BREVI ANNOTAZIONI SU THE OBAMA DOCTRINE
(CON ALCUNE CITAZIONI DA LA GRASSA IN APPENDICE)
Nel numero della rivista settimanale Internazionale del 6/12 maggio è riportato, mi pare integralmente, in traduzione italiana un lungo articolo del giornalista di The Atlantic Jeffrey Goldberg, che è uscito con il titolo “The Obama doctrine” in originale sulla rivista d’oltreoceano. Nei numerosi colloqui che Goldberg ha avuto con il presidente Usa sono stati affrontati in particolare i temi riguardanti la politica estera e le strategie che hanno caratterizzato la gestione obamiana delle problematiche derivate dallo sviluppo di situazioni di crisi politico-militare in quasi tutto il globo negli ultimi anni. Jacopo Zanchini, vicedirettore di Internazionale, in un commento al suddetto articolo afferma che quella di Obama è stata una politica estera nuova, più multilaterale e meno “bellicista” e ripropone sinteticamente, dandone un giudizio positivo, un recente discorso di Obama con riferimento alla storia e ai problemi europei:
<<“Forse avete bisogno di qualcuno che venga da fuori, che non sia europeo, per ricordarvi la grandezza di quello che siete riusciti a fare”, ha detto solennemente Obama ad Hannover il 25 aprile ai leader del vecchio continente, lodando l’unione di tanti paesi e tante culture come una “delle più importanti conquiste politiche ed economiche dei tempi moderni”, dicendo che un’Europa unita e forte è “una necessità per il mondo”, invitando gli europei a non dimenticare di essere “gli eredi di una battaglia per la libertà” e prendendo apertamente posizione contro Brexit, l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione>>.
Per Zanchini queste parole di Obama rappresenterebbero una novità anche se ciò che è emerso negli ultimi mesi – riguardo agli impulsi provenienti dagli Usa tesi a favorire la nascita delle comunità europee tramite la presa di contatto e l’appoggio ai principali esponenti politici del vecchio continente negli anni del dopoguerra e fino alla nascita della Ue – sembra mostrare proprio il contrario. Abbiamo ampiamente commentato in questo blog le nuove prospettive che la comprensione dell’atteggiamento favorevole degli Stati Uniti nei confronti dell’unità europea ha aperto per una corretta lettura della politica internazionale dal 1945 a oggi. E quando il giornalista di Internazionale ricorda come alcuni presidenti e alti diplomatici Usa abbiano usato espressioni sprezzanti e manifestato l’esistenza di reali situazioni di conflitto e di disaccordo con gli alleati europei, noi non possiamo che convenire, prendendo atto della contrarietà che ogni posizione assunta in maniera indipendente e autonoma dai governi del vecchio continente ha prodotto presso i vertici direttivi strategici della potenza predominante. Zanchini insiste poi ancora sull’importanza del presunto superamento dell” “unilateralismo” americano e del “ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo” ed esalta come grandi successi la creazione di nuove relazioni diplomatiche con Cuba e l’accordo sul nucleare con l’Iran citando anche il presidente Usa che rivolgendosi a Goldberg ha detto:
<<La competizione tra sauditi e iraniani, che ha contribuito ad alimentare guerre e caos in Siria, Iraq e Yemen, ci impone di chiedere ai nostri alleati così come agli iraniani di trovare un modo efficace per istituire una sorta di pace fredda>>.
E riguardo al nodo cruciale rappresentato dalla situazione in Siria, Obama avrebbe affermato di aver violato quello che lui stesso avrebbe chiamato, ironicamente, “il manuale delle regole di Washington”:
<<“A Washington c’è un manuale di regole che il presidente è tenuto a seguire, scritto dalle persone più influenti in politica estera”, spiega. “E il manuale prevede le risposte a diversi eventi, e queste risposte tendono a essere militari (…). Nel pieno di una sfida internazionale come quella della Siria, chi non segue il manuale delle regole viene giudicato severamente, anche se ci sono buoni motivi per non applicarlo”. E aggiunge: “Trovo poco intelligente l’idea che appena c’è un problema mandiamo i nostri militari a imporre l’ordine. Semplicemente, non lo possiamo fare”>>.
