SCIENZA, ARTE E FILOSOFIA AIUTANO TUTTE A COMPRENDERE LA SOCIETA’. MA L’IMPORTANTE E’ “NON RACCONTARSI STORIE”.

Karl-Marx

In alcuni passi del primo libro de Il Capitale Marx alluderebbe, cito a memoria, ad una fase storica che anticipa il primo capitalismo europeo, la quale rappresenterebbe una sorta di età aurea almeno per l’Italia, l’Olanda e altre zone dell’Europa centro-settentrionale; essa sarebbe stata caratterizzata da un indebolimento dei vincoli corporativi e del potere signorile, da uno sviluppo dei rapporti mercantili – una sorta di immagine, però sbiadita, del modello della cosiddetta produzione mercantile semplice – con unità produttive, anche nelle campagne, al cui interno i rapporti di produzione somigliavano sempre a quelli delle corporazioni medioevali ma nelle quali non vi sarebbero stati più limiti ferrei esterni alle quantità prodotte e alla circolazione delle merci con la conseguenza che il circolo mercantile M-D-M, finalizzato allo scambio per il consumo, avrebbe permesso, comunque, al flusso del plusprodotto di fruire di una maggiore mobilità orientata a garantire un alto tenore di vita alle classi e ai ceti superiori e medi, rivitalizzate e stimolate, anche, da una rinascita culturale e artistica straordinaria. Tra Leonardo da Vinci e Keplero – figure gigantesche in cui tecnica e scienza, invenzioni e metodo matematico si combinavano ancora con manifestazioni artistiche e tensioni mistiche – si sarebbe realizzata una transizione teorico-culturale declinata e denominata attraverso i grandi momenti dell’ Umanesimo, del Rinascimento e della Riforma (nella prima fase, quella caratterizzata dalle figure contrapposte e imponenti di Muntzer e Lutero). Questa epoca in cui, tra l’altro, la rinascita di una cultura neo-pagana, del magismo e dell’alchimia avrebbe ulteriormente alimentato quella tensione intellettuale che sarebbe sfociata nella rivoluzione filosofica e scientifica di Cartesio e Galileo, definitasi nell’arco del XVII secolo, appare una anticipazione di quel primo capitalismo in cui l’accumulazione originaria avrebbe strutturato il rapporto sociale dominante nei termini della sottomissione formale del lavoro al capitale. L’esplicitazione del processo logico-storico in cui il capitalismo si è poi evoluto – prima in un periodo manifatturiero-mercantile e successivamente in uno industriale-liberista, compiutamente borghese – è stato l’oggetto del lavoro teorico di Marx e dell’unica teoria, a mia conoscenza, in grado di rendere conto, coerentemente, di come il pensiero marxiano debba, e possa, essere rivisto, alla luce dell’attuale modo di manifestazione della formazione sociale capitalistica: quella di La Grassa. L’analisi scientifica della formazione e dell’evoluzione del capitale come rapporto sociale è però sempre stata contrastata – sia all’interno che all’esterno del defunto marxismo storico otto-novecentesco (che molti datano dal 1878 al 1996) – da affabulazioni, slogan ribellistici e romantiche variazioni alimentate abbondantemente dal Marx “imberbe” e comunque inedito. Il rovesciamento, il capovolgimento del significato della rottura marx-engelsiana rappresentata negli inediti, in questo caso significativi, dell’Ideologia Tedesca e delle Tesi su Feuerbach ha assunto forme grottesche con l’utilizzo, mediante stravolgimento, del pensiero di Gramsci e di Gentile allo scopo di costruire una presunta nuova filosofia della prassi fondata semplicemente sull’adesione sentimentale ad una “verità” del “bene sociale” astorica e indiscutibile. Purtroppo anche il grande Emanuele Severino, un gigante teoretico, non riesce a fare giustizia di queste farneticazioni, trovandosi più a suo agio nello spiegare come gli enti eterni possano persistere nel loro oltrepassar(e-si) piuttosto che nel comprendere come il paradiso, o l’inferno, della tecnica debbano comunque essere il risultato di sforzi umani tra loro in conflitto. Ma a questo punto può anche essere utile ricordare, cercando di essere onesti e obiettivi, come nel giovane Marx fossero realmente presenti delle spinte contraddittorie tra le quali ha avuto fortunatamente la meglio, nella maturità, quella orientata ad un approccio scientifico nei confronti dello studio della società con la conservazione e persistenza, però, per usare il linguaggio di un Cassirer, del concetto di sostanza a fianco di quello di funzione – locuzione concettuale, quest’ultima, non frequente a livello terminologico ma, con parole equivalenti, utilizzata ampiamente nella sua analisi dei rapporti sociali – e di una sorta di “metafisica” materialistica, comunque più problematica e seria di quanto si creda, e basata sostanzialmente su una particolare lettura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. In questo intervento, comunque, potrò solo accennare a questioni preliminari e in parte collegate a quelle sopra indicate. Nel suo saggio del 1843 intitolato Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione Marx scrive:

