LA CINA NON E’ PICCINA, MA NEMMENO POLITICAMENTE COSI’ GRANDE

china vs usa

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La Cina non è piccina, ma nemmeno politicamente così grande. Dalla pagine virtuali di questo recondito sito tante volte abbiamo distribuito bromuro concettuale agli eccitatissimi filocinesi di casa nostra, tutti convinti che il sorpasso di Pechino su Washington fosse solo questione di mesi o, al massimo, di pochi anni.

La lettura unilateralmente economicistica dalla quale questi mandarini improvvisati derivavano le loro ipotesi infallibili si è schiantata rapidamente sul muro della realtà. Costoro possono smettere di stirarsi gli occhi con gli indici per immedesimarsi con i futuri predominanti del pianeta e provare ad allargare il loro campo d’osservazione.

La Cina ha ancora tanta strada da fare per agganciare gli Usa, anche se è uscita da una lunga fase di arretratezza industriale e finanziaria, aprendosi all’esterno e divenendo un punto di riferimento importante per l’area asiatica. Questo è l’ottimo lavoro svolto dalla leadership cinese. Tuttavia, ci sono ancora molte contraddizioni con le quali la Cina dovrà fare i conti prima di poter scalare il tetto del mondo. Infatti, anche se quest’ultima crisi borsistica sta portando tutti coi piedi per terra, riorientando le varie previsioni, caratterizzate sempre da eccessivo ottimismo, preannunciamo che siamo appena all’inizio di una serie di terremoti che potranno sconvolgere quel paese durante la presente fase storica.

