LA MENZOGNA DELLA PREMINENZA FINANZIARIA
di Gianfranco La Grassa
1. Oltre un secolo fa Hilferding scrisse il suo principale (e famoso) libro: Il capitale finanziario. Alcuni marxisti, presi da troppo facile entusiasmo, lo considerarono il nuovo Il Capitale o comunque la sua continuazione, una sorta di IV libro. Questo testo è nella sostanza invecchiato. Lenin lo criticò subito perché dava eccessiva importanza al capitale bancario. Tuttavia, va detto che Hilferding non fu così sciocco come gli economisti odierni; il suo capitale finanziario non è esclusivamente bancario, è un intreccio di questo con quello industriale. Indubbiamente però nell’intreccio tra i due, il bancario veniva trattato come quello decisivo.
Ciò indubbiamente fu dovuto al carattere assunto dallo sviluppo economico nei paesi della seconda ondata industriale, tenuto presente che la prima riguardò la sola Inghilterra. Quelli della seconda erano soprattutto Germania, Giappone; e indubbiamente gli Stati Uniti, paese che ebbe però caratteristiche particolari (non notate all’epoca), prese più volte da me in esame. La seconda ondata di industrializzazione vedeva in primo piano le società per azioni, un già avanzato processo di centralizzazione dei capitali (da non confondere con la concentrazione come sovente si fa) e la conseguente, iniziale, presa in considerazione di quella forma di mercato detta monopolio; anche se, più precisamente, si sarebbe dovuto parlare di oligopolio come più tardi infatti si fece.
Lenin, distanziandosi dall’impostazione di Hilferding, usò la felice espressione di simbiosi per indicare quell’unione di bancario e industriale che dà vita al capitale finanziario. Indubbiamente, anch’egli optò per una certa preminenza di quello bancario nella simbiosi e inoltre fece una concessione di troppo all’ortodossia di allora, mettendo l’aspetto monopolistico del capitale al primo posto nell’elencazione delle caratteristiche (cinque) dell’imperialismo. Così facendo, attribuì al predominio di certi paesi un connotato eccessivamente economico (come fosse quello principale, in omaggio alla marxiana centralità della sfera produttiva nella costituzione della società). Nel contempo, però, il leader del bolscevismo criticò aspramente la concezione kautskiana che di fatto identificava imperialismo e colonialismo, cioè conquista di paesi a carattere agrario da parte di quelli industriali; da cui derivava quindi l’idea che i paesi soggetti a dominazione imperialistica fossero semplicemente fornitori di prodotti agricoli e materie prime (e fonti di energia). Lenin si oppose a simile semplificazione, ma non arrivò fino ad affermare che allora l’imperialismo era soprattutto un policentrismo acutamente conflittuale per la redistribuzione delle sfere di influenza tra le varie potenze (la quinta caratteristica dell’imperialismo secondo la sua interpretazione).
Bisogna ben capire i motivi dello “scintillio” delle banche che offuscava la vista di tutti coloro che analizzavano il capitalismo dell’epoca; ricordando fra l’altro che la seconda ondata di industrializzazione coincideva di fatto con la seconda rivoluzione industriale, quella della chimica, del motore a scoppio, delle comunicazioni via radio e via dicendo. Questa seconda ondata – legata non semplicemente ad innovazioni di processo (tecnica e organizzazione dei processi lavorativi) ma soprattutto alle innovazioni di prodotto (con apertura di interamente nuovi settori produttivi) – implicava l’esigenza di assai più ampi investimenti di capitali. Si accentuò la creazione di sempre più grandi società per azioni. Queste si procuravano i capitali con un’ampia distribuzione e diffusione del capitale azionario; in mano a piccoli azionisti mentre i pacchetti di comando appartenevano ai veri proprietari capitalisti, che formavano i consigli di amministrazione, eleggevano l’amministratore delegato, ecc. A parte le azioni, vi erano forti acquisizioni di capitali mediante l’emissione obbligazionaria.
Le banche erano nate soprattutto come istituti di raccolta del cosiddetto risparmio; è tuttavia ovvio che il denaro raccolto veniva investito in crediti a soggetti vari, fra cui importanti erano le imprese industriali. Tuttavia, con la concentrazione del risparmio in grandi istituti bancari nazionali, circondati da una rete di più piccole banche a carattere locale, il denaro servì pure per investimenti bancari in azioni ed obbligazioni. Le banche, soprattutto quelle nazionali, fornivano capitali alle maggiori imprese industriali (le locali all’imprenditoria industriale di minori dimensioni); esse divennero quindi sovente azioniste di maggioranza o di minoranza cospicua in queste imprese, con forte presenza nei consigli di amministrazione e negli apparati direttivi in genere. Lo stesso dicasi per l’acquisto di obbligazioni che le vedeva comunque robuste creditrici nei confronti di imprese industriali, costrette così a concessioni di vario genere non soltanto di carattere esclusivamente monetario.
2. Per afferrare meglio le distorsioni interpretative che si sono oggi create, facciamo una breve digressione parlando del mercato come sfera di grande scenografia, che cattura l’attenzione principale della stragrande maggioranza degli spettatori. Nella società capitalistica, tutto diventa merce e ogni merce è mediata dalla moneta poiché il baratto renderebbe complicato lo scambio. Quest’ultimo, così facile e generalizzato, conduce alla competizione, anch’essa generalizzata, tra i produttori della stessa merce o di merci simili. L’attenzione del “pubblico” è concentrata su questo palcoscenico che è il mercato, dove si cerca di acquistare ai prezzi migliori (i più bassi, compatibilmente con la sensazione di una simile qualità dei prodotti in concorrenza). Dietro la scena (nei processi produttivi), la competizione si sostanzia di innovazioni tecnico-organizzative capaci di abbassare i costi di produzione; oppure di innovazioni di prodotto, effettive o indotte nell’opinione comune tramite pubblicità, ecc.
Ai consumatori non interessa più che tanto ciò che accade dietro la scena; essi guardano soprattutto ai prezzi dei prodotti e alla loro qualità, reale o creduta. Tuttavia, quella parte del processo che si svolge dietro le quinte – e che riguarda in particolare la competizione a suon di innovazioni di processo (tecniche e organizzative) e di prodotto – è tutto sommato nota, nelle sue linee generali, alla pubblica opinione poiché l’ideologia dominante ha capillarmente diffuso la concezione del mercato come luogo in cui si affrontano soggetti (gli imprenditori, detti anche capitalisti, soprattutto da coloro che sono influenzati da concezioni anticapitalistiche) capaci di innovare secondo le due modalità appena dette. Il mercato è il luogo massimamente virtuoso, dove si trova di che vivere a prezzi (e altre condizioni) sempre migliori grazie alla competizione, che ivi si sviluppa in “piena libertà” (anche libertà di estrinsecare appunto le proprie capacità innovative). Il mercato sarebbe il vero teatro dove avviene la migliore recita possibile per i componenti la società. Nulla sarebbe superiore a questo teatro “all’aperto”, “trasparente”, dove tutto sembra in sostanza chiaramente visibile.