L’”illuminato” presidente Usa, secondo Zanchini, avrebbe finalmente compreso che gli Stati Uniti possono essere la guida del mondo “senza esserne il gendarme”, che devono invitare gli alleati in tutto il mondo ad agire con loro, soprattutto sul terreno negoziale, e ad assumersi le proprie responsabilità, senza aspettare che siano gli americani a risolvere i problemi di tutti (e in particolare degli europei). E, citando Ivan Krastev:
<<La famosa massima di Obama ‘non fare cazzate’ in realtà è il principio fondante della politica estera dei paesi europei già da molti anni. Obama sta solo esplicitando qualcosa di cui siamo consapevoli da tempo: la politica estera degli Stati Uniti si sta facendo sempre più prudente, sempre più europea>>.
Concludendo il suo commento il vicedirettore di Internazionale ammette, infine, che la strategia obamiana nonostante i suoi “meriti” ha prodotto una situazione globale particolarmente caotica con gravi problemi irrisolti:
<<la Libia, il fallimento della primavera araba, il nuovo interventismo della Russia, l’ascesa del gruppo Stato islamico e il conflitto siriano – oltre all’Iraq e all’Afghanistan, ereditati dal suo predecessore>>.
Un altro interessante commento alla “dottrina Obama” si può trovare sul sito https://thebottomup.it in un articolo di Valerio Vignoli (03.05.2016). Dopo aver ricordato che Obama ha negato che l’Isis sia “una minaccia esistenziale alla sicurezza degli Stati Uniti” e definito la guerra in Siria “a mess”, un “casino”, l’autore passa a definire la politica estera del presidente Usa sulla base del discorso da lui tenuto all’accademia militare di West Point nel maggio del 2014. I punti fondamentali sarebbero questi:
1)Enfasi sulla diplomazia e il multilateralismo. Si sarebbe declinata negli storici accordi con Cuba e Iran, nella ricerca di coalizioni il più estese possibili, nelle operazioni in Libia (?) e nel mancato intervento in Siria nel 2013; 2)Riluttanza nel dispiegamento di truppe militari compensata da un drastico incremento nell’uso dei droni da parte dell’esercito USA; 3) Pragmatismo. In particolare riguardo al fatto che gli Stati Uniti non possano essere più il “poliziotto del mondo”. Ne sono derivati incentivi all’Europa a far fronte alle proprie problematiche ma anche ai paesi mediorientali – compresa Israele – a sbrigare le loro delicate faccende da soli, trovando nuovi equilibri. Ma pragmatismo anche nel collaborare con Vladimir Putin per sbloccare la situazione nel complicatissimo teatro siriano; 4)Razionalità nella formulazione delle decisioni (1);5)Incremento dell’attenzione verso la Cina e l’estremo oriente. Questo nuovo orientamento sarebbe ben rappresentato dalla strategia del “pivot to Asia”(2);6)Decremento dell’impegno in Medio Oriente. Dettato parzialmente anche dal raggiungimento dell’autosufficienza energetica grazie anche allo shale gas e agli investimenti sulle rinnovabili. Si è concretizzato nell’abbandono sostanziale delle missioni in Iraq e Afghanistan e nell’ atteggiamento cauto in Siria.
