MEGLIO L’UTERO IN AFFITTO CHE IL CERVELLO IN SOFFITTA
Dipinto di Paolo Audia
Prendo spunto dall’ennesima sciocchezza detta da un Figosofo qualunque per mostrare l’orrida deriva della classe intellettuale italiana, ormai priva di bussola in questo mondo in trasformazione. Essa ha smesso di riflettere sul mondo per riflettersi narcisisticamente in uno specchio deformato che muta difetti e demeriti in pregi e qualità, per un pubblico completamente intronato. Non è un fatto personale, non ce l’ho col filosofastro in questione, infatti, costui giunge dopo molti altri cattivi maestri ad occupare il vuoto categoriale della nostra epoca storica, già stracolmo di molte scemenze camuffate da alti ragionamenti. I filosofi sono il simbolo della decadenza della ragione dei nostri tempi, imbroglioni che commerciano in banalità puntellando i poteri dominanti con le loro critiche fasulle al “Sistema”.
Il filosofino ha recentemente affidato alle pagine del Fatto Quotidiano questa incommensurabile cogitazione: “Il capitale, che un tempo si arrestava ai cancelli delle fabbriche, oggi si è impadronito della nuda vita: utero compreso”. Dalla vita in giù diventa per costui la vita tout court. Morbosità moralistica in veste anticapitalistica. Potremmo chiamarlo il pregiudizio della vita stretta ma non della vita alta a cui i filosofi non sono interessati, come la volpe che non arriva più all’uva e afferma: nondum matura est.
Simili stupidaggini, per attecchire tra il vasto pubblico, si mascherano da filosofie, cioè “ideozie”, di cui il nostro filosofastro non è mai parco. Il Capitale, dunque, è pure un gran sporcaccione perché “l’utero in affitto rivela l’usuale sporcizia di cui gronda”. Per questo egli è grande estimatore del feudalesimo (da buon vassallo dei Signori dell’editoria e delle reti televisive), poiché in quel periodo la nuda vita non era insediata dal Capitale anche se malvestita e sudicia. Si stava meglio quando si stava peggio, oppure prima era irrimediabilmente peggio (qui non si ritrovano filosofi e politici che mentono in modi diversi sui tempi, col medesimo obiettivo di rendere il presente un inferno) come in Cime Abissali di Aleksandr Zinov’ev: “”È questa la ragione per cui gli uomini preferiscono ingannare se stessi e si gettano da una grandiosa menzogna a un’altra più grandiosa ancora. Perché la menzogna è sempre una scoperta. E poi ci si può in qualche modo giustificare adducendo la complicazione della vita e l’ineluttabilità degli errori in buona fede…Non che mentano per cattiva intenzione o per stupidaggine, ma perché la menzogna è la forma più vantaggiosa di comportamento sociale. Tale legge agisce in modo estremamente formale e su qualunque materia. Perché mentono anche quando non v’è alcuna necessità e perfino quando ciò è nocivo, giacché non sanno fare diversamente. Il Membro disse che questa teoria non spiega le deformazioni della storia. Al contrario, disse il Collaboratore. Bisogna persuadere la gente che, prima, era ancora peggio, sempre e ovunque”.
Purtroppo, nonostante il figosofo passi per marxista dell’elaborazione marxiana non ha capito proprio nulla. Fermo all’apparenza delle cose ignora quel rapporto sociale che è il Capitale. Come scrive La Grassa: “La società in cui la merce diventa forma generale del prodotto lavorativo umano è quella in cui si è prodotta la separazione tra chi possiede i mezzi produttivi e chi fornisce – liberamente, vendendola a somiglianza di ogni altra merce – la propria forza lavorativa. Non c’entra l’alienazione della propria personalità di lavoratore in qualcosa che, in quanto merce, si estranea da lui e gli si erge contro come un alter ego nemico”.
Peraltro, crede davvero lo Spacciatore ontologico che prima del Capitale la società fosse davvero più morale o meno venale? Anziché l’utero si sarebbe venduta direttamente la donna, la madre, la moglie e la figlia senza porsi tanti problemi etici. La forza bruta del prepotente sul più debole non aveva le schermature odierne. Nel capitalismo, almeno, compratore e venditore scelgono liberamente di vendere e comprare le loro merci sul mercato, anche se si tratta di tope e di piselli. Nessuno li costringe se non la necessità di realizzare i valori delle merci che si portano appresso o addosso. Certo, chi vende quella merce speciale che è la forza-lavoro, perché non ha altro da offrire per campare, una volta entrato nel processo capitalistico, produrrà più di quello per cui è stata pagato. Il capitalista cioè si approprierà del di più di valore creato dal venditore di forza lavoro nel corso della giornata lavorativa. Ma a monte resta, in ogni caso, una decisione libera del lavoratore sul mercato.
