RITAGLI DI GIORNALE di Malachia di Armagh
L’ ipotesi di Luca Ricolfi sull’articolazione delle classi sociali nella congiuntura attuale
di Malachia di Armagh (25.03.2015)
La classe dominante nelle formazioni sociali capitalistiche attuali appare articolata in maniera corrispondente alla ripartizione in sfere o sottosistemi. Non staremo qui a disquisire su una questione prettamente teorica come quella che oppone i sostenitori della tripartizione della società – a partire dalle tre forme che il potere assume negli Stati-comunità in cui sono articolate le formazioni sociali dell’area “occidentale” e paesi vicini – e coloro che propongono una più complessa articolazione sistemica. Bobbio, tra gli altri, parla di potere politico (il potere, potestas in senso stretto), potere economico o dominio e potere ideologico o autorità. Parsons aggiunge un quarto sottosistema perché suddivide l’azione di contenimento della devianza/squilibrio all’interno di una formazione sociale particolare in due imperativi funzionali: quello finalizzato all’integrazione degli individui e gruppi, ognuno secondo modalità specifiche, nel corpo dello Stato-società e l’altro cruciale in ultima istanza, che ha come obiettivo il mantenimento del modello sociale (latente). Di fatto, però, non si può attribuire, in maniera semplicistica, alla sola sfera ideologica il compito di salvaguardare l’ordine sistemico e la persistenza del tipo di società perché quest’ultimo scopo richiede l’impiego coordinato e calcolato di tutti e tre i poteri con il loro prolungamento nelle forze armate e in quelle di polizia /intelligence. Nella voce “classi sociali” dell’Enciclopedia Italiana Luciano Gallino descrive così l’articolazione degli agenti dei gruppi dominanti nelle varie sfere:
<<Tra le classi specifiche del sistema politico rientrano in primo luogo i politici di professione: individui che per un periodo significativo della loro vita ricoprono a tempo pieno una posizione in Parlamento, nelle assemblee o nei consigli degli enti territoriali, nelle direzioni o nelle segreterie generali di partiti e sindacati. Ad essa segue la classe degli alti funzionari, coloro che trasformano in norme di comportamento specifico le direttive emanate dal centro politico o ne controllano l’attuazione. Tra di essi si annoverano i dirigenti della burocrazia pubblica e i magistrati. Avvocati, notai, commercialisti, consulenti del lavoro e simili, specializzati nel produrre servizi d’intermediazione tra il cittadino e lo stato, compongono la classe di servizio. Specifica del sistema politico è anche la classe dei militari di qualunque arma. Il sistema economico è più vasto e differenziato di ogni altro sistema. Perciò si ritrova in esso il maggior numero di classi specifiche, sviluppatesi storicamente in rapporto a un particolare modo di produzione.[…] Connesse storicamente con le origini del modo di produzione capitalistico-imprenditoriale sono le classi degli imprenditori[…]. La transizione dal capitalismo imprenditoriale al capitalismo oligopolistico ha visto crescere le classi dei dirigenti, amministratori e managers di alto livello professionale e grande potere, i quali tuttavia condividono con i lavoratori dipendenti, non essendo di norma proprietari della maggioranza del capitale delle aziende che dirigono, la possibilità di venir licenziati; e dei tecnici, il cui ruolo primario consiste nell’ideare, progettare e innovare mezzi di produzione e prodotti. Nel sistema di riproduzione socio-culturale le funzioni di trasmettere in modo sistematico da una generazione all’altra una parte cospicua delle informazioni cognitive e prescrittive che formano la cultura non materiale, d’innovare la cultura e di assicurarne la trasmissione sincronica, di trasmettere valori d’orientamento morale e affettivo di origine religiosa vengono svolte dalle classi degli intellettuali, degli insegnanti e dei religiosi>>.
Anche dove non è specificatamente indicato è poi dato per scontato che i ruoli direttivi che non abbiano, in quanto tali, per caratteristiche proprie, una competenza propriamente tecnica si avvarranno di uno specifico supporto; saranno, cioè, affiancati da individui che siano in grado di svolgere funzioni che richiedono queste competenze specifiche. Ovviamente non riteniamo per nulla esaustiva la descrizione di Gallino ma non è certo questa la sede per ulteriori approfondimenti sviluppabili a partire dagli scritti che La Grassa ha prodotto nell’ultimo decennio.
