USCIRE DAL 68 di R. Di Giuseppe

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Se il ’68 è stato una rivoluzione, certamente non si è trattato di una rivoluzione progressista. A ben guardare, tutti i processi sociali ed i rivolgimenti messi in moto dal ’68, hanno alla lunga divelto le fondamenta su cui poggiavano da più di un secolo, i percorsi di emancipazione collettiva che avevano sospinto verso l’alto le parti più assoggettate della società occidentale. Queste erano sostenute innanzi tutto da un senso di appartenenza che le rendeva immuni dall’invidia sociale verso i ricchi e dalla conseguente, devastante, corsa alla loro emulazione. Vi era quindi una dimensione di identità che caratterizzava il conflitto tra classi. In esso, la contrapposizione valoriale ed identitaria, era maggiore addirittura del confronto generato dal dislivello politico-economico. Anzi, questo confronto, in termini collettivi, sussisteva proprio in virtù di una precisa definizione di identità sociali non mescolabili e non dialoganti tra loro. Tutte le dicotomie di cui si è nutrito il marxismo nel corso della sua storia e che innegabilmente hanno dato fiato e gambe ad un lunghissimo processo emancipativo (capitale/lavoro – borghesia/proletariato ecc.), benchè lungi dal rappresentare una realistica condizione politico-sociale ed economica, sono state tuttavia sintesi straordinariamente rappresentative di una distinzione tra soggetti totalmente differenziati ed orgogliosi, ciascuno per sè delle rispettive identità.

Già con il fascismo, nell’immediato primo dopo-guerra ed ancora più radicalmente con il nazismo, nella bufera della crisi economica di fine anni ’20, si era in parte avuto un momento di frantumazione di questa dicotomia, attraverso il formarsi di movimenti di massa orientati ad una conquista del potere vista come occasione di repentina scalata sociale. Esso rappresentava in misura prevalente la rabbiosa reazione della piccola e piccolissima borghesia al concreto rischio di una loro “proletarizzazione”. L’odio feroce verso i “rossi” nascondeva in sostanza questa non troppo inconfessata paura. Nondimeno esse chiedevano, anzi, per buona misura pretendevano, l’apertura di nuovi spazi di promozione politica ed economica fino ad allora preclusi, generando con ciò, sia pure nel solo ambito delle stratificazioni sociali borghesi, una mobilità sociale di massa, fino ad allora inedita in Europa. Ineguagliata perfino, da quella pur estesa, generata dalla Rivoluzione Francese. Questo primo processo di rimescolamento, non aveva tuttavia potuto intaccare l’essenza dei due blocchi identitari, sia pure variamente stratificati. Neppure l’esaltazione nazionalistica, condotta al parossismo dal nazi-fascismo, aveva potuto ottenere questo risultato. Le rispettive dinamiche di riconoscimento tra “popolo” e “borghesi”, erano rimaste intatte e sostanzialmente incomunicanti. Del resto era stata proprio la natura del capitalismo europeo, di stampo anglo-francese, con l’immissione di specifiche peculiarità germaniche, a dare luogo a queste chiare differenziazioni, tramite la lineare attribuzione proprietaria dei mezzi di produzione, l’affermazione di una rigida gerarchia sociale, considerata fondativa dell’ordinamento produttivo e politico, la pressoché inesistente mobilità individuale in senso verticale. Le classi sociali, nel panorama europeo, restavano quindi distinte e sostanzialmente autoreferenziali. Questa distinzione, i suoi diversi e diversamente articolati riferimenti valoriali, erano ad tempo garanzia della tenuta di riconoscimento e solidarietà dei gruppi meno abbienti, sicurezza della propria posizione per gli strati più bassi dei ceti borghesi ed infine, ostacolo all’espansione di un nuovo modello di capitalismo, di provenienza nord-americana. Quest’ultimo, nella sua già collaudata esperienza, aveva chiara la necessità di un diverso assetto culturale dell’intero corpo sociale europeo, in grado di annullare proprio questa troppo rigida distanza di valori tra i vari gruppi sociali. L’obiettivo era la strutturazione di un’omologazione quanto più estesa possibile di gusti, desideri ed obiettivi di consumo, ampia nella gamma di possibilità soggettive e trasversale per sua stessa natura. L’espansione intensiva del mezzo televisivo in tutta Europa, ha costituito, a partire dagli anni ’50 del Novecento, una strategica funzione di trasformazione. Tuttavia il processo non era né poteva essere che lento e laborioso. Troppe tradizioni, troppo consolidate consuetudini facevano da freno al suo progredire. Era necessario che venisse a determinarsi un punto di rottura.