Dopo questo schematico inquadramento Vignoli – “laureato in Relazioni Internazionali e commentatore politico per diletto” come si può leggere su Twitter – pone in maniera articolata la questione fondamentale della possibilità che l’attuale politica estera e le sue direttive strategiche possano proseguire anche con i successori del presidente in carica. Egli ripropone una tesi non nuova in maniera sintetica e chiara. La politica obamiana può in un certo senso
<<essere definita anti-americana poiché mette in discussione tutti i fondamenti teorici liberali (e liberisti) del cosiddetto “eccezionalismo” a stelle e strisce e la narrativa circa una missione messianica degli Stati Uniti nel mondo come faro di civiltà. Da quando è uscita definitivamente dal suo guscio isolazionista, ovvero dalla fine della seconda guerra mondiale, la politica estera americana si è posta l’obiettivo di esportare – e talvolta imporre con la forza – il proprio modello politico, economico e culturale, in antitesi a quello sovietico>>.
In effetti, come più volte ricordato su questo nostro blog, pare abbastanza evidente che – a partire dalla caduta del comunismo storico novecentesco e in modo particolare con le guerre balcaniche in Bosnia e nel Kosovo – l’ideologia della “pace democratica” imposta con le armi e quindi dell’interventismo (internazionalismo) “liberale” e “umanitario” ha accompagnato l’illusione Usa di avere ormai il completo predominio nel panorama globale, a fronte di una crisi ormai evidente dell’assetto mondiale che prima di sfociare nella nuova grande depressione – in cui siamo tuttora immersi – ha trovato le sue radici in una tensione multipolare generata da una nuova fase di forte “sviluppo ineguale” su scala planetaria. Il momento di svolta in questa tendenza si è verificato con la sconfitta dei falchi neoconservatori e dell’amministrazione di George W. Bush in seguito alla loro scelta totalmente unilaterale (ricordiamo in proposito il veto “inutile” della Francia nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu) di invadere per la seconda volta l’Iraq di Saddam Hussein. La posizione obamiana, segnala ancora Vignoli, è stata anche collegata a una visione teorica (neo)realistica delle relazioni internazionali (3) a partire dalla quale sarebbe possibile arrivare ad interessanti accostamenti (con qualche dubbio da parte nostra):
<<Le esperienze realiste nella storia recente degli USA si contano sulle dita di una mano. La più celebre è quella di Richard Nixon e del suo segretario di stato Henry Kissinger che aveva portato alla distensione con l’Unione Sovietica di Breznev e all’apertura alla Cina di Mao. Insomma si tratta con tutti se è funzionale agli obiettivi prestabiliti come ha fatto Obama con la Russia di Putin in Siria, con l’Iran di Rohani riguardo al programma nucleare, con la Cuba di Raul Castro per il disgelo. Si passa dal sostegno delle proteste di piazza Thahir in Egitto ad un sostanziale silenzio per quanto riguarda il regime militare di Al Sisi – nonostante pare che Obama privatamente consideri il generale un “paranoico”. Si fa ricorso all’azione militare solo con una strategia chiara e limitata, come ha fatto George H. W. Bush nella prima guerra del golfo>>. Ciò nonostante la possibilità che l’attuale strategia internazionale degli Usa prosegua anche dopo l’avvicendamento alla casa bianca non appare particolarmente fondata e non solo per le diverse posizioni manifestate dai due possibili successori, Hillary Clinton e Donald Trump, ma anche per le forti pressioni che alcune importanti elité strategiche statunitensi portano avanti per cambiare la maniera di gestire la caotica situazione attuale. Però Vignoli osserva opportunamente che la popolazione statunitense ha storicamente attitudini significativamente più isolazioniste rispetto ai propri leader e questa tendenza sembra in drastica crescita. Nel dicembre 2013 il prestigioso istituto di statistica Pew Research avrebbe rilevato che per la prima volta dal 1963 la maggioranza degli americani è d’accordo sul fatto che il loro paese debba “pensare ai propri affari” a livello internazionale. In conclusione
<<se si va a considerare l’eventualità di un impegno specifico a stelle e strisce nelle zone calde del pianeta il quadro non cambia. Nel 2011 ben il 63% dell’opinione pubblica USA era convinta che il governo non avesse la responsabilità di agire in Libia e per il 51% la motivazione era che le forze militari erano già fin troppo impegnate. Altrettanto relativamente bassa si è mantenuta dal 2012 la percentuale di chi sosteneva un’operazione in Siria con addirittura una inequivocabile opposizione del 63% degli intervistati ai raid aerei nel settembre 2013, quando Obama stava seriamente prendendo in considerazione la possibilità di sferrare un attacco diretto contro il regime di Assad. E, infine, nel 2014 ben il 56% degli americani riteneva che il paese non dovesse lasciarsi troppo coinvolgere nella crisi ucraina>>.
