A PARTIRE DA DUE “UTILI PRECISAZIONI” DI UN ECONOMISTA

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Sul Sole 24 ore del 29.10.2016 l’economista Fabrizio Galimberti ci spiega in maniera abbastanza articolata il modo in cui viene calcolata l’occupazione in Italia e con lievi differenze anche negli altri paesi dell’occidente. Il livello occupazionale viene definito attraverso questi parametri:

<<Nelle statistiche dell’Istat ci sono almeno quattro definizioni: una che viene dall’inchiesta sulle forze di lavoro (FL) – gli occupati – e tre che vengono dalla contabilità nazionale (CN): occupati, unità di lavoro e posizioni lavorative. Poi, sempre dalla contabilità nazionale, ci sono i dati sulle ore lavorate: un altro modo di guardare all’input di lavoro.>>

La principale differenza tra gli occupati da FL e quelli della CN sta nel fatto che i secondi includono le convivenze, dalle caserme ai nosocomi alle prigioni, mentre l’inchiesta FL è fatta solo presso le famiglie. Per quanto riguarda le posizioni lavorative esse tengono conto del fatto che uno possa avere più lavori risultando così superiori numericamente rispetto agli “occupati”. Ma il cuore della questione riguarda il confronto tra le statistiche da FL e quelle da Ula (unità di lavoro) con quest’ultime che si possono definire come quel dato nel quale

<< si tiene conto del tempo parziale e si riducono gli occupati a unità a tempo pieno (e quindi sono meno degli occupati). […] Le differenze possono essere notevoli. Per esempio, se si mettono a confronto i massimi raggiunti prima della crisi (media dei dati trimestrali destagionalizzati dal T4 2007 al T2 2008) con il dato più recente (T2 2016) si rileva una caduta di 1.435mila Ula e di solo 289mila occupati FL […]. La spiegazione è che la crisi più forte del dopoguerra ha toccato più le ore che le “teste” e quindi ha ridotto il numero di Ula.>>

La conclusione che ne traiamo – se ho capito bene quello che ha detto il professore – è che, come tutti avevamo già intuito, le statistiche occupazionali che ci propinano i media mettono praticamente sullo stesso piano i lavoratori che sono impiegati per l’intero anno e quelli che, durante lo stesso periodo,  lavorano solo una settimana. Ma il reddito disponibile delle famiglie dipende proprio dalla durata del rapporto lavorativo relativamente a ogni persona occupata in un dato anno. Anche le statistiche poco affidabili che vengono elaborate dagli organi governativi potrebbero, quindi, presentarci un panorama relativamente credibile se fossero esposte nella loro interezza in una maniera sufficientemente chiara.

E’ ancora il prof. Galimberti, questa volta sul Sole 24 ore del 19.11.2016, che prova a chiarire alcuni problemi riguardanti i bassi tassi d’interessi che, in alcuni casi, si sono ridotti a zero o hanno addirittura raggiunto valori negativi. Ovviamente i tassi a zero o giù di lì sono utili per i prenditori di fondi, ma nocivi per i prestatori di fondi. E di solito

<< i capri espiatori delle lamentele sono le Banche centrali. Queste, da sempre guardate con reverenza, sono oggi da molti criticate. Ma i tassi a zero dipendono veramente dalla politica delle Banche centrali ? Il tasso di interesse di equilibrio – quello al quale l’economia spontaneamente tende – è determinato dalle forze fondamentali che plasmano i livelli desiderati di risparmio e di investimenti. Uno studio della Bank of England ha calcolato che quelle forze fondamentali – progresso tecnico, demografia, progressi nell’efficienza dell’intermediazione finanziaria, disuguaglianze di reddito – hanno cospirato nell’abbassare di ben quattro punti e mezzo, dal 1980, il tasso di interesse reale di equilibrio.>>

La discesa dei tassi a breve e a lungo termine, quindi, è iniziata molto tempo prima degli interventi delle Banche centrali volti ad abbassarne il livello. Le conclusioni che noi possiamo trarre concernono prima di tutto l’osservazione che la fase critica iniziata a metà degli anni settanta nell’area occidentale non era mai stata veramente superata anche se alcune innovazioni di prodotto, in particolare nel campo dell’elettronica e dell’informatica, e aggiustamenti di politica economica e finanziaria avevano sostenuto la domanda e gonfiato la componente “fittizia” degli aggregati monetari. In secondo luogo appare evidente che il livello dei tassi è determinato soprattutto da fattori che rimandano alle decisioni politiche più generali, a quelle strategicamente più importanti; “progresso tecnico, demografia, progressi nell’efficienza dell’intermediazione finanziaria, disuguaglianze di reddito” non sono, infatti, dipendenti dalla politica denominata “economica” dei governi ma dagli indirizzi fondamentali delle politiche statali, “regionali” e globali. “Monetarismo” e “finanziarismo” risultano essere, quindi, soltanto lo stadio finale e la degenerazione completa dell’economicismo.

Mauro Tozzato 06.01.2017