Il ’68 ha rappresentato proprio questo punto di rottura. Il tratto decisivo è stato lo spostamento, di proporzioni davvero epocali, dell’asse del conflitto sociale dalla componente di classe a quella generazionale. Dal conflitto (semplificando) tra padroni e salariati, a quello tra genitori e figlie. Non deve stupire che all’interno di questo nuovo conflitto, inedito per caratteristiche e notevole per dimensioni ed asprezza, siano venuti confluendo anche marcati elementi della conflittualità sociale precedentemente preponderante. Anzi per tutto un periodo, più o meno prolungato a seconda dei vari contesti nazionali, è parso che il conflitto sociale connesso alle differenziazioni di classe, avesse acquisito una dimensione assai più marcatamente radicale, per non dire propriamente rivoluzionaria, che non nel recente passato.

Si trattava in realtà solo di fumo negli occhi. Come in ogni processo storico di così vaste dimensioni, non sono mancati nel ’68, negli anni che lo hanno preceduto e preparato, come in quelli che lo hanno seguito, uomini e donne appassionati che hanno creduto in pieno nella o nelle cause per le quali lottavano, dando tutto se stessi e segnando a volte la loro stessa esistenza fino al più estremo limite. Ma assai di più sono stati coloro che hanno approfittato, per così dire, dell’epoca, per recitare la parte degli oltranzisti rivoluzionari, sempre in realtà pronti a voltare gabbana, a tradire, a mandare al macello i più idealisti ed ingenui. Molti hanno adottato questo abito senza più dismetterlo, divenendo decrepiti con esso, altri hanno disinvoltamente mutato casacca con più o meno adeguato tempismo.

Il ’68 fu si, in definitiva, un momento di profonda ristrutturazione sociale, ma non nel senso progressivo con il quale si era ed è tuttora presentato. Esso si espresse attraverso una vera e propria rivoluzione culturale che tramite l’esasperazione di uno scontro senza precedenti tra generazioni, comportò un brusco mutamento nei modi d’essere, di pensare, di apparire e di conseguenza, di concepire ed attuare i sistemi e le quantità dei consumi. I furori antagonistici ed anticapitalistici, anche quelli più lenti a morire, si sono pressoché estinti, lasciando dietro di sè gruppetti di anarcoidi ampiamente infiltrati, buoni per ogni uso, tranne che per la rivoluzione. Le tanto decantate “Comuni” sessantottine non hanno lasciato praticamente traccia, come nulla è rimasto delle pretese di auto-produzione fuori dai circuiti del mercato. In sostanza, si è trattato di una sostituzione su larga scala ed in modalità iperaccelerata, di una forma di Capitale con un’altra. Il Capitalismo europeo di stampo ottocentesco è stato definitivamente soppiantato dal Capitalismo dei Funzionari di matrice nord-americana. Questo capitalismo si è mostrato infinitamente più aggressivo, vitale, prepotente e produttivo. I suoi schemi culturali non prevedono momenti di pausa, nè intralci di natura morale, per quanto ipocritamente falsati. Tutto può essere o diventare merce. Non importa che sia materiale o immateriale, legale o illegale, salutare o tossica. La merce, la benzina di ogni forma di capitalismo, diventa per quello di marca americana, un elemento da produrre in quantità indefinite, massive, logaritmiche. Le istituzioni come tribunali, magistrature, leggi, apparati amministrativi, o quelle cosiddette democratico/elettive, hanno la funzione di dare ordine e stabilità ai meccanismi che sovrintendono alla produzione di merci. Esse hanno il compito di cristallizzare, almeno in parte, i conflitti di potere determinati dalla produzione di merci stessa, dal controllo delle risorse umane e materiali necessarie a costituirle, dalla conquista e mantenimento di spazi di mercato. È vero che in realtà tali caratteristiche sono patrimonio comune anche alle formazioni capitalistiche di stampo europeo, necessarie ad evitare che quei medesimi conflitti per il potere, sfocino in uno stato di guerra permanente di tutti contro tutti. Tuttavia, per quanto fatto della stessa sostanza di quello europeo e benché fondato su questo, il capitalismo statunitense ha dimostrato una capacità espansiva esponenziale tale da mutarne la natura rispetto al modello originario. Il controllo effettivo dei mezzi di produzione non è più direttamente nè necessariamente riferito all’assetto proprietario; la direzione strategica non alberga più all’interno della fabbrica, ma trasmuta in “Impresa”; la connessione tra capitale produttivo e capitale finanziario si stringe fino a divenire inestricabile. È naturale che questo secondo capitalismo mirasse per le sue caratteristiche espansive, a sostituirsi al primo anche in Europa, sfruttando in ciò gli esiti del proprio intervento nei due conflitti europeo/mondiali (in particolare il secondo).

