LA PROPRIETA’ NON E’ UN FURTO

Karl-Marx

Estratto da un testo in in preparazione.
Qui mettiamo in evidenza perchè chi parla di rapine della finanza e di finanza nazista è un cialtrone. Come anche è fesso chi crede che con il superamento del capitalismo l’uomo possa diventare un essere più buono e comunitario (anche Marx dice che i conflitti interindividuali continuerebbero indefettibilmente anche in una diversa formazione politico-sociale):

“Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze. Si arriva quindi ad un’epoca di rivoluzione sociale. Cambiando la base economica viene ad essere sovvertita più o meno rapidamente tutta l’enorme sovrastruttura. Nell’osservare tali rivolgimenti bisogna sempre distinguere tra il rivolgimento materiale, che si verifica nelle condizioni economiche di produzione, e che va constatato scrupolosamente alla maniera delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve ideologiche, in cui gli uomini si rendono coscienti di questo conflitto e si battono per risolverlo. Come non si può giudicare un individuo dall’idea che si è formato di sé, così non si può giudicare una di queste epoche di rivolgimento in base alla coscienza che essa ha di se stessa; questa coscienza infatti va piuttosto spiegata partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto che esiste tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società…I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale di produzione, antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale [per Marx, checché ne pensino gli umanisti-comunisti della nostra era, in una ipotetica società post-capitalista, la natura dell’uomo, nel bene e nel male, sarebbe rimasta identica a se stessa, offrendo, alternativamente, momenti di slancio o di meschinità, con i sempiterni conflitti e le abituali competizioni tra le persone per i più svariati motivi. Ciò che sarebbe, invece, stato superato è il conflitto – interindividuale e di classe – per la sopravvivenza economica. Qui il pensatore tedesco lo spiega con estrema chiarezza.] ma in quello di un antagonismo che nasce dalle condizioni sociali di vita degli individui; nello stesso tempo però le forze produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano anche le condizioni materiali per il superamento di tale antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude quindi la preistoria della società umana”. (Marx)
Facciamo un passo indietro per mostrare le diverse tappe di questo processo che termina in una trasformazione sociale radicale, “in una forma storica nuova” della società umana.
Abbiamo detto che, decaduti i vincoli di tipo soggettivo di forme e modi di produzione antecedenti, possessori e non possessori dei mezzi produttivi devono ora interfacciarsi gli uni agli altri, come liberi individui, per garantirsi la sopravvivenza (che, ovviamente, assume un significato sociale molto diverso, a seconda della categoria a cui si appartiene). I non proprietari degli strumenti di lavoro devono vendere la propria forza-lavoro se non vogliono morire di fame o finire a mendicare. I proprietari, invece, devono andarsi a cercare l’energia umana che risvegli e faccia marciare le loro macchine, per incrementare il proprio capitale, trarne un profitto e mantenere inalterata, per quanto possibile in un certa fascia di tempo, la stessa funzionalità degli strumenti, la quale viene a diminuire tanto coll’uso che col non uso. Ma, ormai, il lavoro è una merce e come tutte le altre può essere acquistata sul mercato ad un determinato valore. La quantità di lavoro necessario a produrla, quindi in essa incorporata, è il suo valore. Il prezzo esprime soltanto questo valore in forma monetaria e dipende dalla domanda e dall’offerta, senza che ciò incida sul valore di queste. Ecco Marx: “…commettereste un grave errore se ammetteste che il valore del lavoro o di qualsiasi altra merce è determinato, in ultima analisi, dall’offerta e dalla domanda. La domanda e l’offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi d mercato. Esse vi spiegheranno perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore. Supponiamo che la domanda e l’offerta si facciano equilibrio o, come dicono gli economisti, si coprano reciprocamente. Nel momento stesso in cui queste forze contrapposte sono ugualmente forti, esse si elidono reciprocamente e cessano di agire in una direzione o nell’altra. Nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente a che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell’offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci”. Chiarito questo aspetto, come si determina il valore del lavoro? “”Come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. La forza lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente. Affinché un uomo possa crescere e conservarsi in vita, deve consumare una determinata quantità di generi alimentari. Ma l’uomo, come la macchina, si logora, e deve essere sostituito da un altro uomo. In più della quantità di oggetti d’uso corrente, di cui egli ha bisogno per il suo proprio sostentamento, egli ha bisogno di un’altra quantità di oggetti d’uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai. Inoltre, per lo sviluppo della sua forza lavoro e per l’acquisto di una certa abilità, deve essere spesa ancora una nuova somma di valori”.
Dunque, capitalista e lavoratore decidono di concludere liberamente un contratto sul mercato, senza sottostare a nessuna coercizione. Lo fanno per circostanze storiche che, coercitivamente, li obbligano ad agire in tal maniera. Quel che si verifica nel processo produttivo è poi un’altra questione nella quale ci addentreremo, benché anche quando si affrontano le problematiche del ciclo industriale non si deve mai parlare di estorsione con la forza o di depredazione del capitalista sull’operaio. Il capitalismo che, ribadiamo fino allo stremo, è un rapporto sociale, può anche contemplare, occasionalmente, il ricorso ai metodi gangsteristici ma questi non sono mai la norma. E’ un errore grave asserire che il capitalismo sia ladrocinio, eppure, in simile abbaglio (dettato da impreparazione teorica o da cattiva fede) continuano ad incappare certuni intellettuali a noi contemporanei, i quali sono passati dall’imputare ai capitalisti industriali l’estorsione, quasi con la spada in pugno, del tempo e dei frutti del lavoro ai poveri operai, a lanciare accuse del medesimo segno contro i funzionari capitalistici della sfera finanziaria, che deruberebbero e raggirerebbero risparmiatori e nazioni. In nessun caso la proprietà si fonda sul furto, come sosteneva Proudhon, e non sono rapine quella che avvengono nella produzione, di beni o di servizi, o nei mercati azionari. Non è un gioco delle tre carte quello finanziario. I cervelli banali dei filosofi lo pensano. Lo spiega perfettamente Engels nell’ Anti-Dühring (la citazione è lunga ma necessaria):