<<… affinché uno stato sociale valga come lo stato dell’intera società, bisogna al contrario che tutti i difetti della società siano concentrati in un’altra classe, bisogna che un altro stato sia lo stato dello scandalo universale, impersoni le barriere universali, […] cosicché la liberazione da questa sfera appaia come la universale autoliberazione. […] L’importanza negativa universale della nobiltà francese e del clero francese condizionò l’importanza positiva universale della classe immediatamente confinante e contrapposta, della borghesia>>.

La borghesia in quanto classe “confinante e contrapposta” non era però la classe che subiva in maniera diretta l’estrazione di pluslavoro e plusprodotto da parte delle classi dominanti; erano i servi della gleba, i lavoratori sottoposti ad altre forme di servaggio e/o dipendenza (anche nelle città) nei confronti della nobiltà e del clero che costituivano i veri gruppi sociali dominati. E nelle varie tipologie di formazioni sociali che si sono succedute nella storia non sono mai state le classi direttamente subordinate e oppresse a rendersi protagoniste dei cambiamenti sociali epocali e a prendere il posto dei ceti precedentemente dominanti ma gruppi sociali costituitisi all’interno delle contraddizioni dei modi di relazione sociale precedenti. Una certa versione del marxismo, quella prevalente, ha immaginato che il passaggio dal capitalismo al comunismo potesse, invece, essere realizzata dalla classe più direttamente sfruttata. Ovviamente questa osservazione critica su Marx e il marxismo non è “farina del mio sacco” ma rinvia al lavoro teorico di La Grassa e, parzialmente, anche di Costanzo Preve. Soltanto lagrassiana è invece l’enucleazione chiara di una lettura che vede in Marx la lotta della classe operaia (proletariato), guidata da una elité rivoluzionaria, come motore di un cambiamento che avrebbe dovuto portare alla supremazia di un nuovo gruppo sociale: il lavoratore collettivo associato con la cooperazione, libera e solidale, di tutti gli agenti della produzione, dall’ingegnere all’ultimo manovale. L’eliminazione sociale, non fisica, della classe dei rentier e delle altre forme di appropriazione parassitaria del plusvalore avrebbe permesso di godere di un ottimo tenore di vita anche a coloro che per età, malattia o altri svariati motivi non fossero, in un dato momento, in grado di lavorare; tutto questo in un contesto politico in cui la mondializzazione dei nuovi rapporti sociali avrebbe reso possibile la riduzione al minimo delle funzioni coercitive dei vari stati. Tanti marxisti avevano, e si continua a farlo ancora oggi, utilizzato ampiamente il “Marx giovane” per indebolire e confondere una teoria della società che deve progredire con la critica rigorosa e il completo rifiuto dell’ingessamento delle tesi implicate dagli assunti iniziali e da quelli che mano a mano vengono a sostituirli. Nel testo già citato precedentemente, infatti, il giovane Moro scrive ancora, a proposito delle condizioni necessarie per la piena emancipazione sociale e “umana”:

<< Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di uno sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non un ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro […], di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato>>.