Le sedicenti virtù del mercato sono state ulteriormente vivificate dal fallimento dell’altrettanto sedicente socialismo, creduto esistente in Urss e nei paesi confluiti nella sua area di influenza dopo la seconda guerra mondiale; e poi in Cina e in qualche altro paese in via di sviluppo (cioè sottosviluppato e in massima parte contadino). In realtà, non c’è mai stato socialismo né costruzione dello stesso. Si erano andati formando paesi a struttura politica monolitica, fondata sulla sostanziale fusione tra partito e Stato, che pareva tutto pianificare in modo centralizzato; ove più ove meno, ma sempre con notevolissimo controllo della produzione e della distribuzione.
Come ha cercato di porre in evidenza Bettelheim, il mercato nel preteso socialismo è stato conculcato, represso, schiacciato dall’azione dell’apparato statale a ciò preposto con l’intendimento di superare la competizione tra proprietari privati e di fondare il calcolo economico su un preordinato coordinamento intersettoriale del sistema produttivo, che avrebbe dovuto toccare livelli di sviluppo impensabili con l’anarchia mercantile capitalistica; e soprattutto conseguire questo sviluppo con ritmo costante senza l’interruzione tipica delle crisi capitalistiche. Ci si scordava che in Marx questa convinzione si basava sulla presupposizione, rivelatasi errata, della formazione di un corpo sociale di produttori associati (pur con diverso livello gerarchico), cui la rivoluzione (e l’abbattimento dello Stato borghese) avrebbe assegnato l’effettivo potere di disporre dei mezzi di produzione. E sarebbe inoltre stato superato in modo netto il mercato con i suoi particolari stimoli competitivi, dando vita ad una effettiva cooperazione generale tra i suddetti produttori.
Non venne mai ad esistenza questo corpo di produttori associati e il potere di disporre in questione fu puramente e semplicemente dello Stato (detto impropriamente socialista), cioè del partito fortemente gerarchizzato che ne controllava tutte le leve del potere. Si è creato uno iato tra Stato (partito) e sistema economico; e le dirigenze interne a quest’ultimo (quelle che nel capitalismo guidano le unità produttive pluriarticolate dette imprese) non solo non avevano nessun rapporto di “associazione cooperativa” con gli altri lavoratori (ai vari livelli gerarchici e in diversi settori produttivi), ma non nutrivano altro interesse che soddisfare alla bell’e meglio le esigenze delle dirigenze politiche; senza alcun vero potere – e nemmeno desiderio e ambizione – in tema di innovazioni di processo e di prodotto.
In definitiva, in simili condizioni, la pianificazione non superava affatto il mercato e la sua anarchica competizione; semplicemente spegneva quest’ultima e inaridiva ogni effettiva spinta allo sviluppo. Le sedicenti “imprese socialiste” erano soltanto dei grandi apparati “impiegatizi”, dove tutti facevano il minimo indispensabile ad adeguarsi agli obiettivi posti dalla pianificazione, prestabiliti cioè da apparati diretti da altri “impiegati” privi di effettive conoscenze dei vari settori produttivi. Lo sviluppo andò progressivamente inaridendosi man mano che ci si allontanava dall’entusiasmo iniziale della “rivoluzione” e dalla necessità di superare le condizioni di grave arretratezza e miseria. S’imparò, insomma, a barcamenarsi a tassi di sviluppo sempre più bassi e con tenore di vita nettamente inferiore a quello dei paesi del capitalismo, di quella società che invece, si sosteneva, avrebbe conosciuto il freno allo sviluppo rappresentato dalla proprietà privata e dalla ricerca del massimo profitto. Si dimostrò, forse come mai prima, quanto la competizione sia essenziale per ogni avanzamento in tutti i campi: produttivo, scientifico, ecc. (perfino culturale in senso generale).
3. Arrivati a questo punto, alla fine ingloriosa dei tentativi “socialistici”, il mercato ha ritrovato la sua aureola. Nessuno – che non sia un semplice attardato in improvvide speranze di resuscitare il cadavere del socialismo (anzi, si osa parlare addirittura del comunismo!) – mette più in discussione il mercato. Anche in Cina, l’unico paese della vecchia congrega detta “socialista” capace di sviluppo (attualmente in ribasso), si è parlato di “socialismo di mercato” (ossimoro). E oggi anche tale espressione viene viepiù dimenticata e quasi tutti – perfino quelli che, quando è necessario per i loro fini propagandistici, parlano ancora di “Cina comunista”; alcuni cretini addirittura di “Cina marxista” – ammettono il carattere capitalistico di tale paese. Va detto che definire capitalistiche le formazioni sociali uscite da quel processo iniziato con la Rivoluzione d’ottobre è un ulteriore errore; non sappiamo bene cosa siano. Tuttavia, siamo consapevoli del loro odierno fare largo uso di criteri mercantili e del progressivo abbandono del controllo troppo centralizzato. In linea generale, quegli organismi definibili imprese tendono a seguire modalità d’azione sempre più simili a quelle vigenti nei nostri paesi “occidentali”.
In definitiva, il mercato torna ad essere sia il vero fulcro del capitalismo sia un sistema di organizzazione del sistema economico che nessuno osa più criticare, salvo che per le eventuali deviazioni dal “corretto” comportamento compiute dagli imprenditori. A parte gli attardati di cui sopra detto, nessuno cerca più di vedere cosa accade sotto lo scintillio del mercato e delle sue provvide leggi “oggettive” (in definitiva, variazioni sul tema della smithiana “mano invisibile”). Qualcuno critica la “globalizzazione” (mercantile appunto); del resto una semplice farneticazione di coloro che si sono (sarebbe ormai meglio dire: erano) inventati pure la fine degli Stati nazionali. E’ tanto totale questa globalizzazione che gli Usa insistono per il TTIP (area di libero scambio comprendente Usa e UE) e mettono in guardia i paesi europei dall’esagerare nella liberalizzazione degli scambi con la Cina.