Ergo il figosofo dice cappellate, sia sulla mercificazione che conduce inesorabilmente all’alienazione che sulle splendide armonie delle comunità antiche a cui sarebbe opportuno ritornare o ispirarsi. Ma bb asta così, preferisco lasciarvi ad un brano di Matt Ridley che con i dati e i documenti mette a nudo le assurdità dei chiacchieroni filosofici di oggi:
La “…Ci sono persone secondo cui si viveva meglio in passato. Per questi, non solo un tempo la vita era più semplice, tranquilla, socievole e spirituale di oggi, ma anche più virtuosa. Questa nostalgia per un passato a tinte rosa, vi prego di notare, è limitata ai ricchi. È più facile tessere le lodi della vita agreste quando non si è costretti a usare un gabinetto esterno alla propria abitazione. Immaginiamo di tornare al 1800, da qualche parte in Europa o sulla costa orientale degli Stati Uniti. C’è una famiglia, raccolta intorno al focolare, nella sua semplice casa di legno. Il padre legge la Bibbia ad alta voce mentre la madre si appresta a servire uno stufato di manzo e cipolle. Una delle figlie conforta il fratellino appena nato, mentre l’altro fratello versa l’acqua da una caraffa nelle tazze di terracotta disposte sul tavolo. La sorella maggiore sta dando da mangiare ai cavalli nella stalla. Fuori non si sente il rumore del traffico, né ci sono spacciatori; nel latte delle loro mucche non è stata mai trovata diossina o radioattività. Tutto è tranquillo; un uccellino canta fuori della finestra.
Ma fatemi il piacere! Sebbene la loro sia una delle famiglie più benestanti del villaggio, la sacra lettura del padre è interrotta da una tosse bronchitica che presagisce la polmonite che lo stroncherà a 53 anni, aggravata dal fumo del camino. (È fortunato: nel 1800 la speranza di vita in Inghilterra era inferiore ai 40 anni.) Il neonato morirà a causa di quello stesso vaiolo che in quel momento lo sta facendo piangere; presto la sorella diventerà un oggetto nelle mani di un marito ubriacone. L’acqua che il ragazzino versa ha il gusto delle mucche che si abbeverano nel medesimo ruscello da cui è stata attinta. La madre è torturata dal mal di denti. Il bracciante del vicino sta ingravidando l’altra figlia nel pagliaio, e il bambino che nascerà verrà spedito in orfanotrofio. Lo stufato è grigio e cartilaginoso, ma tanto i bocconi di carne sono una rarità rispetto alla brodaglia: non ci sono ortaggi né frutta in questa stagione. La zuppa viene consumata in ciotole di legno con posate di legno. Le candele sono troppo care, per cui il fuoco del camino è l’unica fonte di luce nella stanza. Nessuno dei presenti ha mai visto uno spettacolo teatrale, dipinto un quadro o udito il suono di un pianoforte. La scuola si riduce a qualche anno di noiosissimo latino insegnato da un dispotico bigotto nella canonica del villaggio. Il padre è stato in città una volta, ma il viaggio gli è costato l’intero salario di una settimana e gli altri membri della famiglia non si sono mai spinti più in là di una ventina di chilometri da casa. Ogni figlia ha un paio di vestiti di lana, un paio di camicette di lino e un solo paio di scarpe. La giacca del padre è costata un intero stipendio ma è ormai infestata dai pidocchi. I bambini dormono a coppie su un pagliericcio steso a terra. E per quanto riguarda l’uccellino fuori della finestra: domani sarà catturato e mangiato dal ragazzino4.
Se la mia famiglia immaginaria non è di vostro gusto, magari preferirete le statistiche. Dal 1800 in poi, la popolazione mondiale si è moltiplicata di sei volte, eppure l’aspettativa di vita è più che raddoppiata e il reddito reale è aumentato di nove volte5. Considerando un arco temporale più limitato, nel 2005 una persona in media guadagnava all’incirca tre volte tanto (conteggiando l’inflazione), consumava un terzo di calorie in più, perdeva un terzo dei figli e aveva un’aspettativa di vita più lunga di un terzo rispetto al 1955. Aveva meno probabilità di morire per guerra, omicidio, parto, incidente, tornado, inondazione, carestia, pertosse, tubercolosi, malaria, difterite, tifo, febbre tifoidea, morbillo, vaiolo, scorbuto o poliomielite. Aveva meno probabilità, a qualsiasi età, di contrarre un cancro, soffrire di una malattia cardiaca o subire un ictus. Aveva maggiori probabilità di essere istruito e di terminare la scuola; di possedere un telefono, un water, un frigorifero e una bicicletta. E tutto questo in 50 anni, durante i quali la popolazione mondiale è più che raddoppiata; e in cui, lungi dall’essere razionati dalla pressione demografica, i beni e i servizi disponibili sul mercato si sono moltiplicati. Secondo qualsiasi metro di giudizio, questa è un’incredibile conquista dell’umanità.