Risultano del tutto evidenti, come è stato evidenziato da Preve, le analogie e i collegamenti di questi passi con tematiche teologiche – ed in particolare con la figura messianica del servo sofferente in Isaia – e il rimando palese alla kenosi, morte e resurrezione del Cristo nella sistematizzazione del kèrygma in Paolo di Tarso.

Ma il proletariato aveva bisogno di una guida e in quel momento della sua vita Marx pensava che quella “guida” dovesse essere la filosofia (e quindi i filosofi). Perciò

<<come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali, e una volta che il lampo del pensiero sia penetrato profondamente in questo ingenuo terreno popolare, si compirà l’emancipazione dei tedeschi a uomini. […] La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia>>.

Aggiungo qui qualche parola “oscura” riguardo alle quali non voglio che mi si chiedano chiarimenti: peccato che ai nostri giorni, nel XXI secolo, esistano ancora i professori di filosofia, i lavoratori esecutivi e gli operai ma non il proletariato e la filosofia, anche se – seppure in età ormai avanzata – sono ancora in vita l’ultimo filosofo e l’ultimo papa. Quando sarà il momento nel quale la dinamica sociale oggettiva (che non esclude la natura in quanto fondo a disposizione e materiale da lavoro) dei gruppi in conflitto porterà a maturazione ( o a marcescenza) le condizioni di un cambiamento, la “teoria rivoluzionaria” di leniniana (ma non “comunistica”) memoria avrà bisogno, anche, del “pensiero” e non solo delle scienze positive, ma sino ad allora sarà meglio che i “finti pensatori” non appestino l’aria e che lascino lavorare onestamente gli studiosi della teoria scientifica della società. Ma adesso spostiamoci a tre quarti del XX secolo, alla conclusione di quel periodo che uno storico intelligente come Massimo Bontempelli (solo omonimo del romanziere) chiamò “secolo brevissimo” (1914-1976 circa), e prendiamo in considerazione un poeta e regista comunista molto noto: Pier Paolo Pasolini. Sicuramente egli possedeva una discreta conoscenza dei temi marxisti, soprattutto della sua epoca, però li filtrava attraverso la sua visione da artista e anche la sua ricostruzione del passato e dei fatti storici finiva per tradursi in una ricostruzione “mitica” e “impressionistica”. Secondo la ricostruzione sostanzialmente “immaginifica” del Pasolini delle Lettere luterane (del 1975):

<<Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta […] le cose erano ancora cose fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. […] Il salto tra il mondo consumistico e il mondo paleoindustriale è ancora più profondo e totale che il salto tra il mondo paleoindustriale e il mondo preindustriale. Quest’ultimo, infatti, è stato superato definitivamente – abolito, distrutto – soltanto oggi. Fino a oggi è stato esso a fornire i modelli umani e i valori alla borghesia paleoindustriale; anche se essa li mistificava […]. Mistificati, falsificati, resi orrendi al livello del potere, essi restavano reali al livello del mondo dominato dal potere: mondo che si era mantenuto in pratica, nell’enorme maggioranza, contadino e artigianale>>.

E rivolgendosi ad un immaginario giovane interlocutore così continuava:

<<Da quando tu sei nato, quei modelli umani e quei valori antichi non son serviti più al potere: e perché? Perché è cambiato quantitativamente il modo di produzione delle cose>>.