<<In generale la proprietà privata non appare affatto nella storia come risultato della rapina e della violenza. Al contrario. Essa sussiste già, anche se limitatamente a certi soggetti, nella comunità primitiva naturale di tutti i popoli civili. Già entro questa comunità essa si sviluppa, dapprima nello scambio con stranieri, assumendo la forma di merce. Quanto più i prodotti della comunità assumono forma di merci, cioè quanto meno vengono prodotti da essa per l’uso personale del produttore e quanto più vengono prodotti per il fine dello scambio, quanto più lo scambio soppianta, anche all’interno della comunità, la primitiva divisione naturale del lavoro, tanto più diseguali divengono le fortune dei singoli membri della comunità, tanto più profondamente viene minato l’antico possesso comune del suolo, tanto più rapidamente la comunità si spinge verso la sua dissoluzione e la sua trasformazione in un villaggio di contadini parcellari. Per secoli il dispotismo orientale e il domino mutevole di popoli nomadi conquistatori non poterono intaccare queste antiche comunità; le porta sempre più a dissoluzione la distruzione graduale della loro industria domestica naturale operata dalla concorrenza dei prodotti della grande industria. Così poco si può parlare qui di violenza, come se ne può parlare per la sparizione che avviene anche oggi dei campi posseduti in comune dalle “Gehöferschaften” [comunità di villaggio] sulla Mosella o nello Hochwald; i contadini trovano che è precisamente nel loro interesse che la proprietà privata del campo subentri alla proprietà comune. Anche la formazione di un’aristocrazia naturale, quale si ha nei celti, nei germani e nel Punjab basata sulla proprietà comune del suolo, in un primo tempo non poggiò affatto sulla violenza, ma sul consenso e sulla consuetudine. Dovunque si costituisce la proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati rapporti di produzione e di scambio, nell’interesse dell’aumento della produzione e dell’incremento del traffico: quindi per cause economiche. La violenza qui non ha assolutamente nessuna parte. È pur chiaro che l’istituto della proprietà privata deve già sussistere prima che il predone possa appropriarsi l’altrui bene; che quindi la violenza può certo modificare lo stato di possesso, ma non produrre la proprietà privata come tale. Ma anche per spiegare “il soggiogamento dell’uomo allo stato servile” nella sua forma più moderna, cioè nel lavoro salariato, non possiamo servirci né della violenza, né della proprietà fondata sulla violenza. Abbiamo già fatto menzione della parte che, nella dissoluzione delle antiche comunità, e quindi nella generalizzazione diretta o indiretta della proprietà privata, rappresenta la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci, la loro produzione non per il consumo proprio, ma per lo scambio. Ma ora Marx ha provato con evidenza solare nel “Capitale”, e Dühring si guarda bene dal riferirvisi sia pure con una sola sillaba, che ad un certo grado di sviluppo la produzione di merci si trasforma in produzione capitalistica, e che in questa fase “la legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci ossia legge della proprietà privata si converte direttamente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che pareva essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza in quanto, in primo luogo, la quota di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore, l’operaio, ma deve essere reintegrata come un nuovo sovrappiù (…) Originariamente il diritto di proprietà ci si è presentato come fondato sul rapporto di lavoro (…) Adesso” (alla fine del suo sviluppo dato da Marx) “la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista come diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito ossia il prodotto di esso, e dalla parte dell’operaio come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità” In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio, arriviamo necessariamente all’attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione dell’altra classe, che costituisce l’enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati, arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l’odierna anarchia della produzione. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La “proprietà fondata sulla violenza” si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose>>.