Quanto alla fine degli Stati nazionali, solo un cieco (o in malafede) non si accorge che esiste nel suo senso più pieno quello degli Stati Uniti; e così pure quelli russo e cinese, e altri ancora. Nella UE sono carenti gli Stati, ma non certo perché si sia dissolto il loro carattere nazionale. Ormai è oggi sempre più evidente il fallimento dell’Unione europea; ogni paese pensa a se stesso. Semplicemente i paesi di quest’area sono sottomessi da settant’anni agli Usa (a partire dall’Inghilterra, il più prono). Vi è qualche malcontento (e soprattutto proprio in Germania, malgrado i limiti gravi del governo tedesco); tuttavia, al momento, i paesi europei sono ancora incapaci di opporsi seriamente all’unica superpotenza rimasta. Non c’entra nulla la fine degli Stati nazionali, una vera invenzione di personaggi o inetti o servi degli Usa; lo sono anche quelli che continuano a passare per ipercritici, per “grandi rivoluzionari”.
Siamo quindi al punto cruciale: non si può più criticare il capitalismo secondo la concezione di Marx, che aveva posto in luce, con la teoria del valore e plusvalore, come lo scambio mercantile possa avvenire nella situazione di più completa libertà degli scambisti, non ledendo in nulla la loro eguaglianza di esseri sociali non più affetti dai vincoli servili delle società precedenti; e ciononostante sussiste lo “sfruttamento” nel senso che una parte del valore prodotto dai venditori di merce forza lavoro verrebbe egualmente sottratto alla loro disponibilità e posto in quella dei proprietari dei mezzi di produzione (i capitalisti). In Marx vi era la previsione di un processo che avrebbe condotto, sia pure tramite rivoluzione, al potere realmente collettivo di disporre di tali mezzi e al pieno superamento della soltanto formale eguaglianza nel semplice scambio mercantile; si sarebbe trattato della società socialista in quanto prima fase di un processo storico, che avrebbe poi consentito il completo dispiegamento delle forze produttive e il conseguente sviluppo della produzione in direzione del ben noto “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, principio basilare della formazione sociale comunista.
La previsione era errata e il cosiddetto “socialismo reale” non fu altro che proprietà statale con tutti i difetti sopra ricordati e il progressivo blocco delle forze produttive. Lo scambio mercantile è tornato in auge. L’eguaglianza nel mercato sarebbe il massimo che sia possibile conseguire e permetterebbe, mediante la competizione tra soggetti sciolti da ogni vincolo di servaggio, di innescare un processo evolutivo delle forze produttive – sia pure caratterizzato da arresti (crisi) e da una differenziazione accentuata dei livelli di reddito conseguiti dai vari strati sociali – in grado comunque di elevare complessivamente il tenore di vita delle popolazioni viventi in regime capitalistico. Il capitalismo sarebbe quindi la meno peggiore delle società sia attuabili sia, ormai, pure pensabili. Chi non riesce a liberarsi della mentalità economicistica – la sfera economica sarebbe quella principale e, in definitiva, determinante le strutture sociali capaci di sviluppo e di ottenere il benessere della popolazione – non può che esaltare questa forma societaria. Se non vuole a tutti i costi abbandonare l’atteggiamento critico e il tentativo di individuare un suo punto debole, deve allora seguire una strada pressoché obbligata.
4. Oggi la critica anticapitalistica è concentrata solo su due punti. Innanzitutto una contestazione di tipo cristiano o qualcosa di simile. E anche i comunisti rimasti non si differenziano da tale atteggiamento che potremmo definire misericordioso. Si tratta di provare pietà per i sedicenti oppressi o almeno una forte indignazione. Lo sfruttamento – invece che essere basato come in Marx e nel marxismo sulla teoria del valore e plusvalore (l’ho spiegata altrove più volte e non vi torno adesso qui) – è preso nel suo senso comune come se i cosiddetti dominati fossero soggetti ad una sorta di obbligo al lavoro e di spoliazione mediante esercizio di potere e asservimento. E’ una forma di semplice pietismo, in genere fortemente ipocrita; e in ogni caso è un ulteriore peggioramento di quello che fu il terzomondismo, già una concezione ampiamente degradata rispetto all’oggettività e lucida freddezza dell’impostazione scientifica marxiana, tutto sommato avulsa dall’emotività a favore degli “umili e diseredati”.
Chi non è pervaso da uno stato d’animo in fondo caritatevole e “pio”, e rivolge al capitalismo una critica in qualche modo strutturale e rivolta al sistema delle relazioni vigenti in tale formazione sociale, cade sempre nella considerazione delle distorsioni inerenti alla finanziarizzazione di dati rapporti. Solo che in tal caso, il capitale finanziario non è più, come considerato da Hilferding e Lenin, un intreccio tra capitale bancario e industriale. Quest’ultimo è messo da parte nel concetto di finanziario che hanno oggi gli economisti, ivi compresi quelli anticapitalisti. Si tratta del capitale in mano alla finanza, cioè a quei gruppi che agiscono esclusivamente tramite somme monetarie; e queste si muovono nelle banche, nelle borse valori, ecc; in ogni dove, insomma, si verifichino operazioni che riguardano la liquidità o quanto è assimilabile al liquido. In definitiva, si tratta del denaro e di titoli espressi nello stesso, che cambiano di mano in un continuo ciclo monetario, senza mai passare per un “intermezzo” produttivo o di smercio di prodotti finiti.
Espresso in simboli, non sussiste il ciclo D-M (materie prime e forza lavoro)-P (processo produttivo)-M’-D’ (con M’ e D’ maggiori di D e M iniziali per l’erogazione del pluslavoro/plusvalore in P); e nemmeno si verifica un M’-D-M’’, con M’’ diverso (come tipo di merce) da M’. Abbiamo invece il ciclo D-D dove possibilmente si cerca di far sì che il secondo D sia quantitativamente maggiore del primo; ma si può invece facilmente perdere nelle varie operazioni del settore finanziario. Di solito qualcuno ci perde e qualcun altro ci guadagna, ma in genere, fatta la differenza tra guadagni e perdite, risultano a volte maggiori i primi e a volte maggiori le seconde. Basti pensare al gioco in Borsa, il cui carattere è presente anche in altri settori.