Ma il “modo di produzione delle cose” in Pasolini non ha nulla a che fare con la distinzione marxista tra il modo di produzione inteso nel suo aspetto storico-sociale rispetto alle sue forme tecnico-organizzative, tra la struttura dei rapporti sociali e le innovazioni organizzative del processo di lavoro. Il poeta ricorda quando in gioventù, percorrendo le periferie delle grandi città incontrava i poveri e la loro povera vita; poveri operai che apparivano assolutamente, irrimediabilmente diversi dai borghesi e proiettati in maniera differente anche rispetto al futuro. Comunque erano ancora figli che si riconoscevano nei padri, “destinati a ripetere e reincarnare i padri”. E parlando al presente ma riferendosi al passato scriveva:

<<L’urbanesimo è ancora contadino. Il mondo operaio è fisicamente contadino: e la sua tradizione antropologica recente non è trasgressiva. Il paesaggio può contenere questa nuova forma di vita (bidonville, casupole, palazzoni) perché il suo spirito è identico a quello dei villaggi, dei casolari. E, appunto, la rivoluzione operaia ha questo “spirito”>>.

Ma “adesso”, l’adesso dell’ultimo Pasolini, tutto è cambiato e lo “spirito popolare” non c’è più:

<< Contadini e operai sono altrove anche se materialmente abitano ancora qui. […] Il diritto dei poveri a un’esistenza migliore ha una contropartita che ha finito col degradarla. Il futuro è imminente e apocalittico. I figli sono strappati alla somiglianza coi padri e proiettati verso un domani che, pur conservando i problemi e la miseria dell’oggi, non può che esserne qualitativamente del tutto diverso. Di rivoluzione non se ne parla nemmeno: e tanto meno quanto più se ne parla freneticamente (una frenesia che i figli degli operai hanno imparato in modo umiliante dai figli dei borghesi). Il distacco dal passato e la mancanza di rapporto (sia pur ideale e poetico) col futuro sono radicali>>.

