RITAGLI DI GIORNALE SULLA SITUAZIONE IN MEDIO ORIENTE
L’esperto di geopolitica Giampiero Venturi il 23.02.2017 scriveva:
<< La voce viene direttamente dagli USA, prontamente rimbalzata dalla testata iraniana PressTv. Secondo Scott Rickard, analista ex intelligence USA, gli Stati Uniti starebbero stringendo i tempi per evitare che rimangano evidenti prove del loro coinvolgimento nella creazione e nell’addestramento delle milizie dello Stato Islamico, avvenuti a partire dal 2012. A conferma dei sospetti di Rickard ci sarebbe l’attuale intensificazione dei bombardamenti USA su Raqqa, l’autoproclamata capitale del Califfato in Siria e soprattutto la richiesta di un maggior numero di forze di terra da impiegare nel Paese arabo sostenuta nientemeno che dal generale Votel, comandante del CENTCOM, il centro comando americano competente per tutte le operazioni in Medio Oriente e parte dell’Asia centrale. Ad alimentare ulteriormente le illazioni ci sarebbero le voci di una visita segreta in Siria del senatore McCain avvenuta a metà febbraio, ufficialmente finalizzata alla visita delle truppe speciali USA presenti nel nordest del Paese, ma presumibilmente mirata ad incontrare i capi delle milizie curde. La campagna su Raqqa si sta declinando in questi giorni su tre assi paralleli:
• le truppe di Damasco appoggiate dai loro alleati (principalmente forze aeree russe, iraniani ed Hezbollah), arrivate finora sulla sponda occidentale dell’Eufrate all’altezza di Deir Hafer;
• l’operazione Scudo dell’Eufrate condotta dalle forze regolari turche appoggiate dal Free Syrian Army (divenuto ormai branca di Ankara in Siria), attestate per ora nell’area di Al Bab;
• le Syrian Democratic Forces, cartello multietnico dominato dalle Unità di difesa curde (YPG), avanzate rapidamente in queste ore, fino ad arrivare a una decina di km dalla periferia di Raqqa.
A fronte di un obiettivo apparentemente comune, le tre componenti ambiscono a traguardi radicalmente diversi. Damasco preme per continuare a riconquistare quanto più territorio possibile sia ai fondamentalisti del Califfato, sia ai ribelli anti Assad, di cui le SFD sono una variante. I turchi cercano di arginare la fortificazione di un’entità curda autonoma, a costo di entrare in attrito con gli interessi americani. L’intenzione di procedere verso sud è stata sostenuta a febbraio direttamente dal presidente Erdogan. Sulle reali intenzioni delle SDF ci sono invece molte ombre. Le Syrian Democratic Forces all’interno del Governatorato di Raqqa impiegano più che altro reparti arabi (non curdi quindi, n.d.a.), dato che farebbe immaginare la reale intenzione di entrare nella città e liberarla da un triennio di occupazione jihadista. L’appoggio americano alle milizie del cartello sarebbe cresciuto nelle ultime settimane fino a creare sospetti sul vero ruolo che i liberatori di Raqqa dovrebbero poi svolgere una volta arrivati nel cuore dello Stato Islamico.>>
Il fatto che gli americani abbiano contribuito alla nascita e all’iniziale rafforzamento dell’Isis è una cosa sostanzialmente assodata, un vero e proprio segreto di Pulcinella. Non è certo per questo che gli americani hanno intenzione di impegnarsi maggiormente. L’SDF, inoltre, è diventato un nuovo importante strumento per gli Usa nella strategia che vede impegnate le varie forze e potenze per vincere la partita in Siria ma anche in Afghanistan e in Iraq. Alberto Negri, autorevole giornalista e saggista su tematiche politiche e storiche riguardanti il Medio Oriente, in un articolo del 08.04.2017 aggiunge, in seguito agli ultimi avvenimenti, che l’idea
<< di punire Assad per le armi chimiche è quella di lanciare un avvertimento a coloro che non obbediscono alla superpotenza americana, forse non a caso l’operazione è avvenuta mentre Trump riceveva il presidente cinese, ritenuto il protettore della Corea del Nord. Un’azione dimostrativa: del resto la guerra dal cielo e sul terreno gli americani la stanno già facendo all’Isis e le truppe speciali si trovano sul campo per l’assedio a Raqqa. Un altro risvolto interessante è che i missili hanno colpito una base aerea ma non installazioni vitali a Damasco o il palazzo presidenziale. Per il momento Trump esita ad aprire un fronte più vasto. Ognuno reciterà la sua parte ma che Mosca possa mollare Assad è improbabile, visto che in Siria mantiene basi strategiche nel Mediterraneo. Tanto meno Teheran può abbandonare Assad: il clan alauita di Damasco è l’unico alleato arabo degli iraniani. La punizione del regime farà piacere alla Turchia e alle monarchie del Golfo che per abbatterlo hanno sostenuto i jihadisti. Che poi i sauditi ammazzino tutti i giorni dei bambini yemeniti bombardando i ribelli Houthi non è un evento degno di nota nell’agenda occidentale. Israele, che dal 1967 occupa il Golan siriano, vede nell’attacco Usa un via libera ai raid e a un possibile attacco agli Hezbollah libanesi.>>
