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La politica estera americana degli ultimi anni è stata un disastro. Questo bilancio fallimentare coincide quasi interamente con la Presidenza Obama. Tuttavia, non è all’uomo, ormai nudo di fronte alle sue narrazioni fantasiose, contraddette dagli avvenimenti e dalle insensate risposte bellicose intraprese ovunque dall’amministrazione Usa, che vanno attribuite tutte le responsabilità.
Obama, nero per caso in un’America poco illuminata, è espressione di un gruppo dirigente che non ha saputo ricollocarsi al centro dei profondi cambiamenti in atto sull’orbe terracqueo. Questi ultimi sono stati subiti e non governati da Washington, rimasta fedele ad un suo orizzonte cristallizzato di destino manifesto e ad una visione arretrata di supremazia che sta cessando di esistere. C’è, dunque, un dato storico oggettivo e uno politico collettivo dietro alla débâcle statunitense che per il momento è tale in termini relativi (indebolimento del raggio d’attrazione della sfera d’influenza Usa) piuttosto che assoluti (l’America resta la prima potenza mondiale ma con meno lunghezze di vantaggio sulle inseguitrici). Nel campo di riferimento occidentale gli Stati Uniti sono ancora dominus influente e ingerente mentre è sempre più evidente l’inefficacia della loro progettualità strategica su alcuni teatri regionali, però determinanti, ormai riluttanti alla loro forza gravitazionale. L’emergere di attori e di concorrenti ad Est (Russia) ed in Estremo Oriente (Cina) ha mandato in crisi l’unipolarismo statunitense ed ha schiuso nuove possibilità di riconfigurazione delle relazioni internazionali (modulate su rivisitati rapporti di forza) alle quali la Casa Bianca reagisce con poca cautela ed eccessiva approssimazione. Queste dinamiche ineluttabili dell’epoca che stiamo vivendo andavano studiate e gestite diversamente dal vertice stellestrisce che, invece, ha agito esclusivamente per fermare le lancette dell’orologio sull’ora ad esso più conveniente. L’inattuabilità di una siffatta pretesa ha allargato le fratture geopolitiche e le dispute territoriali, spesso camuffate da conflitti etnici e religiosi che qualcuno credeva di poter sfruttare a proprio vantaggio, per ripristinare lo statu quo ante. Ma le situazioni cagionate artificialmente si sono ritorte contro gli architetti della democrazia di conquista. Eppure è chiaro che indietro non si può tornare, chi lo crede è destinato a farsi trovare impreparato in ogni circostanza. Come Obama e i suoi suggeritori che avendo però a disposizione gli arsenali maggiormente riforniti e tecnologicamente più avanzati centuplicano il senso d’instabilità generale, anche in virtù dell’imprevedibilità delle loro reazioni agli aggravamenti autoindotti delle situazioni. Ne parlava ieri su Il Giornale un osservatore attento come Ludovico Festa, ex marxista passato sulla sponda liberale: “oggi «l’amico americano» ha più di un problema a definire una linea di stabilizzazione qualificata: mancanza di un’analisi adeguata? Troppa fiducia nei propri mezzi? Una spinta eccessiva a semplificare la governance mondiale da parte di una nazione tentata dall’isolazionismo? Questo stato di cose è avvertito dagli alleati più fedeli nella lunga stagione della Guerra fredda: si è detto dei turchi ma ciò vale anche per israeliani, sauditi, e persino per i britannici. Anche nuovi ultrafan di Washington come i polacchi se ne sono lamentati (il che con malizia è stato fatto filtrare probabilmente dallo spionaggio russo). E ciò vale anche per noi italiani, ricorrente oggetto di pluriverse destabilizzazioni”. Tutto ciò come conseguenza di scelte scriteriate sugli scenari più caldi del pianeta, in questo scorcio di XXI secolo. Gli Usa hanno rimescolato le carte geopolitiche pretendendo di modificare le regole del gioco a proprio piacimento, pur non disponendo ancora dell’autorità necessaria per muoversi unilateralmente. Cosicché hanno generato il caos: “in Libia si chiudono gli spazi aerei, da Gaza altri razzi contro Israele, in Siria e Irak la guerra prosegue tra gli efferati crimini dello «Stato Islamico», Kiev si oppone a un convoglio «umanitario» da Mosca, Washington arma il Vietnam per frenare Pechino nel «mar della Cina». A Istanbul diventa premier il ministro degli Esteri che predica Grande Turchia e allontanamento dall’Europa”. Il pur bravo Ludovico Festa, lucido nel dipanare la matassa diventa inconseguente nella svolta necessitata che discenderebbe dalle sue stesse premesse e conclude con una pessima giravolta: …come per tutto il Novecento solo gli americani possono salvarci. Hanno bisogno però di amici che salvino un po’ anche loro dagli errori peggiori. Gli americani, qualora decidano veramente di uscire dall’angolo, mutando prospettiva, si preoccuperanno solo di loro stessi. Se il “piano di salvataggio” richiederà il sacrificio degli alleati minori non esiteranno a metterlo in pratica calpestano diritti e cadaveri dei nemici ma anche degli amici. L’Italia sta già pagando le conseguenze di questo finto affiatamento che coniuga la loro prepotenza col servilismo dei nostri governanti. Il mix è micidiale per il futuro della Penisola. Il pessimo risultato per noi sta nel cedimento delle basi della nostra sovranità nazionale e della nostra iniziativa economica. Un’ecatombe sociale dalla quale nessuno ci tirerà fuori, men che meno quest’Ue senza carta d’identità politica. Dobbiamo aprire gli occhi e guardare più lontano per aggirare l’impasse. La Russia, che sta assumendo una leadership alternativa, può accorciare le distanze tra i nostri limiti e colmare i fossati geopolitici scavati durante la guerra fredda, per dividerci da un modello adesso non più antagonistico. Dobbiamo tenderle la mano perché quelle ragioni si sono esaurite. Potremmo assurgere al ruolo di ponte della prossima transizione epocale tra formazioni particolari (Paesi) portatrici di mutate istanze globali. Possiamo renderci indispensabili. Per farlo occorre costruire una nuova classe istituzionale, una rappresentanza politica e diplomatica meno compromessa con la precedente situazione di sudditanza agli Usa, un parterre preparato di uomini e donne in grado di affermare le proprie idee innovative su uno scacchiere mondiale che si trasforma.
In mancanza resteremo quello che siamo, la provincia in decadenza di un impero in disfacimento sempre più pretenzioso con i sottoposti.