Le resistenze, o, a seconda dei punti di vista, le tenute, prodotte dal lento formarsi del capitalismo europeo, con tutti i suoi necessari adattamenti alla storia millenaria del continente, rallentavano in misura non accettabile questo processo di sostituzione. Del tutto ovvio quindi “puntare” sulla componente sociale di più breve memoria e per sua natura, maggiormente ricettiva nei confronti delle novità: i “giovani”. Tutto il decennio pre-sessantottino è caratterizzato da una costante pressione giovanilistica. I punti di forza sono nella musica e nella moda, dal vestiario al taglio dei capelli. Rendono possibile il processo, l’esplosione televisiva e l’aumento del benessere economico, coadiuvato (non innescato) da un costante aumento delle merci disponibili, a prezzi ora accessibili, a larghe masse di consumatori. Come detto, il grande risveglio politico che precede, accompagna ed in alcuni casi prolunga per un decennio il’68, non deve trarre in inganno. Di esso, non a caso, non resta pressoché nulla.

Notevole invece è un altro aspetto del ’68: la sua “versione” statunitense. Anche l’America, in effetti, visse una stagione, simile in apparenza a quella europea, ma in realtà sostanzialmente diversa. A dare la sensazione di un continuità tra i due eventi sta il concomitante periodo storico, la fine degli anni sessanta appunto e la massiccia connotazione giovanilistica; oltre naturalmente, alla dichiarata tendenza “radical-progressista”. Ma oltre queste vicinanze, in concreto, non c’è altro. Certo, mode, stili e gusti nei costumi giovanili erano pressoché identici al di qua ed al di là dell’Atlantico, ma è proprio per giungere a questa definitiva omologazione che prende corpo il sessantotto. I giovani americani che protestano, sono in primo luogo gli appartenenti alle classi più agiate, quelle che frequentano i campus universitari ed hanno ottenuto l’esonero dal servizio militare per i primi anni dell’impegno bellico in Vietnam. Sono gli arrivi delle prime cartoline di chiamata alle armi a questo settore della società statunitense ad innescare la protesta, i cui connotati sono logicamente a sfondo pacifista e non-violento (fino ad un certo punto). Il processo finisce per coinvolgere e sconvolgere anche il resto del corpo sociale, finendo tuttavia per far leva anche qui come in Europa, su una libertà che e’ alla fin fine essenzialmente diritto ad accedere ad un maggior potere di consumare. Gli Stati Uniti ovviamente non sono l’Europa, il capitalismo vincente e’ il “loro” capitalismo ed il comunitarismo degli “hyppies”, lascerà senza particolari scossoni, il posto qualche anno dopo, all’individualismo degli “yuppies”. Lacerante sara invece lo scontro politico interno ai gruppi dirigenti americani, che costerà la vita ai due fratelli Kennedy ed al leader dei diritti della popolazione nera Martin Luther King. Questo scontro, giocato proprio sullo sfondo della guerra del Vietnam e della questione razziale, aveva come posta in gioco la ristrutturazione del sistema politico statunitense, in relazione alla maturazione e definitiva affermazione del suo modello capitalistico, il quale, proprio a causa della sua generalizzazione planetaria, cessava di essere di esclusivo appannaggio statunitense e richiedeva perciò un diverso approccio e nuovi metodi di gestione politico-economico-militare, al fine di mantenere e semmai estendere il proprio predominio e la propria egemonia.