Quando un secolo fa, Hilferding e Lenin (e Kautsky e ogni altro marxista serio) parlavano di capitale finanziario, intendevano prendere atto sia della seconda ondata di industrializzazione dei paesi che seguivano l’Inghilterra (anzi andavano provocando il suo relativo declino) sia delle già ricordate innovazioni tipiche della seconda rivoluzione industriale. Si trattava di settori dell’industria pesante con grandi macchinari e impianti, che richiedevano forti investimenti di capitali in genere presi a prestito dalle banche, anch’esse mediamente imprese di grandi dimensioni. Esse raccoglievano i risparmi e davano a credito soprattutto alle imprese industriali; e non solo per il credito detto ordinario, di esercizio, ma pure per quello poi immobilizzato a lungo, appunto negli investimenti di macchinari, impianti e quant’altro. E’ evidente che chiedessero garanzie; e fra queste vi era l’infilare propri uomini nei consigli di amministrazione delle imprese debitrici. Da qui quella certa prevalenza assunta infine dalle banche (in specie in Germania, il cui capitalismo influenzò nettamente il marxismo dell’epoca), che in molti casi assunsero l’effettiva direzione di grandi imprese degli altri settori economici, in specie di quello industriale. Da qui la concezione del capitale finanziario quale unione (o “simbiosi”) di bancario e industriale.
Non ci si riferiva affatto al capitale di quel settore detto Finanza, così come è in uso fare invece oggi da parte di assai scadenti economisti, giornalisti, uomini politici, ecc. Ed è proprio sul concetto di capitale finanziario come bancario più industriale che si è verificato un certo restare indietro del marxismo, tutto preso, lo ripeto, dalle caratteristiche del capitalismo germanico, mentre si andava affermando sempre più nettamente quello statunitense, che mostrò caratteristiche assai diverse. Se ci si vuol attenere ancora all’unione tra bancario e industriale, si deve dire che nel paese d’oltreatlantico prese quasi da subito piede la preminenza del lato industriale; salvo, forse, che in alcuni settori economici del New England, quelli da cui Veblen trasse la sua concezione di “classe agiata”, piuttosto arretrata e abbastanza simile al punto di vista di Marx, che vedeva un capitalismo in fase di invecchiamento e preda ormai dei rentier, dei semplici proprietari azionisti. Le grandi corporations industriali si crearono invece spesso proprie banche, oltre a raccogliere parte dei fondi a prestito tramite le emissioni obbligazionarie, senza però farsi strozzare da queste ed evitando quindi di cadere sotto la tutela degli obbligazionisti, magari ancora una volta grandi banche.
Sappiamo inoltre che il capitalismo americano non vide soltanto – e nemmeno fu la sua principale e decisiva caratteristica – il sopravvento dell’industriale sul bancario. Esso mise in luce assai presto il suo carattere manageriale, afferrato molto più tardi da Burnham (1941), quando però questi era ormai divenuto ex marxista e fortemente filo-capitalista. Venne così in evidenza la non centralità della proprietà dei mezzi di produzione, tipica del pensiero di Marx e di tutto il marxismo, sulla cui base si immaginarono, come ho più volte messo in luce, “provvide” dinamiche oggettive – in atto nello stesso grembo della formazione (economico) sociale capitalistica – che l’avrebbero portata, sia pure tramite una rivoluzione capace di abbattere lo Stato borghese, verso il socialismo e poi il comunismo, processo che per alcuni decenni si pensò, del tutto erroneamente, già in atto nell’Urss. Questa individuazione del carattere manageriale era un gran passo in avanti rispetto alla semplice considerazione della predominanza dell’industriale nella sua “simbiosi” (finanziaria) con il bancario; considerazione che però, a sua volta, era ben più avanti della miserabilità di quella concezione che dimentica il primo e rende la Finanza il vero aspetto decisivo del capitalismo. Il managerialismo resta pur tuttavia agganciato a un’impostazione ancora prevalentemente economicistica dei processi sociali nel capitalismo; e per questo l’ho criticato tentando di spingermi oltre.
5. Riassumiamo. La peggiore di tutte le concezioni del capitalismo “più moderno” è quella che considera in esso la predominanza della Finanza, di quel settore dedito al ciclo D-D, puramente monetario (o costituito da titoli immediatamente traducibili in moneta), settore che evidentemente si concentra su tale ciclo e quindi non può evitare la speculazione ad esso connaturata. Un passo avanti stanno quelle concezioni – cui appartenne in questo dopoguerra anche il marxismo migliore (o meno peggiore) – che vedevano nel capitale finanziario l’inversione della predominanza dei due capitali costitutivi dello stesso: non più il bancario prevalente, bensì l’industriale. Infine, a livello ancora superiore, viene la presa d’atto che la proprietà non è più l’aspetto fondamentale (per quanto sia ancora ampiamente presente e influente), bensì lo è la presenza di forti apparati direttivi di carattere manageriale.
E’ evidente che i manager possono anche possedere delle azioni, ma non sono i proprietari dei pacchetti azionari di maggioranza; eppure sono essi a dirigere effettivamente l’azienda. Più in generale, tuttavia, il problema decisivo è che non si arriva al punto in cui, come pensavano Marx e il marxismo (e pure Veblen), esistono quasi esclusivamente proprietari estranei alla produzione e divenuti semplici rentier, fruitori dei dividendi azionari e basta. Proprietario o manager che sia, il vero (grande) imprenditore resta in effetti piuttosto all’“esterno” della produzione nel suo specifico significato (e dei processi strettamente aziendali nel loro complesso), ma è pienamente coinvolto nello svolgimento dell’azione strategica che ogni (grande) impresa non può non attuare; sia a livello di strategie di mercato sia, ancor più, di altre che coinvolgono la sfera politica e quella culturale (e ideologica). Questo il reale carattere del capitalismo da cui si devono prendere le mosse per afferrarne le dinamiche.
Gli apologeti del capitalismo odierno, pur magari considerato prevalentemente finanziario (nel senso, però, di semplice dominio della Finanza), sono comunque ancorati prevalentemente alle virtù della piena libertà mercantile. Sono ancora cantori del liberismo più o meno rimasti ad Adam Smith. E naturalmente vedono come fumo negli occhi l’intervento statale che vorrebbero ridotto al minimo. I critici del solo liberismo si agganciano ad un keynesismo più o meno ben inteso (non credo, ad es., che in Keynes vi fosse alcuna predisposizione allo Stato detto sociale, affermatosi in Europa occidentale nel dopoguerra); in ogni caso, prediligono una certa regolazione dell’economia da parte dello Stato, con cospicua spesa pubblica (anche in deficit di bilancio) e quant’altro.
