SOFRI, SOCI E SOCHI
Adriano Sofri, lei come si sente ad essere se stesso, cioè a non esserlo mai stato veramente a cagione delle sue tante facce per ogni stagione? Non siamo dalla Bignardi ma le faremo il bignami delle sue contraddizioni, ora che il suo obiettivo sono i dittatori immaginari e le violazioni dei diritti umani.
Zelig in ogni epoca ed in ogni luogo, come il personaggio di W. Allen, sempre ai vertici del torbido, per il nutrimento del suo io ipertrofico e di una insaziabile smania di fama, adesso veste i panni del guerriero umanitario occidentale. Ieri sparava a cazzo di cane, oggi le spara grosse con una sensibilità preincartata da primo della classe (non più proletaria).
Un tempo dava ordini spietati e sghignazzava come una iena ridens quando, con poca cautela, qualcuno lo chiamava il piccolo Lenin. Non s’illuda piccoletto, il paragone reggeva solo sui centimetri e non sulla statura politica. Altezza(o bassezza) non è stazza né stoffa. Si sentiva alla pari col grande rivoluzionario russo, proprio lei membro di una retroguardia generazionale sessantottarda che ha fatto una brutta fine o si è riciclata, facendosi largo tra cadaveri e ideologie (ab)usate, nel parco buoi degli opinion maker ammaestrati ed ingaggiati da quel sistema tanto odiato, divenuto improvvisamente casa accogliente e causa rilassante. A quelli come lui interessava unicamente diventare classe dirigente ed il comunismo reinventato di sana pianta rappresentava l’ascensore sociale a portata di mano, il più comodo in quel momento. Erano convinti di vincere, proprio come attualmente credono di essere antropologicamente superiori.
Non avrai altro leader all’infuori di te, recita la bibbia dell’egocentrismo dogmatico. Sofri è uno dei suoi massimi profeti. Così l’imperatore Adriano, deposto il kalashnikov ha imbracciato la tastiera della fiera delle vanità giornalaie per redimersi dallo zelo sovversivo giovanile ed essere ammesso nel salotto confortevole del mondo che conta. Grazie al “collaborazionismo” ha ottenuto la collaborazione editoriale sulla stampa a larga diffusione, riqualificandosi il pronome (l’io smisurato), ed ora ha l’ardire di scrivere che Putin sarebbe l’ “agente del KGB rifatto”. Eppure una volta la Russia era per lui ispirazione e aspirazione. Come cambiano i prepotenti…
Il vizio del killeraggio Sofri però non l’ha perso, da “commissario del popolo”, contro i commissariati e i commissari di polizia, a 007 dell’ordine mondiale costituito che definisce il Presidente russo un despota incallito, soltanto perché costui non vuole mollare l’osso geopolitico alla famigerata comunità internazionale.
Ma Vova rivendica con orgoglio il suo passato sovietico e ricorda la triste caduta dell’URSS, la più grande catastrofe del XX secolo. Sofri, invece, quando ce la racconterà tutta quella storiaccia disonorevole di lottacontinuismo parolaio che stampava i suoi deliri di piombo presso una tipografia gestita dalla Cia? Tra via Dandolo e via dei Magazzini Generali, erano sempre in buona compagnia americana, portati per mano da un certo Robert Cunnigham junior dell’Ohio. Rotta continua verso l’americanismo. In ogni caso, la più vasta sciagura culturale del XX secolo è stata proprio il ’68 di Sofri e soci (quelli che adesso odiano Sochi). Una fase storica che ci ha regalato una generazione di mostriciattoli, come l’ha definita il mio maestro La Grassa. Sono stati tali intellettuali del piffero – usciti dalla contestazione studentesca e dall’esaltazione della classe operaia che senz’altro avrebbe rovesciato l’ordine di cose presente per il gusto di portare simili vanesi in cima alla piramide sociale – ad aver creato lo scempio del politicamente corretto di oggi: “quintessenza dell’idiotismo autodefinitosi progressista, mentre è semplicemente il prodotto degenerativo di una fase di completa involuzione del pensiero e soprattutto di ciò che si definisce politica. Questa non esiste più, assistiamo al cicaleccio inconsistente e fatuo di arroganti presuntuosi che hanno occupato ogni spazio di destrutturazione culturale nei media e nell’editoria”. Appunto, gli scarti del ’68 stanno continuando a produrre esalazioni pseudoculturali e pseudopolitiche che ci uccidono nell’anno 2014, impedendoci di leggere oggettivamente i mutamenti in corso al fine di ripensare la nostra collocazione sulla scacchiera mondiale. Sono pedoni (e pedine) di un gioco più grande di loro e per questo verranno presto (almeno ce lo auguriamo) mangiati.