Statistiche e valori medi nascondono molte verità. Ma anche se si analizza il mondo suddividendolo per regioni è difficile trovarne una che stesse peggio nel 2005 rispetto al 1955. In mezzo secolo il reddito pro capite si è ridotto, e di poco, solo in sei paesi (Afghanistan, Haiti, Congo, Liberia, Sierra Leone e Somalia), l’aspettativa di vita in tre (Russia, Swaziland e Zimbabwe) e la sopravvivenza alla nascita in nessuno. Negli altri paesi questi valori sono schizzati in alto. Lo sviluppo dell’Africa è rimasto penosamente lento e irregolare rispetto al resto del mondo, e molti paesi africani hanno visto un rapido declino nell’aspettativa di vita negli anni novanta, durante l’epidemia di AIDS (prima di riprendersi negli ultimi anni). Vi sono anche stati periodi nei 50 anni in questione in cui il tenore di vita di un dato paese ha subito un tremendo deterioramento: la Cina negli anni sessanta, la Cambogia negli anni settanta, l’Etiopia negli anni ottanta, il Ruanda negli anni novanta, il Congo negli anni duemila e la Corea del Nord per tutto il tempo. L’Argentina ha attraversato un Novecento deludente e stagnante. Nel complesso, però, dopo 50 anni, il risultato totale del mondo è drammaticamente, sorprendentemente positivo. Un sudcoreano vive in media 26 anni in più rispetto al 1955 e guadagna quindici volte tanto (e quindici volte tanto rispetto al suo connazionale del Nord). Oggi un messicano vive in media più a lungo di un inglese del 1955. Un botswaniano di oggi guadagna più di un finlandese del 1955. In Nepal la mortalità infantile è più bassa di quanto
lo fosse in Italia nel 1951. In 20 anni la percentuale di vietnamiti che vivono con meno di 2 dollari al giorno è crollata dal 90 al 30 per cento6.
I ricchi sono sempre più ricchi, ma i poveri stanno molto meglio di prima. Fra il 1980 e il 2000 nei paesi in via di sviluppo il tasso dei consumi della popolazione povera è aumentato del doppio rispetto a quello mondiale7. I cinesi sono dieci volte più ricchi, un terzo più prolifici e vivono 28 anni in più rispetto a 50 anni fa. Persino i nigeriani sono ricchi il doppio, il 25 per cento meno prolifici e vivono 9 anni in più rispetto al 1955. Nonostante il raddoppio della popolazione mondiale, persino il numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta (definita come meno di 1 dollaro del 1985 al giorno) è sceso dagli anni cinquanta in poi. La percentuale è crollata di più della metà, e ha raggiunto il 18 per cento8. Resta una cifra tremendamente alta, certo, ma la tendenza è tutt’altro che deprimente: se la percentuale continuerà a scendere con lo stesso ritmo che ha tenuto finora, raggiungerà lo zero nel 2035, anche se è improbabile che ciò accada. Secondo le stime delle Nazioni Unite, la povertà si è ridotta di più negli ultimi 50 anni di quanto non sia successo negli ultimi 5009.
Ritorno in Arcadia
Eppure sicuramente, tanto tempo fa, prima del commercio, della tecnologia e dell’agricoltura, gli esseri umani conducevano un’esistenza semplice e in armonia con la natura. Quella non era certo povertà, ma «l’originale società opulenta»76. Scattiamo una fotografia della vita dei cacciatori-raccoglitori nel loro periodo d’oro, diciamo 15.000 anni fa, molto dopo l’addomesticamento del cane e lo sterminio del rinoceronte lanoso, ma appena prima della colonizzazione delle Americhe. Gli esseri umani avevano archi, frecce, propulsori, imbarcazioni, aghi, asce e reti. Dipingevano opere d’arte stupende sulle pareti delle caverne, si ornavano il
corpo, si scambiavano cibi, conchiglie, materie prime e idee. Cantavano, ballavano, raccontavano storie e si curavano con preparati a base di erbe. Vivevano molto più a lungo dei loro antenati77.