Quanto ai critici del capitalismo, si tratta spesso degli orfani del marxismo classista e di quello (poco marxista) terzomondista, ecc. A questi si aggiungono però una serie di contestatori che mi lasciano molti dubbi sulla loro buona fede; non vorrei che fossero quelli tipici, e ben noti anche da tempi molto remoti, pagati da settori imprenditoriali tutt’altro che marginali per confondere le acque e stornare l’attenzione dai reali difetti dell’odierno capitalismo. In ogni caso, tutti questi si rifanno alla peggiore delle interpretazioni del capitalismo finanziario, quella che lo tratta solo come predominanza della Finanza tout court, quindi della speculazione considerata la vera negatività dell’attuale fase capitalistica, con lobbies semidelinquenziali tutte protese a fare denaro mediante denaro, danneggiando così l’effettiva (e meritoria) sfera produttiva; e mettendo in moto, tramite la speculazione e spesso con metodi illegali (ad es. l’insider trading), processi che potrebbero sfociare in gravi crisi di Borsa.
Non si tratta in tal caso di un reale atteggiamento anticapitalistico, bensì solo della considerazione che ci sono fasi storiche in cui predominano i capitalisti “cattivi”, “disonesti”. Quindi si tratterebbe più che altro di risanare la situazione, magari tramite intervento energico dello Stato che fosse in mano a forze politiche tutte tese al “bene sociale”, all’interesse dell’intera collettività nazionale. A questo tipo di valutazione negativa della società odierna si riconnettono però anche i rimasugli “comunisti” (o comunque dichiaratisi “anticapitalisti”), che hanno ormai dimenticato la scientificità marxiana e propendono per un’azione decisa dello Stato, che fosse però in mano loro poiché essi combattono il capitalismo. Tuttavia, la loro polemica, velleitaria e che distoglie forze da una reale critica razionale, si risolve nel desiderio di applicare propositi comunitari (collettivistici) mentre il capitalismo è semplicisticamente visto come il dispiegamento dell’egoismo di gruppi di finanzieri tesi al puro accumulo di ricchezza nella sua tipica veste di moneta o attività a questa assimilate, con questa intercambiabili, ecc.
Oggi, insomma, la (in genere solo presunta) lotta al capitalismo può essere raggruppata in due impostazioni fondamentali. Ognuna delle due conosce poi molte varianti, ma credo che la divisione in due sia abbastanza congrua e rappresentativa delle tendenze principali. La prima potrebbe considerarsi una sorta di ulteriore peggioramento del riformismo di tipologia socialdemocratica. Il capitalismo può essere salvato come società (la meno peggiore, ecc. ecc.), ma è necessario abbattere l’attuale predominio della finanza, delle varie lobbies internazionali che la compongono, tipo il gruppo Bilderberg, e in definitiva anche la Trilateral, lo stesso “Club di Roma” e via dicendo. Bisogna tagliare le unghie a queste cosche che complottano sempre e riuniscono imprenditori, politici, personaggi dei media, ecc. Si tratta di una vera Internazionale del capitale (“cattivo”), che comunque trova il suo trait d’union nell’Alta Finanza, nella manovra dei capitali (di carattere monetario) a livello mondiale. Bisogna ridare fiato al capitale produttivo e innovativo.
L’altra critica vuole essere radicale, apertamente e completamente anticapitalistica; non è possibile distinguere una parte buona da salvare, perché ormai quella “cattiva” ha il predominio assoluto e non ci si può fare nulla se non sradicando l’intero suo potere. Tuttavia, anche questa critica punta il dito contro il capitale finanziario, dimenticando la vecchia concezione di unione di banca e industria (sia pure sotto prevalenza della prima) e andando direttamente alla presunta completa degenerazione di un capitalismo monetario onnipotente, ma ormai “maturo”, anzi decadente, per alcuni già vicino alla sua fine. Il problema è evitare che quest’ultima ci travolga tutti, ci trascini allo sgretolamento generale della società (degli “uomini” che, evidentemente, in sé sono considerati tendenzialmente buoni e “umani” nella loro “essenza”). Siamo alla versione peggiorata della vecchia concezione secondo cui la dinamica capitalistica condurrebbe i capitalisti (i proprietari dei mezzi produttivi) a divenire puri rentier, azionisti (di maggioranza) e tagliatori di cedole.
In quest’ultima tesi, però, dall’altra parte non poteva non porsi – proprio per motivi strettamente oggettivi, legati all’estraneazione della proprietà dal farsi del processo produttivo – la gran massa dei “produttori associati” (“dal dirigente all’ultimo giornaliero”) come pensava Marx; o quanto meno (in Kautsky e nel marxismo successivo) la Classe Operaia quale soggetto cruciale di un ribaltamento dei poteri all’interno della fabbrica e, di conseguenza (data la presunta crescita di detta classe), nella società tutta. No, questo non avviene – lo si ammette – ma alla fine “tecnici” (gli “specialisti borghesi”) e operai (anzi i lavoratori salariati in genere, sia pure dei livelli lavorativi medio-bassi) si troverebbero più o meno dalla stessa parte, giungerebbero all’alleanza, spintivi da una Finanza sempre più vorace e corruttrice di alti dirigenti imprenditoriali e politici, che sarebbero infine messi in netta minoranza e battuti.
6. Tutte queste concezioni hanno il difetto decisivo nel loro economicismo, da cui fu indubbiamente affetto pure il marxismo (e Marx stesso). I processi storici che hanno condotto alla società capitalistica liberarono tutti gli individui dai rapporti di dipendenza personale. Schiavi, servi, ecc. erano in genere i produttori dei beni (e servizi), di cui viveva l’intera società. In definitiva, nelle società precapitalistiche la sfera produttiva era quella occupata appunto dagli strati sociali dei dominati. Con il passaggio (fase di transizione) dal feudalesimo al capitalismo si formò per un certo periodo quell’insieme di gruppi sociali abbastanza informe che fu denominato Terzo Stato. Tale insieme andò infine decantandosi nei due raggruppamenti denominati borghesia (i dominanti) e proletariato (i dominati).
La classificazione fu effettuata da Marx in base ad un semplice criterio: proprietà dei mezzi di produzione e non proprietà degli stessi. I non proprietari erano però liberi da ogni servaggio e quindi avevano per vivere soltanto le proprie braccia e il cervello, inutili però se non uniti ai mezzi produttivi. La formazione del capitalismo aveva tuttavia creato anche il mercato generalizzato; e dunque il lavoro (quello “in potenza” esistente nella corporeità umana, cioè la forza lavoro) divenne una merce (con il valore stabilito in base al lavoro “in atto”, erogato per produrre i beni necessari alla sussistenza dei lavoratori). Il “virtuoso” mercato aveva risolto il problema nato con l’abolizione dei vincoli servili; il proprietario dei mezzi produttivi trovava di che vivificarli, renderli attivi, e il “proletario”, libero, aveva il mezzo per vivere vendendo la sua capacità lavorativa. Il proprietario divenne il dominante e il proletario il dominato.