Come avevo scritto in un altro articolo di qualche tempo fa, Pechino desta, in prospettiva, delle preoccupazioni agli statunitensi per il ruolo di pivot che intende svolgere in oriente e sulle nazioni viciniore ma non di certo perché essa ha conquistando il debito estero Usa. Il primato economico americano non è, comunque, in discussione ed è dato dalla superiorità nelle industrie avanzate (compresa quella militare), dalla dimensione delle sue banche e delle sue multinazionali e dalla ricerca tecnologica. Inoltre, alla Cina, un conflitto finanziario con gli Usa non porterebbe alcun vantaggio, se non supportato da una strategia geopolitica di lungo corso. In ogni caso, una guerra puramente finanziaria non sposterebbe gli equilibri globali, modificando gli attuali rapporti di forza. Come ha detto recentemente il politologo americano E. Luttwak, in maniera anche piuttosto brutale, “la Cina è un nostro grande alleato commerciale, nostro rivale strategico ed è un Paese in cui si lavora e si produce molto. Naturalmente ci sono concorrenza e rivalità tra i cinesi e gli americani: uno dei due vuole rimanere o diventare egemone nel Pacifico. La gara è cominciata… I cinesi hanno vantaggi, e noi ne abbiamo altri. Ma vinceremo noi la sfida, perché noi abbiamo alleati in zona e loro no. Avevano un solo alleato, il Myanmar, e l’hanno perso… E chi se ne frega, [se loro detengono il 7% del debito americano] mica possono usare il debito pubblico dell’America contro l’America. Loro lo comprano per tenere lo yuan basso…C’è una regola: se ti devo mille euro, puoi fare la voce grossa. Ma se te ne devo 30 milioni, devi essere molto gentile con me, perché speri che io ti ripaghi. L’idea che detenere il debito pubblico sia uno strumento strategico è un’assurdità…Il Tesoro degli Stati Uniti può revocare il debito in qualsiasi momento. Fra l’altro non è che i cinesi abbiano ipoteche di case americane: i loro dollari sono soltanto numeri su un computer della Federal Reserve. Quindi non costituiscono alcuna arma strategica”.
Queste affermazioni tranchant ci danno ragione ed, in particolare, la danno all’economista veneto Gianfranco La Grassa che sostiene tali discorsi da anni: “La crisi cinese attuale non è ancora la vera crisi che aspetta quel paese al varco. E’ il suo prodromo nei soliti “terremoti”, in quanto tremori del suolo in superficie che soltanto rivelano la presenza di profonde “frizioni tettoniche”, pronte a produrre ben altri scossoni; se non si trova il sistema di “iniettare” in quelle “profondità” del “materiale stabilizzante”. Non credo che il sistema politico cinese – ancora “galleggiante” su una struttura sociale cambiata assai velocemente e profondamente, con grande aumento dei cosiddetti “ceti medi” e avanzata di forti gruppi imprenditoriali per il momento “fedeli” (per convenienza) al Partito-Stato, ma che faranno vedere in tempi non lunghissimi i “sorci verdi” – reggerà ancora troppo a lungo. A voler essere ottimisti già nei prossimi cinque anni assisteremo a sommovimenti non indifferenti; e nel giro di dieci (sempre con ottimismo massimo) si assisterà a qualche “ribaltone”. La dirigenza cinese ne ha qualcosa più che semplice sentore e si arrabatta non a caso con l’economia – sia nella produzione, di cui si nota il non strepitoso avanzamento tecnologico (come continuano a sostenere i superficiali di cui detto sopra) e sia nella finanza (dove sempre gli scemotti sono rimasti affascinati perché i cinesi possiedono una parte consistente del debito americano) – sintomo preciso della debolezza politica, con in profondità gli incontrollati movimenti di struttura sociale, del grande paese asiatico. L’unico paese “socialista” (finzione caduta da ormai un quarto di secolo), che ha passato un grosso sconvolgimento e adesso, almeno si spera, sia in fase di riassestamento, è la Russia. Ad essa il compito di contrastare nei prossimi anni gli Usa, le cui strategie attuali (“obamiane”) non sono un fallimento, altro leitmotiv dei superficiali. La Cina diventerà un “gigante”? Credo di sì, fra una ventina d’anni o giù di lì, se saprà rinnovare le sue strutture politiche e riassestare quelle sociali. Oggi è la Russia che deve attrezzarsi sempre meglio; altrimenti rischiamo veramente almeno un mezzo secolo statunitense”.
Un ragionamento simile sviluppa anche il Think Tank americano Stratfor che parla delle incoerenze del modello cinese, ormai venute al pettine. In particolare, la Cina deve affrontare alcune delle sue più difficili sfide economiche, dopo aver compiuto un passo nel Mar Cinese Meridionale e negli affari militari internazionali, in una modalità che esclude la possibilità di tirarsi indietro. Inoltre, queste minacce si coniugano con altre questioni, ugualmente problematiche, come il dissenso interno e la lotta intra-partito. Queste situazioni rimettono in discussione decenni di tradizioni, di potere radicato e di interessi, scrive Stratfor. Tutto ciò genera una antinomia radicale: “le politiche economiche si stanno muovendo verso la liberalizzazione, ma le politiche sociali e politiche si stanno muovendo verso l’autocrazia”. Esiste un rischio, nemmeno troppo remoto, di cortocircuito gestionale, di cui abbiamo più volte parlato anche noi.
Il timore delle autorità cinesi è che la significativa riforma economica, sottolinea ancora Stratfor, senza controllo politico stretto porterebbe ad una ripetizione della esperienza sovietica: il crollo del partito e forse anche dello Stato.
Però questo non vuol dire che la Cina sia sull’orlo dell’abisso. Significa, invece, che ci vorrà ancora del tempo prima che essa possa effettivamente scontrarsi per il primato internazionale con gli Stati Uniti, forse accadrà “fra una ventina d’anni o giù di lì, se saprà rinnovare le sue strutture politiche e riassestare quelle sociali”, suggerisce La Grassa. Staremo a vedere, ma nel frattempo confermiamo che, secondo le nostre analisi, sarà la Russia, nel breve periodo, l’unico vero grattacapo (non globale ma regionale, in una zona altamente strategica per l’unica superpotenza) di Washington, perché Mosca, pur apparendo meno incisiva di Pechino sul versante finanziario e mercatistico, ha attuato, con immensi sacrifici, quelle sue riforme sociali, economiche e militari, rendendole coerenti tra loro, richieste da una vera politica di potenza e di slancio egemonico.