Ma lo stesso Negri è poco convinto che gli strateghi di Trump vogliano forzare la mano fino in fondo:
<<La guerra all’Isis si incrocia di nuovo con quella ad Assad: ma sarà vera guerra o Trump ha solo mostrato i muscoli? La seconda ipotesi appare più probabile perché un cambio di regime a Damasco è un’impresa troppo impegnativa e dopo l’insuccesso di Bush junior in Iraq e di Obama in Libia forse gli americani qualche cosa hanno imparato.>>
E quindi il lancio dei missili sarebbe stato un colpo inferto ad Assad più che altro per riallineare Washington con i suoi storici partner in Medio Oriente – Turchia, Israele e le potenze sunnite – assai scontenti di una politica troppo vicina a Mosca e favorevole all’Iran sciita. E Negri scrive ancora:
<<Soltanto pochi giorni fa gli Stati Uniti avevano detto a Erdogan e all’Onu che abbattere Assad «non era più una priorità di questa amministrazione» e che poteva essere un alleato contro i jihadisti: il che significava liquidare seccamente l’obiettivo di Ankara – già costretta a chinare il capo con Mosca e Teheran – e delle monarchie del Golfo. Un cambio di rotta repentino deciso da Trump ma forse soprattutto dai generali Mattis e MacMaster che conoscono a fondo la regione.>>
Per quanto riguarda la Russia lo stesso Negri, in un intervento di qualche giorno dopo (13.04.2017), così si esprime:
<< Se gli stati Uniti hanno la loro linea rossa – mostrare i muscoli della superpotenza e soddisfare gli alleati israeliani e sauditi – la Russia ne ha tracciata un’altra: non si fanno cambi di regime senza il consenso di Mosca, che aveva già dovuto inghiottire la caduta di Gheddafi nel 2011. Per questo i russi hanno opposto il veto all’Onu alla risoluzione di condanna di Assad. Un altro motivo chiave per cui Putin non costringerà presto Assad ad andarsene è che la Russia intende evitare una vittoria jihadista in Siria per le possibili ripercussioni nel Caucaso, sulla popolazione russa sunnita e nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, terreno fertile per l’islamismo radicale. La terza ragione per cui la Russia in questo momento non abbandona Assad è che vuole preservare le sue basi sulla costa siriana del Mediterraneo: un buon motivo per continuare anche l’alleanza con l’Iran e gli Hezbollah libanesi.>>
E, comunque, la volontà di opporsi veramente all’Isis da parte della Russia appare testimoniata dalla situazione di fatto: nell’assedio intorno a Raqqa i russi assieme agli Usa sostengono una coalizione curdo-araba. Così che non sono pochi i commentatori che prevedono per il medio-lungo periodo una spartizione in zone “cuscinetto” e di influenza, a Nord tra curdi e turchi, col predominio degli israeliani sul Golan e degli alauiti-sciiti sulla costa, con russi e americani a fare da padrini, un secolo dopo Sykes-Picot; dando vita, in questo modo, ad un ulteriore versione del “disordine medio orientale”.
Negri, poi, in maniera più generale inquadra la situazione a partire dall’assunto che in Siria si stanno combattendo due guerre: una contro tra Assad e l’opposizione, un’altra contro il Califfato. Conflitti che andrebbero inseriti in un contesto più ampio e di lungo periodo a partire dalla contrapposizione tra la mezzaluna sciita e quella sunnita cominciata nel 1980 quando l’Iraq di Saddam attaccò l’Iran di Khomeini e la Siria fu l’unico Paese arabo a schierarsi con gli ayatollah. Nelle sue conclusioni l’autore dell’articolo sembra, infine, ipotizzare una deriva pericolosa per tutte quelle componenti sunnite che non sono riuscite e servire “bene” gli Usa. Lo scontro tra sciiti e sunniti è, infatti,
<< continuato dopo la caduta del raìs iracheno con l’invasione americana del 2003 e l’ascesa a Baghdad di un governo a maggioranza sciita che ha sistematicamente emarginato i sunniti. Il fronte sciita, con la presenza sul campo delle truppe e dell’aviazione americana, sta per mettere a segno una vittoria a Mosul, roccaforte dell’Isis ormai appesa a un filo. E per la prima volta in questo conflitto è possibile un accordo militare tra Baghdad e Damasco per dare la caccia ai jihadisti dello Stato Islamico. In poche parole il premier iracheno Haider al Abadi, appoggiato dagli americani, potrebbe apertamente allearsi con Assad, nemico degli Usa oltre che dei sunniti.>>
Mauro Tozzato 20.04.2017