La sfera produttiva (economica) è in parte composta di dominanti soltanto nella società capitalistica; e in questa si duplica in linea generale e complessiva nel suo “alter ego”, quella monetaria, quella del denaro. Da qui deriva quella deviazione economicistica che ha interessato, ideologicamente, tutte le teorizzazioni intorno alla società moderna. Marxismo e liberismo (nelle sue diverse varianti, nettamente contrarie o moderatamente favorevoli all’intervento statale) sono stati economicisti; il liberismo, nella sua impostazione neoclassica, molto più del marxismo, che almeno aveva come punto di riferimento sostanziale i rapporti sociali, sia pure di produzione. E del resto il contraltare dell’economicismo è specularmente antitetico-polare: il predominio della sfera del potere politico (dei suoi apparati, con al primo posto quelli dello Stato) o la preminenza dello spirito, dei valori etici, ecc.
E’ ora di cambiare strada. La società capitalistica è senza dubbio differente dalle formazioni sociali precedenti; non si può tuttavia individuare tale differenza con riferimento prevalente alla sfera economica della società, in particolare a quella produttiva (dato che quella monetaria era un accessorio nelle società precapitalistiche, mentre ne diventa un duplicato nel capitalismo). In tutte le società, al di là della differente strutturazione dei rapporti sociali, esiste un elemento (processuale) ben preciso che decide della dominanza o subordinazione dei differenti strati sociali. Questo elemento, questo processo in continuo svolgimento, è la POLITICA. Purtroppo, il termine usato inganna. Non mi riferisco in tal caso alla sfera della politica, dei suoi apparati (quelli statali magari in primo piano in determinate società). Quella sfera insomma che, in via teorica, viene trattata come una delle tre costitutive della società: economica (nel capitalismo in primo piano, come già detto, non solo per il marxismo), politica e ideologica (culturale in generale). Intendo invece parlare di POLITICA quale svolgimento delle strategie di conflitto che conducono determinati strati sociali in dominanza.
Oserei dire che forse è meglio parlare di gruppi più che di strati. L’economicismo, tipico delle teorie sul capitalismo, vede in preminenza i capitalisti (proprietari ecc. ecc., come pensa il marxismo) o gli imprenditori, come suggeriscono i neoclassici, che ne fanno gli artefici principali della ricchezza prodotta in una società. Ho già esplicitato la mia supposizione che detto economicismo derivi dal fatto della liberazione dei produttori da ogni vincolo servile, dal formarsi su tale base e in una fase di transizione del cosiddetto Terzo Stato (pur esso una specie di concetto ripostiglio com’è oggi quello di ceto medio); e infine dalla decantazione di quest’ultimo, indicata da Marx quale proprietà dei mezzi di produzione, da una parte, e semplice possesso, ormai libero, della propria forza lavorativa, dall’altra. Notate bene che comunque, in Marx, la dominanza è caratterizzata dalla proprietà dei mezzi produttivi in tutte le formazioni sociali. Solo che, nello schiavismo, il mezzo di produzione era lo schiavo stesso; nel feudalesimo, è la terra con annessi i servi della gleba; infine, nel capitalismo tutti sono liberi e, su questa libertà, si innesta la generalizzazione del mercato e la duplicazione della sfera economica in produttiva e monetaria (definita solitamente finanziaria, ricca di fenomeni di vario genere esprimibili in moneta).
Qual è la differenza tra società moderna e le precedenti? In queste ultime, nella sfera produttiva stanno in genere tutti i dominati, mentre i dominanti si collocano nelle altre due. Nel capitalismo, la sfera produttiva, dal punto di vista degli strati sociali, si divide in due; una minoranza di dominanti (borghesia proprietaria) e una maggioranza di dominati (solo possessori della capacità lavorativa). Questa divisione provoca però un vertiginoso, e via via più accelerato, sviluppo e differenziazione delle forze produttive (e dei prodotti). La sfera produttiva sembra sopravanzare nettamente le altre, surclassarle veramente, renderle a sé subordinate. Nel contempo, la duplicazione della produzione mercantile in moneta (e simili), fa sì che l’aspetto più appariscente della ricchezza diventi quest’ultima; sembra che il capitalista sia posseduto dall’ingordigia di denaro, quasi fosse la compiuta realizzazione del L’avaro di Molière.
E chi ha denaro logicamente cerca di ben speculare per accrescerne la quantità posseduta. E inoltre può acquistare tutto, anche le coscienze umane, può corrompere coloro che sono in grado di svolgere una funzione per lui utile al fine di arricchirsi sempre più. Ecco il mondo scintillante de L’argent, così ben descritto da Zola. Ed ecco la sensazione superficiale, ma indubbiamente comprensibile, che il denaro possa tutto. Chi lo controlla e possiede in gran quantità, il finanziere, viene pensato come il padrone della società. Quindi lo strato sociale dei dominanti non può che avere al suo vertice supremo la Finanza, oltre ogni confine nazionale, senza Patria alcuna; insomma l’affermazione più pura della transnazionalità del capitale trionfante nel mondo intero. E tuttavia con il tallone d’Achille della moltiplicazione dei valori monetari senza alcun corrispettivo mercantile di tipo produttivo; per cui alla fine arriva il ciclone della crisi finanziaria, che trascina con sé anche la produzione e la società tutta, in particolare i poveretti che hanno il solo possesso della loro capacità lavorativa (ma pure gli stessi finanzieri).
Non c’è nulla di particolarmente falso in questo quadro, salvo una “piccola” dimenticanza. Tutta la descrizione, come più volte ho sottolineato, riguarda i processi da assimilare ai distruttivi fenomeni del terremoto che abbatte case, sconvolge territori, apre crateri e inghiotte vite umane, ecc. Tuttavia, prima che si arrivi a tanto, per anni si manifestano nelle viscere della Terra sommovimenti (non avvertiti dai sensi umani, in parte invece rilevati dagli strumenti più sofisticati) detti di assestamento; e che in realtà accentuano gli squilibri evidentemente già in atto e sussistenti, pur se non in grado, per lunghi periodi di tempo, di manifestarsi rapidamente e con tutta la violenza tipica dei terremoti. Ebbene, questi squilibri sono sempre presenti, lavorano sotterraneamente e si manifestano in superficie con fenomeni vari che li tengono mascherati e ignoti a lungo; e così sono pure i processi della POLITICA, delle strategie del conflitto. E consideriamoli infine.