Avevano uno stile di vita adattabile a quasi tutti gli habitat e le zone climatiche del pianeta. Laddove le altre specie avevano bisogno di una determinata nicchia ecologica per sopravvivere, i cacciatori-raccoglitori potevano insediarsi più o meno ovunque: in riva al mare come nel deserto, nell’Artico, ai tropici, nelle foreste o nella steppa.
Un idillio rousseauiano? Di sicuro quei nostri antenati avevano l’aspetto del buon selvaggio: alti, atletici, sani e con meno ossa rotte dei Neanderthal (avendo sostituito le lance da impugnare con quelle eiettabili). Consumavano molte proteine, pochi grassi e tante vitamine. In Europa, con l’aiuto di inverni sempre più rigidi, avevano quasi sterminato i leoni e le iene, predatori e concorrenti dei loro antenati, per cui avevano poco da temere dagli animali selvatici78. Non c’è da meravigliarsi, quindi, nell’osservare tutta questa nostalgia per il Pleistocene presente nelle odierne polemiche contro il consumismo. Geoffrey Miller, per esempio, nel suo eccellente libro Spent, chiede ai lettori di immaginare una madre di Cro-Magnon di 30.000 anni fa che vive «in un clan molto unito di familiari e amici […] che raccoglie frutta e verdure biologiche […] si cura, danza, suona e canta con persone che conosce e ama, e di cui si fida […] [mentre] il sole sorge sui 24 chilometri quadrati di verdeggiante Costa Azzurra posseduti dal suo gruppo»79.
Sì che la vita era bella, allora… Ma ne siamo proprio sicuri? C’era un serpente nel paradiso terrestre del cacciatore-raccoglitore, un selvaggio nel cuore del buon selvaggio. Forse la vita del nostro antenato in realtà non era una lunga vacanza nella natura, come sembrerebbe a prima vista: la violenza era una minaccia costante e onnipresente. Doveva per forza esserlo, perché in mancanza di un vero predatore, la guerra era il mezzo per mantenere la popolazione al di sopra della soglia della carestia. «Homo homini lupus» disse Plauto: l’uomo è un lupo per l’uomo. Se i cacciatori-raccoglitori erano agili e sani era perché i loro compagni grassi e lenti erano stati sterminati.
Ecco i dati. Dai !kung del Kalahari agli inuit dell’Artico, i due terzi dei moderni cacciatori-raccoglitori vivono in uno stato di guerra permanente, una situazione che l’87 per cento di loro sperimenta ogni anno. Il termine guerra è un po’ esagerato per descrivere scaramucce, incursioni all’alba e una buona dose di messinscena, ma dato che questi episodi si susseguono con una certa frequenza, il tasso di vittime è molto elevato: di solito il 30 per cento circa dei maschi adulti muore di morte violenta. In molte società tribali i “morti in battaglia” sono all’incirca lo 0,5 per cento l’anno80. Questo equivarrebbe a due miliardi di persone nella nostra società nel ventesimo secolo (anziché i cento milioni effettivi). In un cimitero scoperto a Jebel Sahaba, in Egitto, risalente a 14.000 anni fa, ventiquattro defunti su cinquantanove erano morti per ferite provocate da lance, dardi o frecce81. Quaranta erano donne e bambini. Di norma questi non prendono parte ai conflitti, ma spesso sono l’oggetto della contesa. Essere rapita come
ottino di guerra e vedere i propri figli uccisi di certo non era un evento raro per una donna nelle società di cacciatori-raccoglitori. Dopo Jebel Sahaba, dimentichiamoci il giardino dell’Eden: pensiamo piuttosto a Mad Max.
Non c’era solo la guerra a limitare la crescita della popolazione. Le tribù di cacciatori-raccoglitori erano spesso soggette a carestie. Anche quando il cibo abbondava, a volte gli spostamenti e le fatiche necessari per raccogliere una quantità di alimenti sufficiente a garantire una nutrizione adeguata alle donne, e di conseguenza anche la loro fertilità prolungata, erano eccessivi. L’infanticidio era un rimedio diffuso nei periodi difficili e le malattie una minaccia sempre presente: cancrena, tetano e molti altri parassiti devono aver decimato intere popolazioni. Ho già menzionato la schiavitù? Molto diffusa nelle regioni nord-occidentali dell’America. E la violenza sulle donne? Di routine in Terra del Fuoco. E la mancanza di sapone, acqua calda, pane, libri, film, metallo, carta, tessuti? Se qualcuno vi dice che preferirebbe essere nato in un’epoca passata, a suo avviso più idilliaca, ricordategli come ci si faceva la toeletta nel Pleistocene, o i mezzi di trasporto degli imperatori romani, o ancora i pidocchi di Versailles”.