò da tali valutazioni, tutt’altro che negative, Benedetto Croce il quale disse che “quando suonò l’ora della prova suprema, l’uomo si mostrò pari a se stesso e ai grandi compiti che aveva cercato e che la storia gli aveva assegnato”.
Poi arriva Luigi Mascheroni che scrive sull’organ house della famiglia Berlusconi, ricicciando la solita litania del “terrorismo di Stato, deportazioni, purghe politiche, carestie, repressioni e Gulag, il cui tributo in termini di sangue è quantificabile – pur orientandosi verso le cifre più basse fornite dagli storici – in non meno di 15 milioni di morti. Sacrificati sull’altare delle «gran cose» fatte da Stalin”. Non saprei dire se chi interpreta gli eventi con la statistica dei caduti sia più ignorante o stupido. Sicuramente è in malafede. Abbiamo già detto di quanti cittadini dell’est sono deceduti nella lotta al nazismo, un numero che non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello delle altre parti in causa. Mascheroni, ovviamente, di questa contabilità macabra ne fa un uso ideologico, cioè i morti a volte li conta e a volta li pesa a seconda di come deve sostenere le sue faziose posizioni. Quindi, sempre per il giornalista, che salta alle conclusioni come il suo editore salta sulle ragazzine, Stalin non sarebbe uno statista ma solo un pazzo sanguinario colpevole di genocidio. Con questo suo metro di riferimento di statisti in giro non ne individuerà mai neanche uno. Chissà se questo pennivendolo avrebbe mai avuto il coraggio di scrivere, tanto per fare un esempio, che Truman non è stato uno statista perchè con due colpi soli riuscì a farne fuori 200 000, tutti civili, ad Hiroshima e Nagasaki. Insomma, anche nell’essere partigiani ci vuole un po’ di pudore, tanto per non cadere nel ridicolo. Più che Mascheroni costui è proprio una mascherina.