7. La dominanza non sembra data una volta per tutte. Soprattutto non è detto che tutti i proprietari (sia pure dei mezzi produttivi) appartengano alla classe dominante. E perfino se teniamo conto soltanto dei grandi imprenditori, non è proprio certo che siano sempre in tale situazione. Anche per questo motivo ho pensato alla necessità di abbandonare l’originaria impostazione marxiana che assegnava centralità alla proprietà o non proprietà di detti mezzi di produzione per dividere la società in dominanti e dominati. Indubbiamente, abbandonare tale centralità significa pure non attribuire più alla sfera produttiva il carattere di “base economica” (su cui si ergono le “sovrastrutture” politico-ideologiche), cioè di sfera sociale principale e determinante il carattere delle differenti forme di società. Viene meno anche il ben noto, e ormai “antico”, dibattito sul primato delle forze produttive o dei rapporti di produzione (il cui intreccio costituisce il modo di produzione quale “nocciolo strutturale interno” della formazione sociale) nel dar vita alla dinamica storicamente specifica delle differenti società succedutesi nella storia.
Ho assegnato la suddetta centralità al conflitto tra strategie per l’assunzione della predominanza, cioè alla POLITICA (che, lo ripeto perché sia infine afferrato, non è la sfera politica dei vari apparati dello Stato e dell’amministrazione pubblica in generale, dei partiti, delle diverse associazioni, nazionali e internazionali, che agiscono in detta sfera, ecc.). E’ un “gioco” complesso di mosse e contromosse, in cui i soggetti in azione devono tenere conto sia della situazione esistente nel campo del confronto, sia delle mosse degli avversari. E tale gioco – pur se soggiacente, ma non sempre, a date regole “di massima” – richiede in ogni caso l’uso dell’inganno, del raggiro, del far credere ciò che non è, della finzione di attuare determinate decisioni mentre se ne realizzano altre, ecc. In definitiva, è un gioco in cui la segretezza è decisiva; e in cui, dunque, è assai rilevante lo spionaggio e la messa in opera di “quinte colonne” tra le fila dell’avversario. Bisogna saper stabilire le giuste alleanze e saperle usare, perfino tradendole in molti casi; e, logicamente, punendo duramente i traditori, gli infiltrati, gli spioni. Insomma, è la famosa “politica sporca” di cui parla, e correttamente, il volgo.
La POLITICA non è appannaggio di una sfera sociale, non sempre è svolta principalmente in una di esse. In questo senso, non esiste alcuna priorità della sfera produttiva come nella teoria marxiana. Ancora più errato è però il liberismo quando assegna tutte le virtù possibili al mercato, proprio la “superficie” della sfera economica. Del resto, contrastare tale forma di economicismo con l’appello alla preminenza della sfera politica o di quella culturale, dell’uso degli apparati di questa o di quella, è sovente un girare in tondo, ma sempre alla superficie del fenomeno della lotta e del conflitto che muove la società. La segretezza spinge l’azione conflittuale in più oscure profondità, dove occorrono strumenti (anche di pensiero) adusi a muoversi in esse.
Un imprenditore, ad es., non è un proprietario, non è un tecnico di produzione né un manager aziendale né un esperto di questioni mercantili; nemmeno è il semplice innovatore della teoria schumpeteriana. E’ invece uno stratega, un vero “giocatore”, che deve saper usare strumenti vari, ivi compresi gli uomini come fossero strumenti. E’ uno che deve sapere come muoversi nella sua sfera ma altrettanto bene in quella politica e in quella ideologica. Se vuol essere un dominante non può restare “impigliato” nella sola sfera economica; deve incontrarsi, allearsi, con soggetti delle altre sfere e che a loro volta apparterranno ai dominanti se sapranno porsi in relazione paritaria con lui per un’azione comune contro comuni avversari. L’imprenditore non è un “padrone” perché produce beni importanti o perché ha grandi disponibilità finanziarie. Questi sono strumenti e certamente senza strumenti non si fa nulla. Tuttavia nemmeno si fa nulla se si crede alla virtù degli strumenti di per se stessi, se si pensa che tecnica o nuovo prodotto o manovre con denaro, ecc. diano direttamente il potere, il predominio. La POLITICA ha bisogno di questi strumenti, ma non è questi strumenti, non va fatta alcuna confusione in merito. La POLITICA guida gli strumenti e, se li guida male, è perfettamente inutile possederli.
A volte si parla di politica di mercato. Se ci si riferisce al puro marketing, si tratta di una politica di rilievo ma dopo un’altra ben più importante. E’ utile, non decisiva per un’impresa. Certamente bisogna piazzare i beni prodotti sul mercato, certamente è indispensabile spuntare i prezzi migliori possibili e altrettanto dicasi per le quote di mercato occupate dai propri prodotti. Tuttavia, questi sono risultati di una ben diversa azione, che si potrebbe definire – alla stessa stregua delle politiche degli Stati – la conquista di più ampie sfere d’influenza (si può anche parlare di aree d’influenza, ma non in senso soltanto territoriale). L’“influenza” è qualcosa di più complesso (e complicato da ottenere) della quota di vendita; e precede questa quota, alla fine la renderà più consistente, ma soprattutto più stabile e potrà riuscire a tenere lontani (almeno entri dati limiti) i competitori. E per quest’influenza occorre la POLITICA, quindi l’investimento delle altre sfere sociali, il coinvolgimento di altri soggetti agenti in tali sfere. E pure essi, se sono in grado d’essere dominanti, se ne hanno i mezzi e la capacità, non si renderanno semplici servitori dello stratega imprenditoriale, agiranno spesso in autonomia – pur nell’eventuale alleanza o almeno accordo con quest’ultimo, con il quale, a volte, sono invece in contrasto – per ampliare la propria influenza, cioè quella degli apparati della loro sfera sociale d’appartenenza.
8. Siamo così arrivati al punto cruciale. Non esiste la Finanza (internazionale, senza Patria) che tutto domina e dirige. E’ ovvio che chi ha il possesso di uno degli strumenti (il denaro nelle sue figurazioni monetarie o a queste assimilabili) utilizzati nelle varie mosse strategiche, di cui è intessuta la POLITICA, ne approfitterà per arricchirsi; o anche per porsi in posizioni di potere, ecc. Il fulcro di quest’ultimo, e della supremazia che ad esso si accompagna, è però situato nella POLITICA. Allo stato attuale, dunque, è in pratica impossibile distinguere dei gruppi stabilmente dominanti da altri dominati con assoluta certezza.
