Ah la crisi…mmh la crisi mmmm…
La crisi è un banco di prova per gli uomini abili ed i grandi cervelli. Per questo gli economisti sono tutti finiti col cappello da asino in testa dietro alla lavagna. Dove i politici li avevano preceduti da un bel pezzo in ginocchio sui ceci. Costoro di fronte ai sintomi più volatili del peggioramento economico minimizzavano, al cospetto di quelli reali sminuivano, dinanzi ai disastri industriali e alla rabbia sociale, di questi mesi difficili, invocano la calma e la fiducia ma già pensano alla polizia e gli altri corpi speciali dello Stato per difendere l’ordine costituito, mutato in disordine concreto.
I seguaci della scienza triste anziché cimentarsi con gli strumenti della teoria e della verifica sul campo, quando ancora potevano, si sono affidati, alla cabala e ai riti salottieri dove se le suonano e se le cantano accumulando complimenti e allori. Dovrebbero abbassare i titoli ed alzare lo sguardo perché il mondo si sta trasfigurando sotto i loro occhi nel mentre sventolano la loro inutile laurea. Non riporteremo tutte le dichiarazioni di senso contrario o senza senso dei nostri illustri economisti agli albori del default, a cui facevano eco i rasserenamenti delle classi dirigenti globali che contavano, imperturbabilmente, nelle capacità autoregolative del sistema. Cioè confidavano in loro stessi ma era, ovviamente, una fiducia mal riposta con i grandi sconquassi in atto sullo scacchiere geopolitico che venivano nascosti sotto al tappeto.
Quando oramai non si poteva più fare a meno di confrontarsi con i duri eventi piovuti dal cielo, come chicchi di grandine contundente, la maggior parte di questi “economastri” dilettanti, se non si è rotta il cranio, ha provato a ripararsi sotto l’ombrello delle varie ripresine che però non resistono agli urti successivi e vengono sconfessate in un battibaleno. Allora corre al battibecco e si smentisce il giorno appresso rinnegando di aver mai preso la parola, sperando nella smemoratezza della pubblica illusione. L’alternativa, del resto, dal suo punto di “svista continua” è quella di mettere la testa sotto la sabbia ed aspettare ulteriori accadimenti, facendosi cullare dalla mano invisibile quando l’aria è serena e sostenere dal pugno distinguibile di una potenza mondiale che però, suo malgrado, non ha più il primato assoluto, quando il clima si fa incandescente.
Non è proprio un piano di sicurezza poiché i problemi sorgono da questa situazione di incertezza geopolitica e dal mutamento dei rapporti di forza a livello planetario. Proviamo a spiegarci meglio. Lo faremo citando un libro del pensatore veneto Gianfranco La Grassa che sta per essere dato alle stampe per Mimesis.
Per capire questa crisi è necessario prima individuare e poi sovrapporre, per cogliere differenze e similarità, il nostro frangente storico con uno del passato, almeno apparentemente più vicino per determinate caratteristiche e probabili risvolti. La Grassa non tira ad indovinare ma arriva a questa similitudine per astrazione teorica e confronto epocale. Egli ritiene che ciò che più si avvicina al periodo in corso è la stagnazione degli anni 1873-96. Scrive il Nostro: “La lunga depressione [quella appunto del 1873-96] nasceva dallo scoordinamento indotto nell’interrelazione tra i vari sistemi economici, in quanto nervatura e struttura ossea di varie aree – che erano tuttavia paesi, nazioni, poiché ognuna di queste aree, per lottare contro le altre, doveva essere dotata di un determinato insieme di apparati addetti all’esercizio della forza, quelli dello Stato, con potestà territoriale confortata pure da unità di lingua, di cultura, di tradizioni, ecc. – ormai entrate in competizione per il predominio mondiale. In un mondo, in cui i principali paesi erano divenuti capitalistici (erano quindi ormai passati dalla semplice manifattura all’industria), il coordinamento era garantito dalla complementarietà tra le loro differenti sfere economiche: soprattutto quelle produttive, l’aspetto finanziario essendo sostanzialmente derivato, malgrado apparisse il più mobile e soggetto a scosse data la liquidità del mezzo manovrato dal sistema bancario.
Lo scontro tra detti paesi per la supremazia – una volta che alcuni d’essi conquistarono la forza per contestare quella inglese – doveva certo impiegare, in ultima analisi, gli strumenti di sempre, cioè le armi e gli eserciti (oltre alla diplomazia, alle pressioni, alla corruzione o convincimento per interesse di dati gruppi dominanti in altri paesi, ecc.); tuttavia, la sfera economica era divenuta un decisivo strumento corroborante l’impiego dei mezzi d’ultima istanza. E lo sviluppo di tali strumenti corroboranti si verificava ormai con modalità strutturali simili in un certo numero di paesi capitalistici fra loro in conflitto, per cui andava persa l’integrazione, la complementarietà, tra i diversi settori produttivi degli stessi. Da qui lo scoordinamento, presentatosi all’inizio come stagnazione con più bassi tassi di crescita, per poi via via aggravarsi nel prosieguo della lotta e passare di livello, fino appunto all’aperto manifestarsi delle grandi crisi del ‘900: crisi economiche del 1907 e 1929 (con il loro prolungamento di stentata ripresa) e crisi militari con le due grandi guerre mondiali; l’ultima delle quali si concluse con l’avvento di un nuovo centro coordinatore, perché detentore della supremazia, in uno dei due poli in cui fu suddiviso il mondo per poco meno di mezzo secolo.
Molto chiaro e piuttosto verosimile. Se le cose stanno in questi termini, anche la crisi in atto in questa fase potrebbe, appunto, derivare dalla perdita di potenza del vecchio centro regolatore (nel nostro caso quello americano) che genera una serie di disequilibri tra i vari sistemi economici ad esso collegati e che influisce, comunque, su quelli periferici ed esterni. Questa perdita di forza relativa deriva dalla competizione tra paesi e aree geografiche che puntano ad insidiare il primato statunitense, nonché ad affermarsi, nel lungo periodo, quali poli alternativi al mondo occidentale e al suo modello economico, politico, culturale ed anche militare.
Gli esiti di questo processo non sono tuttavia scontati e non è detto che il risultato finale siano ancora guerre mondiali come quelle XX secolo. Sappiamo, grosso modo, che anche questo crollo nasce da presupposti assomiglianti a quelli già verificatesi in altri momenti di estrema conflittualità mondiale, ma non possiamo ricorrere alla divinazione per individuare il punto o i punti di arrivo dello stesso, perché non abbiamo ricette per le osterie del futuro. Qui stanno le novità e le sfide con le quali dovremo fare i conti da ora in poi, perché la storia si ripete ma mai nello stesso identico modo.