ANCORA UNA VOLTA SULLA QUESTIONE DELLA TECNICA

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In un articolo sul Corriere del 21.07.2005, che mi è ricapitato per le mani, Emanuele Severino commenta un intervento del cardinale Scola che

<<scrive di non condividere la persuasione di Habermas, che cioè “per giustificarsi, una democrazia costituzionale non ha bisogno di un presupposto etico o religioso”.>>

Per quanto mi riguarda intendo con l’espressione democrazia costituzionale quel regime politico in cui predomina la dinamica impersonale ed evolutiva dell’ordine esteso di mercato (Hayek), corretto da un sistema che tiene in qualche modo conto di alcune istanze della maggioranza dei cittadini di uno stato e garantito da norme costituzionali fondamentali, quasi immodificabili, che rendano possibile il buon funzionamento di una società liberale e il mantenimento nel tempo di questo modello. Giustamente Severino rileva che il “duro lavoro della filosofia degli ultimi due secoli” non può essere liquidato come

<<un semplice relativismo che la tradizione dell’Occidente (Cristianesimo in testa) può ritenersi legittimata a lasciar da parte […] auspicando il ritorno alla filosofia tradizionale (medioevale e antica) – ossia a quella sapienza che, scavalcata dalla filosofia moderna, da Cartesio all’Illuminismo è responsabile […] di tutti gli orrori del XX secolo.>>

E quindi, anche se il concetto di laicità risulta decisamente ambiguo, non è possibile, afferma Severino, negare la potenza con cui

<<la filosofia del nostro tempo ha mostrato l’impossibilità di ogni verità assoluta, di ogni dio, di ogni fondamento che pretenda di sottrarsi al divenire del mondo. La coscienza di questa impossibilità è il fondamento ultimo di ogni laicità>>.

In generale si tratterebbe del fenomeno storico-ideale della caduta delle utopie che porterebbe con sé la perdita di valore dello Stato etico, delle speranze emancipative universali (l’emancipazione umana del giovane Marx) e persino del cristianesimo e del suo fondamento filosofico. A questo punto il filosofo riafferma il punto da lui ritenuto decisivo:

<<E ci può essere globalizzazione perché la tecnica guida il mondo: ha emarginato quelle utopie e si muove nel clima di un pensiero filosofico che ha mostrato la loro impossibilità>>.

Ma a questo punto, terminato l’articolo, rimane ancora e sempre da chiedersi che cosa si intende veramente per predominio della tecnica. Alla fine, al di là delle profonde riflessioni di Heidegger e dei suoi allievi, ci troviamo a sbattere da una parte all’altra; quando, ad esempio, si mette in primo piano l’apparato (scientifico-tecnico) si rischia di oscillare tra la burocratizzazione e l’organizzazione come gabbia d’acciaio (Weber) e una sorta di riproposizione del primato delle forze produttive che nella loro evoluzione tecnologica, a cui la componente umana risulterebbe subordinata, guiderebbero la storia del mondo. E per quanto riguarda Heidegger c’è da dire che, e qui faccio riferimento a un sunto di un commento, risulterebbe che solo perché l’essenza della tecnica moderna sta nell’im-posizione essa si trova a dover adoperare le scienze esatte.

<<Ma l’idea che la tecnica sia scienza applicata è falsa apparenza. Essa può sembrare vera fino a quando non verrà in chiaro l’origine essenziale della tecnica. L’imposizione non è nulla di tecnico. E’ solo il modo in cui il reale si disvela come fondo. In quanto la necessità (pro-vocazione) all’impiegare l’impiegabile invia al disvelamento e l’uomo è governato dal destino del disvelamento. “Ma non si tratta mai della fatalità di una costrizione”. Questa precisazione heideggeriana conosce uno sviluppo singolare: l’essenza della libertà – dice Heidegger – non è originariamente connessa alla volontà o meno ancora soltanto alla causalità del volere umano. Ciò significa che la libertà custodisce ciò che è libero, e che è libero ciò che è illuminato-aperto. «E l’accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda»>>.