Gli strateghi – i portatori di quelle mosse miranti alla predominanza, implicanti conoscenza del terreno di scontro, delle forze in campo, delle possibili contromosse avversarie; e in più assai attenti alla segretezza dei propri intendimenti – appartengono a tutte le sfere sociali. Non vi è dubbio che certi apparati avranno magari più rilevanza nell’effettuazione delle strategie in questione. In proposito sembrano particolarmente decisivi – soprattutto quando lo scontro si fa più esteso ed acuto, con ampia utilizzazione degli strumenti bellici – gli apparati costituenti lo Stato; e non certo la Finanza. Gli apparati di Stato, tuttavia, non coinvolgono in eguale misura, e con eguale potere, i vari gruppi di soggetti che ne occupano i diversi ruoli e ne svolgono le differenti funzioni. Non abbiamo quindi modo, almeno al momento, di precisare i caratteri dei gruppi dominanti e quelli dei gruppi dominati. Tanto meno abbiamo la possibilità di porre dominanti e dominati in un chiaro e netto scontro antagonistico duale.
Proprio per questo siamo spesso costretti a trattare i conflitti tra Stati come i più decisivi per l’andamento non soltanto delle questioni internazionali, ma anche di quelle nazionali; e di quelle economiche in specie. Se guardiamo all’interazione (e intreccio) tra i vari Stati, che poi si rifanno quasi sempre alla presenza di diversi paesi (e diverse nazionalità), non possiamo non notare differenti gradi di autonomia o invece dipendenza di alcuni di essi da altri; con speciale preminenza, ancor oggi, degli Stati Uniti, sia pure ormai variamente contestata. E tutto ciò complica ancor più il problema della dominanza. I gruppi che la esercitano in un paese, o in un’area “regionale” (del mondo), sono sovente subordinati ad altro paese. Insomma, distinguere con una netta linea di demarcazione dominanti e dominati è operazione massimamente scorretta, stando alle nostre attuali conoscenze del problema.
In fondo, tutte le mie ultime elucubrazioni sulla realtà che è presenza pur essendo assente (nella sua espressione empirica e sensibile), sul flusso inconoscibile, ecc. dipendono in buona parte dall’intenzione di segnalare la nostra scarsa capacità di analizzare i rapporti sociali oggi vigenti. Parliamo sempre di capitalismo con chiaro sottofondo economicistico poiché in definitiva ci riferiamo sempre alle società, in cui sono presenti il mercato e le unità che in esso competono, cioè le imprese. In base alla presunta maggiore rilevanza della sfera produttiva nella costituzione dei rapporti specifici delle differenti formazioni sociali succedutesi nella storia, Marx aveva indicato un preciso carattere distintivo delle classi dominanti e dominate: la proprietà o meno dei mezzi di produzione. Da tale carattere, una volta arrivati alla forma capitalistica dei rapporti sociali, discendevano una serie di conseguenze da lui previste – e da me più volte indicate – che si sono dimostrate errate nel succedersi degli eventi, soprattutto nel XX secolo.
Non esiste al momento alcun altro carattere sostitutivo per ottenere i risultati analitici che Marx credeva di avere realizzato; il conflitto strategico, da me posto al centro dell’analisi della(e) società moderna(e), detta(e) capitalistica(che), non consente alcuna precisa distinzione in merito. Certamente, è abbastanza facile constatare che nel mondo, per le decisioni che contano di più, ci sono gruppi che ne hanno potestà (si tratta di infime minoranze) e altri, maggioritari, che contano ben poco. Tuttavia, non è affatto semplice individuare i criteri migliori per classificare i decisori e i non decisori. In genere si ricorre a semplificazioni proprio avvilenti come quella che, appunto, attribuisce il potere decisionale supremo ad una sorta di massoneria costituita da finanzieri; in definitiva, per la considerazione banale che chi ha soldi “compra cose e persone”.
Permane inoltre ancora, ormai però in netta caduta di interesse, la più sciocca delle tesi maturate negli ultimi quarant’anni di degrado del pensiero: e cioè la fine degli Stati nazionali. Non sono per nulla finiti, ma hanno capacità decisionali del tutto differenti e non semplicemente per l’aspetto più superficiale della potenza economica o militare. Esiste una rete assai complessa di gruppi decisori. Bisogna sempre ricordare che uno dei tratti caratteristici della POLITICA è la segretezza delle mosse strategiche decise, che si rivelano solo, ovviamente, quando vengono effettuate. E detta segretezza è sovente il connotato dei decisori stessi, e non soltanto delle loro mosse. Comunque questo è un problema che va semmai sviluppato a parte.
Qui mi preme ribadire, per concludere, che non esiste al momento criterio plausibile – com’era comunque, pur se rivelatosi infine improprio, quello marxiano relativo alla proprietà (in quanto potere di disporre) dei mezzi di produzione – per distinguere i decisori dai non decisori. Per questo motivo, nell’analisi (politica) riguardante il comportamento degli agenti delle varie mosse strategiche ci atteniamo a quanto più “sensibilmente” si nota (ad es. l’azione dei vari Stati), senza peraltro avere in mente alcun carattere in base al quale fare di questi agenti degli effettivi portatori delle principali attività decisionali (o non decisionali); non riusciamo cioè a dividerli in “classi”, che sono logicamente antecedenti rispetto ai loro componenti attivi. I proprietari, secondo Marx, innanzitutto portavano questo ruolo nella struttura reticolare dei rapporti sociali. Poi agivano svolgendo la funzione di tale ruolo; e in questa attività manifestavano magari le caratteristiche individuali dalle quali si era primieramente astratto. Perché è chiaro che, se tutto viene considerato nella mera empiria, tra portare e agire non si evidenzia alcuna distinzione; ed è appunto quanto accade considerando il conflitto strategico, cioè la POLITICA. Se però si opera scientificamente, è indispensabile effettuare una distinzione – logica, non di fatto – tra l’essere portatori e l’essere agenti.
Si tratta comunque di un altro problema rispetto a quello su cui ho qui discettato, e ne parleremo ancora a lungo in futuro. Qui ribadisco solo, terminando il mio discorso, che la più becera delle interpretazioni sulla divisione tra chi decide e chi deve accettare le decisioni altrui è quella che si basa sulla predominanza della Finanza, fra l’altro non avendo capito un bel nulla di quanto si era invece ben compreso un secolo fa: il capitale finanziario è intreccio (simbiosi come disse Lenin) tra banca e industria. La tesi dell’onnipotenza del possessore e manovratore del “liquido” (o similare) è a mio avviso la manifestazione più significativa della superficialità “predominante” in quest’epoca. E con questo è tutto.