Tornando all’Europa, come detto, il rivestimento politico, per quanto in alcuni casi di lunga durata, si rivelerà, alla resa dei conti, un fenomeno di sostanziale copertura di un ben piu’ profondo e decisivo mutamento antropologico-culturale, ovvero un cambio epocale di mentalità e di modi di essere ed agire sia collettivi che individuali. L’orientamento prevalente, come la nostra epoca mostra in modo inequivocabile, sara’ in direzione di una forma di egoismo proprietario in grado di attraversare e di abbattere, omologandole, tutte le differenze di classe e di status sociale. Le differenze d’ora in poi, saranno connesse assai piu’ al diverso potenziale economico che a qualsiasi altro processo valoriale, dando cosi’ forma e piena cittadinanza ad un constesto nel quale l’azione di appropriazione ha comunque validità, a prescindere sia dalle sue modalità di realizzazione: legali o illegali, violente o subdole, chiare o ingannevoli; sia dalle sue conseguenze: guerre, crisi economico-sociali, migrazioni di massa, ecc. . Certo anche il capitalismo di stampo europeo, non aveva scherzato riguardo a cinismo e rapinosa violenza; basti pensare alla brutalità dei colonialismi ed all’orrore di due guerre mondiali. Ma esso non aveva mai potuto e forse mai nemmeno pensato, di poter livellare tanto radicalmente qualsiasi differenza di cultura, di ceto o di classe, in nome di un cosi’ universalmente esteso concetto di possesso, di consumo e di mercificazione.

Paradossalmente e tristemente, l’appropriazione del pensiero marxiano, già ampiamente distorto ed anchilosato, compiuta dagli intellettuali del ’68, solo assai raramente in buona fede, e’ ciò che più di qualsiasi altra forma di mistificazione e mascheramento, ha permesso che questo trapasso si compisse quasi senza colpo ferire. Dal “Vogliamo Tutto” degli esordi, fino al radicalismo ecologistico-depurativo dei nostri tempi, passando per la violenza armata degli anni di piombo, si e’ venuta formando una cortina fumogena spessa ed estesa che tutt’ora esercita la sua funzione di confusione ed ottundimento. Se e’ vero che delle velleità pseudo-rivoluzionarie del ’68 e dintorni, non resta pressoché più nulla, è però anche vero che a partire proprio da quelle mistificanti concezioni, oggi la più grande, pervasiva e controllante Potenza che la storia umana possa ricordare, passa per essere la patria e la paladina della Libertà e della Democrazia. Tanto da avere il diritto di aggredire, destabilizzare o anche distruggere, qualsiasi altro Stato o Nazione in qualsiasi parte del pianeta.

Non solo, ma questa prerogativa che appartiene nei fatti ad un solo ed unico paese, viene di volta in volta attribuita alla volontà di un insieme di nazioni che in realtà non sono altro che vassalli più o meno coartati ed il più delle volte spregevolmente supini, il cui compito e’ soltanto quello di fornire un alibi dietro il quale la potenza dominante possa agevolmente nascondersi ed agire.

Questo al tirare delle somme è ciò che effettivamente il ’68 ha determinato ed e’ essenzialmente da questa gabbia che noi dobbiamo cercare di uscire. Parole e concetti come Libertà, Diritti, Democrazia, hanno perso del tutto il loro originale significato perchè staccate completamente da qualsiasi contestualizzazione storica e politica. Basta una qualsiasi elezione truccata, in pace o in guerra, per fare una Democrazia. Basta una qualsiasi, ben orchestrata “Piazza Arancione” per strillare di Libertà. Basta una qualsiasi legge ipocrita, inapplicabile ed inapplicata, per parlare di vittoria dei Diritti. La continua distorsione di significati e sistemi di valore, il loro costante impervertimento, svolge una funzione di freno, fino alla paralisi, di qualsiasi velleità di riappropriazione di autonomia ed indipendenza, non meno potente del predominio economico o militare a cui, come europei ed ancor più come italiani, siamo soggetti. Anzi è proprio questa gabbia culturale a costituire il collante che rende così solida ed ineluttabile la nostra sottomissione.

Nulla temo sarà possibile fare, se non troveremo il modo di uscirne, di uscire finalmente dal ’68, dal suo caos, dalle sue menzogne, dalle sue velenose illusioni.