Il discorso mi pare si possa rielaborare così

: il fondo a disposizione che l’uomo può impiegare si presenta alla sua coscienza come “trascendente”; nella dimensione teoretica pura questo “al di là” si presenta come un essere che è allo stesso tempo un nulla (Hegel) o come un qualcosa che immediatamente si dà solo in termini negativi, come “assenza” (La Grassa). Ma nelle Tesi su Feuerbach Marx scrive:

<<Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell’obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente>>.

E’ proprio quando “impieghiamo l’impiegabile”, dice Heidegger, cioè nella prassi e nella poiesi (produzione) che ci si “disvela” il fondo, che l’astratto Objekt diventa il concreto Gegenstand. Questo concreto è da intendersi, naturalmente, nel senso hegeliano di sistema di relazioni, come intreccio di rapporti in cui una “cosa” è inserita, in contrapposizione all’astrazione di un essente visto come separato, isolato, irrelato. Così succede che anche nella pratica teorica l’”assenza” attraverso un processo di “mediazione” e “svolgimento” diventa ipotesi scientifica o assunto ontologico ovverosia per dirla con Bachelard che l’oggetto diventa un progetto che la prassi trasformerà in prodotto. La tecnica, per Heidegger, è quindi certamente la massima espressione dell’oblio dell’essere ma anche la via per ritornare alla “verità” in quanto ci permette di “avvicinarci a” e cogliere gli enti che si danno al pensiero e di portarli all’oggettivazione. Ma la pervasività della tecnica produce degli effetti, ritenuti da alcuni, nefasti: la conoscenza stessa diventa uno strumento, un mezzo e solamente questo al fine di realizzare artefatti che diventano merci (economia), armi efficaci (politica), costrutti logico-matematici (tecnologia) e ideologie di manipolazione (cultura). La filosofia quindi conclude la sua parabola e viene sostituita dalla tecnosofia ma un destino similare tocca alla politica per la quale ormai non vale più la massima “il fine giustifica i mezzi” ma un altra: “ i mezzi non hanno bisogno di essere giustificati perché il fine non è più in discussione, non è un problema; esso è il potere e la politica è “guerra per annientare il nemico”. Ma dobbiamo ancora lavarci gli occhi con le magnifiche dichiarazioni e compilazioni dei diritti dell’uomo e dei valori irrinunciabili della civiltà. E qui entriamo in un nuovo, grande e importante campo di discussione.

Ps

In aggiunta posso dire che in base all’opinione dei suoi commentatori la famosa Kehre heideggeriana si può ridurre in sostanza a una “svolta” principalmente politica. In Essere e tempo il filosofo avevo attribuito al soggetto umano (l’Esserci, il ci dell’essere) un ruolo così centrale da apparire alla fine in perfetta sintonia con il soggettivismo radicale
della filosofia moderna (e della Riforma). Egli stesso ha probabilmente compreso che la sua adesione al nazismo si era mossa in questa direzione, anche se si trattava di un”soggettivismo” che aveva rinnegato Cartesio e abbracciato Nietzsche. Dopo la svolta Heidegger tende a livellare l’ente umano e gli enti naturali in una comune dimensione di
dipendenza non dal dio delle religioni (che è solo l’Ente supremo) ma dal puro trascendente, l’essere.
Tutto questo in opposizione al prometeismo dell’uomo moderno e alla sua hybris (tracotanza).
Per H., alla fin fine, siamo tutti (dall’uomo alla pietra) creature di una “fonte sacra” e difatti così si esprime il filosofo tedesco nelle due citazioni che seguono. “L’uomo non è il padrone dell’essente ma il pastore dell’essere.”
” Il filosofo nomina l’essere, il poeta evoca il sacro.”

Mauro Tozzato 29.07.2015