Chiudo qui il post lasciando in sospeso questioni che andranno ulteriormente sviluppate prendendo in considerazione altre valutazioni di personalità politiche ed esperti in queste materie. A questo proposito aggiungo una breve (ma non troppo) appendice di citazioni di La Grassa risalenti a due interventi su questo blog del 11 e del 17 settembre 2012 che, nonostante siano passati quasi quattro anni, aiutano ancora ad inquadrare “teoricamente” l’attuale situazione globale.
Appendice
<<Nel febbraio 2007, il gen. Petraeus fu nominato comandante delle truppe in Irak e vi applicò, con successo a quanto sembra, la strategia del divide et impera (tra sunniti e sciiti) con tendenza al caos e mantenimento di enclaves decisive per una sorta di “controllo a zona”. Nel giugno 2010 detto generale sostituì McChrystal (critico della politica di Obama) in Afghanistan, indice di un attrito tra fautori della vecchia e della nuova strategia americana; chiara mi sembra l’intenzione di espandere quest’ultima al contesto globale (con propositi di ritiro delle truppe pure dall’Afghanistan dopo l’Irak), intenzione che sembra incontrare resistenze, non credo sopite, in dati ambienti politici e militari statunitensi. Petraeus è poi divenuto capo (attuale) della Cia, probabilmente la più vicina ai gruppi obamiani, mentre forse l’Fbi subisce pure altre influenze. Le divisioni, come ricordato all’inizio, non mettono in discussione la necessità che gli Usa mantengano la supremazia mondiale; per cui tali divisioni sono come quelle che si manifestarono ad es. all’epoca dello scandalo Watergate (dopo l’apertura Nixon-Kissinger alla Cina e al Vietnam del Nord), con molti arzigogoli e compromessi e un sostanziale zigzagare. Magari poi si usano metodi di lotta traumatici, ma ciò non cancella le giravolte; per cui gli Usa devono acconciarsi ad alcune ritirate, a sconfitte, che però alla lunga appaiono magari in luce diversa (ad es. la “sconfitta” subita in Vietnam). Il mutamento strategico di cui stiamo parlando, pur con aspetti che potrebbero apparire in futuro più involuti, segnala comunque che gli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di un loro predominio non incontrastato così come avevano pensato, dopo il crollo dell’Urss, per un periodo di tempo tutto sommato breve>>.