E’ forse però utile osservare alcuni punti. Penso abbia una importanza notevole la differenza che caratterizza i funzionari del potere giudiziario in ambito anglo-sassone rispetto agli altri paesi occidentali e non solo. Nell’Europa continentale il potere esecutivo e quello legislativo sono rappresentati da individui formalmente eletti dal popolo , anche se, ovviamente, la loro selezione avviene sostanzialmente ad opera degli agenti dominanti, dell’interno e dell’esterno, con la mediazione ed il contributo di partiti, sindacati, gruppi di pressione e di interesse. La selezione preliminare garantisce che l’accesso alle elitè dirigenti avvenga in un modo regolato da coloro che in quel determinato momento possiedono la supremazia. La magistratura europeo-continentale invece, e l’Italia ne è un esempio, non è nemmeno formalmente soggetta alla scelta dei cittadini mediante una votazione e questo le permette di svolgere un ruolo fondamentale, in quanto corporazione soggetta a cooptazione dall’alto, nel gioco e nei contrasti legati alla separazione costituzionale dei poteri. Per quanto riguarda gli agenti-funzionari della sfera ideologico-culturale così a suo tempo si esprimeva Costanzo Preve (1999) osservando che la nostra è l’epoca del
<<tramonto irreversibile della categoria degli intellettuali, così come li abbiamo conosciuti nell’ultimo secolo, e nello stesso tempo dell’avvento irresistibile di una sorta di nuovo clero globalizzato, americanizzato e postmoderno, che non è più composto, neppure marginalmente, da preti e religiosi di varie confessioni, ma è strutturato sulla base di una componente “secolare”, il clero giornalistico, e di una componente “regolare”, il clero universitario.[…] Le due categorie di “clero” e di “intellettuali” non si riferiscono allo stesso oggetto teorico ed allo stesso concetto. Per quanto riguarda il “clero”, che è una categoria più ampia, mi riferisco agli specialisti della mediazione simbolica e della coltivazione dell’immaginario di un’intera società, cioè di un legame sociale complessivo, che “tiene insieme” dimensioni economiche, politiche, tecniche e scientifiche che altrimenti si disgregherebbero e si frantumerebbero. Per quanto riguarda gli “intellettuali”, che è invece una categoria meno ampia, mi riferisco a quella particolare figura, prevalentemente europea, sorta alla fine dell’Ottocento, che utilizzava una legittimazione culturale prevalentemente specialistica per affermare la validità di una presa di posizione impegnata di tipo prevalentemente morale, politico e filosofico. È appunto questa la figura che sta oggi tramontando, forse non per sempre, ma certamente per questa fase storica, laddove il clero è più vivo che mai, ed ha semplicemente assunto una nuova forma, non più religiosa, ma giornalistica ed universitaria>>.
Bisogna però considerare, io credo, che gli tecnoscienziati rappresentano in qualche maniera una categoria a parte a causa del loro ruolo di servizio diretto alla produzione – in quanto preposti immediatamente allo sviluppo delle innovazioni di prodotto (e visto che anche gli scienziati “puri” delle discipline “hard” come fisica matematica, chimica ecc. esistono solo in funzioni delle applicazioni tecniche che ne derivano) – e al supporto determinante che le loro competenze rivestono per gli agenti strategici decisivi. Ed infine giova ricordare la distinzione fondamentale, ribadita più volte da La Grassa, tra gli agenti che ricoprono ruoli – anche ai massimi vertici nelle tre “sfere – di carattere tecnico-culturale o amministrativo, contabile e organizzativo e gli agenti strategici dominanti, ovvero gli autentici “capi” e “decisori”, che rappresentano la élite della società qualsiasi sia la funzione specifica da loro formalmente ricoperta.
Questa premessa, relativamente lunga in relazione alle finalità di questa rubrica, mi è sembrata necessaria per introdurre l’interessante articolo di Luca Ricolfi (1) – che a quanto ho capito risulterebbe essere la sintesi di un più ampio saggio – apparso sul Sole 24 ore del 22.03.2015 con il titolo Terza società, l’amaro lascito della crisi.
Il professore inizia rinviando ad un epoca lontana, gli anni settanta del secolo scorso, e ad un intellettuale piciista, ancora piuttosto famoso, Alberto Asor Rosa. Chi ha la mia età si ricorderà senz’altro della risonanza che ebbe la tesi sulle “due società” in un contesto, era il 1977, in cui si concludeva, in maniera disordinata e scomposta, l’onda di proteste e contestazioni giovanili, di ribellismo anticapitalistico confuso e acefalo che culminò nella demenziale rivendicazione del rifiuto del lavoro. Un rifiuto, più ideologico che reale per fortuna, che risultava collegato immediatamente al boom economico degli anni precedenti e a una condizione di benessere abbastanza generalizzato stigmatizzato da Pasolini nei termini di degenerazione consumistica. Si era in presenza, ad ogni modo, di una dinamica reale relativamente nuova che Ricolfi descrive nei termini di una
<<frattura che si era creata fra il mondo dei produttori, difesi e garantiti dal sindacato e dal Partito Comunista, e il variegato mondo degli esclusi, “fatto di emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione” (così lo descriveva Asor Rosa), privo di rappresentanza, sostanzialmente estraneo al mondo del lavoro, talora per necessità, spesso per scelta (sono gli anni del “rifiuto del lavoro”, dell’allergia al “posto fisso”, del primato dei “bisogni” più o meno proletari, come documenta una sterminata letteratura sociologica sulla condizione giovanile)>>.