Nella ricostruzione “mitica” del poeta friulano l’epoca preindustriale non coincide con il periodo precapitalistico come inteso nel frammento marxiano dei Grundisse, le famose Formen, che costituisce una versione ampliata dell’elenco sintetico contenuto nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859. L’età preindustriale coincide proprio con quel periodo relativamente breve che prelude al primo capitalismo e che ho cercato di descrivere, in maniera sicuramente insufficiente, nella parte iniziale di questo mio intervento. Nella sua “inverosimile”, oppure “artistica”, interpretazione Pasolini arriva ad appiattire la storia del capitalismo – sino all’inizio di quella che sociologi e filosofi vari hanno definito postmodernità ( o fase della crisi della modernità, o età tardo moderna o postfordista ecc.) – identificando la modernità nel suo complesso (protomodernità: 1492-1648; modernità classica: 1648-1914; modernità compiuta:1914-1976 ) con la fase che Marx ha denominato come quella della sottomissione formale del lavoro al capitale. Il poeta usa la locuzione “mondo paleoindustriale” per definire tutto questo lunghissimo lasso di tempo. Non staremo a discettare sull’incomprensione dell’autentico processo storico della formazione sociale capitalistica più volte ricordata da La Grassa in numerosi libri. In realtà il discorso pasoliniano mira ad un solo fondamentale obiettivo: denunciare la “scomparsa” del proletariato che anche egli, come il marxismo della tradizione finisce per identificare semplicisticamente con la classe operaia aggiungendovi magari i braccianti della campagna. Tra le cose da osservare bisogna evidenziare l’incomprensione del fatto che anche la borghesia, in particolare come soggetto culturale ed etico-politico, è entrata in dissoluzione, già a partire dall’inizio del XX secolo e che quindi è totalmente privo di senso parlare di “imborghesimento” dei proletari. In effetti mi sembra più appropriato definire il proletariato come la classe di coloro che privi del possesso (proprietà) dei mezzi di produzione sono costretti a vendere, seppure “liberamente”, la loro forza lavoro e che in prima istanza, partendo dall’etimologia del sostantivo, possono venire identificati in relazione alla loro mancanza di beni patrimoniali – oltre che ovviamente di quelli strumentali – di beni immobiliari, di oggetti d’uso durevoli e per la loro disponibilità molto limitata di denaro e quindi di possibilità di consumo in generale. Si costruì a partire da questo concetto “negativo” della classe dominata una immagine che enfatizzava il permanere di una condizione di pauperismo e un bassissimo tenore di vita come attributo astorico della medesima; nonostante ciò – se alcune precisazione marxiane sulla storicità dei bisogni e la tesi fondamentale di Lenin dello spontaneo tradeunionismo dei lavoratori subordinati fossero state prese sul serio – sarebbe stato possibile, a certe condizioni, impedire il fissarsi di questa ipostatizzazione “metafisica”. In realtà esiste storicamente un soggetto che non comprende solo il lavoro dipendente ma anche certe tipologie di lavoro autonomo e atipico e che può essere definito in termini di ruoli e funzioni all’interno delle unità produttive e in forma giuridico-sociologica, anche contrattuale, nella più articolata concezione di impresa e di mercato istituzionalmente intesi. Questa concezione, attiva e “positiva”, della figure inquadrabili all’interno del lavoro subordinato esecutivo non escludono la prima concezione di esso come “proletariato” ma rendono conto maggiormente della sua dinamica storica e confutano integralmente la presunta natura integralmente antagonistica dei gruppi dominati. La classe operaia e il lavoro dipendente e “assimilato” a esso sono il risultato di una evoluzione storica che dal periodo del capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale e ai prodromi delle nuove forme che si annunciano non smette di evolversi sia dal lato attivo, ruoli e funzioni, sia attraverso il “lavoro del negativo” che Pasolini interpretava, a suo modo genialmente come la fine di un mondo, come il dissolvimento del carattere proletario, naturalisticamente antagonistico e alternativo nei confronti del sistema capitalistico e “borghese”. Proletariato e classe operaia sono, quindi, hegelianamente, identici come insieme di individui socialmente determinati, ed opposti in quanto determinazioni specifiche e relativamente contraddittorie di un’unica realtà fenomenica. Sono stato un po’ prolisso e mi rendo conto che forse non sono risultato sufficientemente chiaro ma avevo bisogno di esprimere quello che mi frullava in testa per permettere, eventualmente, ad altri di correggere i miei errori. Un’ ultima parola su un tema che penso meriterebbe di essere sviluppato: come affermava C. Preve la critica della società borghese-capitalistica, e non solo le ideologie di legittimazione delle medesime, nasce all’interno della fase “rivoluzionaria” che comprende gli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo ( a partire da Rousseau e Robespierre). La figura hegeliana della “coscienza infelice” appare in effetti appropriata a definire una momento di passaggio in cui diversi progetti di società si presentavano come possibili nelle coscienze degli attori politici, culturali ed economici; tra questi modelli latenti è risultato vincente quello che dava la priorità assoluta al perfezionamento del funzionamento della sfera sociale che garantiva il carburante del cambiamento per l’intera formazione sociale capitalistico-borghese: quella economico-produttiva. Per concludere voglio ribadire che il lavoro di La Grassa è una teoria della società che ha bisogno di un continuo riferimento e confronto con la storia; per questo sarebbe fondamentale il supporto di ricerche e approfondimenti da parte di persone specializzate. La situazione è quella che è, il paesaggio è brullo, squallido e deprimente e sembra che qualsiasi sforzo debba risultare vano. Ma come alternativa agli sforzi che possiamo tentare rimane solo un destino di rassegnazione apatica.

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<<Il mondo dei filistei è il mondo politico degli animali, e se ne dovessimo riconoscere l’esistenza non ci resterebbe che dar semplicemente ragione allo status quo […] e l’Aristotele tedesco che volesse dedurre la sua politica dalle nostre condizioni, dovrebbe apporvi in testa il motto: “L’uomo è un animale sociale ma totalmente impolitico”>>

E riferendosi ai governanti e ai governati nella Germania del tempo:

<<Né gli uni né gli altri possono dire ciò che vogliono, gli uni che intendono diventare “uomini”, gli altri che nel paese non ci possono essere “uomini”. Perciò il silenzio è l’unica scappatoia: Muta pecora , prona et ventri oboedientia>>.

Marx a Ruge – lettera del maggio 1843

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Mauro Tozzato 30.10.2015