Si tratta di [A.d.r.] <<una strategia comportante mutamenti rilevanti, ancora in larga misura coperti, “annebbiati”, per non lasciar capire dove in effetti ci si sta indirizzando. A dire il vero, nemmeno sembrano esistere disegni ben precisi e perseguiti senza mai deviare. Tutto il contrario; si tratta della strategia del “liquido”. Immaginate un’area pavimentata con lastre di marmo solcate da canalicoli che s’incrociano formando una rete. Il pavimento deve essere appena leggermente inclinato verso la parte dell’area che è l’obiettivo finale (mettiamo sia la Russia). Si comincia a versare il liquido – non acqua che scorre troppo velocemente e sfugge più facilmente ad ogni controllo, qualcosa di un po’ oleoso e vischioso come può essere appunto una strategia d’attacco implicante l’uso di “sicari” relativamente inetti che, lo si mette in conto, creeranno dati fastidi con la loro improntitudine – nella parte appena un po’ più alta della pavimentazione, in genere la più lontana da quella rappresentante l’“obiettivo”. Il liquido scorre e, per conto suo e malgrado la vischiosità, prenderebbe vie traverse e canali svariati che potrebbero mettere in difficoltà l’agente strategico, rendendo del tutto inutili i suoi desideri e sforzi di imprimergli una data direzione. Detto agente colloca – soprattutto nei punti di snodo dei canalicoli intersecantisi in rete, e decidendo volta per volta – dei sassolini che cercano (perché non si è mai sicuri al 100%) di ostruire uno o più d’essi in modo da dirigere il liquido verso altri, preferiti perché sembrano più confacenti ai bisogni e alla capacità d’intervento dello stratega, pur se magari ritardano l’avvicinamento del liquido alla zona/obiettivo. Ci si può eventualmente aiutare con degli stecchetti rigidi per raschiare e rigare certi canalicoli (magari nel loro fondo si è accumulata un po’ di sabbia che rischia di far impantanare il liquido o di spingerlo in altro alveo) in modo da meglio instradare il liquido (strategia) lungo la via ritenuta più appropriata – per modalità e/o tempi, ecc. a seconda dei casi – al raggiungimento del “punto finale” mirato fin dall’inizio. Quel punto finale è infatti l’unica scelta decisa in anticipo, mentre i canalicoli utilizzati per raggiungerlo dipendono dalla contingenza del verificarsi di vari eventi nel percorso (tempo storico) di avvicinamento. E’ abbastanza chiaro? E’ appunto nella zona a ovest della Russia che si sta soprattutto sviluppando questa strategia “liquida” da parte degli Usa di Obama. La Russia deve essere considerata il “punto finale” che il “liquido” dovrà raggiungere.
<<Ho fatto, e abbastanza a caso, alcuni esempi per evidenziare le predisposizioni di chi sa usare le strategie, sia pure a volte con giochi assai rischiosi. Non si tratta di complotti e di fissazione di progetti precisi in tutte le loro mosse, calcolate al 100% e con date fisse per la loro attuazione. Ci si serve di determinate informazioni, ottenute da Servizi efficienti tramite canali opportunamente coltivati con il possibile nemico, così come dovrebbe essere accaduto con l’attacco dei giapponesi; oppure si tessono trame definite solo per tratti grossolani, prevedendo che dal caos creato emergerà qualche evento traumatico da sfruttare per meglio rifinirle, come potrebbe essere invece il caso della Libia (e un domani magari pure dell’Egitto, ecc.). Tuttavia, scegliendo questa seconda opzione, si verificano spesso disguidi poiché i calcoli – sia pure, lo ripeto, di larga massima – non hanno magari tenuto conto in modo adeguato del magma venutosi a formare: o per l’incapacità dei “sicari” utilizzati, non volendo intervenire subito direttamente, o perché questi ultimi hanno superato i limiti del mandato assegnato nel maldestro tentativo di accaparrarsi qualche vantaggioso supplemento d’affare e qualche aggiunta d’influenza, non preventivati dal “mandante” e tanto meno da esso concedibili>>.