Asor Rosa, si disse allora e Ricolfi conferma, prese partito per la società dei “produttori” intesa come unica forza sociale capace di affrontare la nuova crisi che improvvisamente aveva investito l’occidente e l’Italia; ma naturalmente si riconoscevano le rivendicazioni “ragionevoli” dei marginali a patto che fossero in grado di rinunciare agli eccessi. Il Pci, inoltre, come ha ricordato più volte La Grassa, iniziò proprio in quegli anni la sua grande “svolta” verso l’atlantismo e l’americanismo sotto la guida di Berlinguer e Napolitano. Ricolfi ricollega la tesi di Asor Rosa agli studiosi che, a partire dagli anni sessanta, cominciarono a parlare di “dualismo del mercato del lavoro italiano” ossia della divisione
<<fra le fasce forti e le fasce deboli dalla popolazione: da una parte i lavoratori maschi adulti (o “nel fiore dell’età”, come allora ebbe a descriverli l’economista Marcello de Cecco), dall’altra i giovani, le donne e gli anziani, tendenzialmente esclusi dal mercato del lavoro in quanto meno produttivi>>.
Nel ventennio successivo, secondo l’editorialista, l’interpretazione prevalente vide la trasformazione della società degli esclusi in una nuova società dei precari:
<< Più che sull’esclusione, si è insistito sulla piaga della precarizzazione, contrapponendo agli occupati garantiti, insediati in posti di lavoro sicuri, a tempo pieno, e protetti dai sindacati, il vasto arcipelago delle occupazioni a termine, prive di tutele e di stabilità, tipicamente riservate ai giovani e alle donne>>.
A questo punto Ricolfi introduce la sua considerazione principale riguardante le novità che la crisi recente ha provocato:
<<di società non ne convivono due ma tre. C’è la Prima società, o società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali. C’è la Seconda società, o società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato. E c’è la Terza società, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un’occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cercano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo>>.
Ma la novità non sta tanto in questa tripartizione che, aggiungo io, fa riferimento ai soli gruppi sociali dominati e/o subordinati ma piuttosto, secondo il professore nel fatto che
<<nel corso del 2014, le dimensioni della Terza società sono per la prima volta nella storia d’Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: dieci milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda società. La grande svolta, secondo la ricostruzione storico-statistica della Fondazione David Hume, sembra essere intervenuta fra il 2004 e il 2007, giusto un istante prima dell’esplosione della grande crisi del 2007-2014. È allora che il tasso di occupazione delle fasce deboli (giovani e donne) ha cominciato a perdere colpi. È allora che il peso della Terza società ha cominciato a salire vertiginosamente, a colpi di mezzo milione di persone in più ogni anno. Ed eccoci, alla fine di questa triste galoppata, ad occupare la terz’ultima posizione fra i 34 Paesi Ocse: solo in Grecia e in Spagna la Terza società è più ampia che da noi>>.
L’articolista afferma poi, con decisione, che questa situazione non è da riportare alla “anomala storia economico-sociale” del nostro paese e continua rivendicando che la Terza società, piuttosto che un retaggio del passato, appare come “un tratto distintivo dell’Italia contemporanea”. E questo “tratto distintivo” richiede, secondo Ricolfi, la nascita di una o più forze politiche che la rappresentino. E mentre la “sinistra-sinistra” e i sindacati continuano a “guardare alla Prima società e al mondo dei garantiti” e la “destra” alle “partite Iva e alla società del rischio” il PdR (il Partito di Renzi) “tenta con discreto successo di rappresentarle entrambe”. La Terza società, così, sembrerebbe non trovare nessuno capace di darle voce ma, a nostro parere, ciò può essere dovuto alla incompleta decantazione dei processi di cui parla Ricolfi. Senza scomodare i teorici della “modernità e/o società liquida” (Baumann in testa) bisogna comunque riconoscere che la Grande crisi ha innescato dinamiche di frammentazione/ricomposizione sociale intense provocando un altissimo livello di mobilità tra le tre società a cui fa riferimento l’autore dell’articolo. Anche se da tempo non lo riprendo in mano bisogna riconoscere il valore degli studi che Domenico Losurdo, un autore rispetto a cui nutriamo un profondo disaccordo su diverse questioni, ha prodotto sulle forme e i meccanismi di esclusione sociale dall’inizio del XIX secolo fino a oggi. Non è necessario, non lo è per niente, che coloro che si trovano in fondo alla scala sociale partecipino alla vita politica del loro paese e quindi siano rappresentati: l’importante è che la Quarta società, quella dei gruppi dominanti, sia in grado di strutturare e istituire le necessarie istanze che garantiscano di controllare le devianze/squilibri sociali e le anomalie che il disagio di strati sociali numericamente consistenti possono innescare.
(1) Da Wikipedia:Luca Ostilio Ricolfi (Torino, 1950) è un sociologo italiano. Al 2011, è professore ordinario di Psicometria presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, responsabile scientifico dell'”Osservatorio del Nord Ovest”, direttore della rivista di analisi elettorale Polena e membro dell’EAS (European Academy of Sociology). È inoltre editorialista di La Stampa e tiene una rubrica su Panorama. Ha scritto testi universitari di statistica e numerose opere di saggistica riguardanti l’analisi della scena politica italiana.