<<La fase storica non vede in atto alcuna rivoluzione o lotta radicale “dal basso”. Ed è ora di dire con franchezza che, anche tra le sedicenti masse diseredate dei paesi ancora sottosviluppati, emergono con sempre maggiore chiarezza gruppi dominanti, di particolare durezza, molto abili nello sfruttare le loro masse, del tutto docili ai comandi dei “superiori” in nome soprattutto dello spirito religioso. Queste masse, quando si agitano e si rivoltano, vanno esaltate? A seconda della direzione presa dal movimento. Chiunque si sia inebriato delle presunte “rivolte delle masse” nella “primavera araba” è da considerare un reazionario della stessa pasta di coloro che guardarono con favore alla Vandea o ai contadini (poveri) delle “armate bianche” o anche ai marinai di Kronstadt. Se si tratta delle “masse” (ben dirette) all’assalto della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, ecc., l’opinione diventa positiva. Questo, però, per chi è schierato sulle mie stesse posizioni; chi appoggia oggi gli Stati Uniti – sia quelli di prima sia quelli odierni – la penserà ovviamente in modo opposto. In ogni caso, sia chiaro che non mi sogno di dire che i vandeani erano soltanto massa di manovra di preti e nobili mentre chi assaltava la Bastiglia era il popolo cosciente che indicava il radioso futuro della “liberté, égalité, fraternité”; e non vengo a raccontare che la presa del Palazzo d’Inverno ha aperto la strada verso il comunismo, poi tradito per alcuni già da Stalin, per altri da Krusciov, per altri ancora da Gorbaciov. Parlando del presente, ho apertamente condannato il massacro di Gheddafi e la rivolta libica senza bisogno d’inventarmi che il Colonnello era un altro “Leone del Deserto”, un campione di lotta antimperialista. E via dicendo. La situazione creatasi con le “rivolte arabe” (in dati paesi e non in altri) sta sfuggendo di mano? O si tratta di processi almeno in parte messi in conto e che verranno sfruttati secondo decisioni al momento non facilmente prevedibili? O si tratta di difficoltà che nascono – come già accadde per la strategia Kissinger-Nixon all’epoca del Vietnam – dalla contrapposizione tra gruppi dominanti statunitensi con diversi punti di vista di politica estera? Non scioglierei adesso i vari dubbi e non sceglierei precipitosamente questa o quella ipotesi. Pur se penso che gli strateghi statunitensi non siano rimasti troppo sorpresi, né tanto meno scontenti, per lo svolgersi di eventi in grado di favorire buona parte delle loro aspettative di più lungo periodo (non invece le esplosioni e andamenti erratici di breve momento, però con tutta probabilità preventivati). Attenderei i prossimi mesi e forse anche qualcosa di più; soprattutto credo che, come minimo, ci si debba astenere dal trarre affrettate conclusioni fino all’elezione presidenziale negli Stati Uniti. Sono comunque convinto si possa emettere qualche giudizio meno provvisorio, pur sempre ipotetico, in merito agli intendimenti di quei centri attivi nell’impostare la strategia americana degli ultimi tre-quattro anni. La Russia sembra essere considerata, da questi centri strategici, come nemico principale, almeno potenzialmente e nel medio periodo. A est ci si impegna più direttamente con una serie di alleanze (cui partecipa perfino un paese ex “socialista” come il Vietnam) per creare il cordone intorno alla Cina (di cui ho parlato in altro pezzo) e spingerla eventualmente verso il suo ovest (continentale). A “ovest” – nell’area della Nato, che s’intende rafforzare e non indebolire come sostengono alcuni imbroglioni, servitorelli pro-Usa – si opera, in modo contorto e perfino mascherato, per l’ulteriore, e più spinto, annullamento di ogni vocazione autonomista dei paesi europei; a partire dai più deboli e squinternati d’essi, fra cui vi è purtroppo anche il nostro>>.
(1)<<Più che un risoluto “commander in chief” Obama è sembrato un policymaker attento a valutare tutte le opinioni dei suoi collaboratori e, solo dopo una lunga riflessione, a compiere le sue scelte. Questa razionalità, insieme alla ritrosia nei confronti dei “boots on the ground”[truppe sul terreno.N.d.r.], si può riassumere nel principio “don’t do stupid things”>>. Dall’articolo di Vignoli.
(2)<<“Asian pivot”, il perno sull’Asia, è in sintesi lo spostamento del focus della politica estera dal medio all’estremo oriente>>. Da Internet.
(3) Secondo Kenneth Waltz questo approccio porterebbe a vedere nell’assenza di un’autorità superiore la causa scatenante dell’anarchia tra gli stati, che agiscono in maniera razionale per garantirsi la sopravvivenza. [Parafrasi di un passo dell’articolo di Vignoli]
Mauro Tozzato 16.05.2016