Come si conquista l’indipendenza economica
Come ogni venerdì Il Foglio ripropone un brano di Bastiat. Questa volta, il pensatore francese si confronta con gli squilibri della bilancia commerciale. Afferma Bastiat, in una polemica con un politico della sua epoca (Mauguin), che è falso l’assunto secondo il quale chi esporta guadagna più di chi importa. Anzi, squilibri nella bilancia dei pagamenti internazionali non indicano affatto che uno Stato sia in perdita, semmai addirittura il contrario. In un certo senso è vero, se si ragiona con i beni frugali di Bastiat, evitando accuratamente di tener conto della strategicità di alcune produzioni e dei vari livelli tecnologici. Del resto, basta vedere la bilancia dei pagamenti statunitense che segna, nel momento in cui scrivo, -42,40B. A nessuno verrebbe in mente di sostenere che gli Stati Uniti siano un Paese in perdita, anche perché rappresentano la prima potenza economica del Pianeta e questo vorrà pur dire qualcosa. Ma ciò non autorizza nemmeno Bastiat ad inferire una legge generale da alcuni casi di compravendite particolari, per arrivare a giustificare la supremazia dei mercati aperti contro le politiche protezionistiche. In ogni caso, una fase storica non vale l’altra per quante similitudini possano esserci, soprattutto quando mutano i rapporti di forza mondiali. Scrive il francese: “Ero a Bordeaux. Avevo una botte di vino, del valore di 50 franchi. A Liverpool il vino è stato venduto per 70 franchi. Il mio rappresentante ha convertito i 70 franchi in carbone, che sul mercato di Bordeaux valeva 90 franchi. La dogana a quel punto si è affrettata a segnare un’importazione di 90 franchi. Saldo commerciale, ovvero l’eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni: 40 franchi…
Avevo ordinato dei tartufi da Périgord che mi erano costati 100 Franchi; erano destinati a due importanti ministri inglesi ad un prezzo molto elevato, che proposi di convertire in sterline. Ahimè, avrei fatto meglio a mangiarli io…non sarebbe stato tutto perduto, come invece è stato, se la nave che trasportava i tartufi non fosse affondata subito dopo aver lasciato il porto. L’ufficiale della dogana, che in questo caso aveva annotato un’esportazione per 100 franchi, stavolta non aveva nessuna importazione da inserire. Dunque, direbbe il sig, Mauguin, la Francia ha guadagnato 100 franchi, infatti di questa somma le esportazioni, grazie al naufragio, hanno superato le importazioni. Se l’affare si fosse concluso diversamente, se avessi ricevuto il valore di 200 o 300 franchi in sterline, allora il saldo commerciale sarebbe stato sfavorevole e la Francia ci avrebbe perso”.
La morale per Bastiat è questa: è più importante per una nazione ricevere di più di quanto non ceda. Con il Laissez-faire è possibile mentre col protezionismo no, addirittura ci si impoverisce come dimostrerebbero i suoi apologhi. Finché parliamo di vino e tartufi le parabole di Bastiat potrebbero bastare ma se ci spostiamo ad analizzare processi produttivi più complessi, dai quali derivano prodotti ad alto valore tecnico e tecnologico, le cose cambiano di molto. Non è un caso che le nazioni più inclini al libero scambio siano sempre quelle che si trovano dal lato più sviluppato e attrezzato dei tempi. Sono queste che sposano, con una buona dose d’ipocrisia, le virtù taumaturgiche del mercato e della mano invisibile, salvo far valere il pugno di ferro e varie forme di protezionismo in quei settori in cui conservare il primato internazionale è questione di vita e di morte. Il discorso è più o meno quello che faceva Ricardo con la sua teoria dei costi comparati. Ogni popolo dovrebbe specializzarsi nella produzione e nella vendita di merci che, per elementi naturali ed artificiali, lo rendono più adatto a crescere in quei determinati settori. Per cui se i portoghesi fanno bene il vino devono concentrarsi su quello mentre gli inglesi dell’epoca (e gli americani di oggi) dovevano dedicarsi all’industria e ai settori più avanzati. Lo scopo di queste teorie è quello di giustificare scientificamente la sottomissione di tutti gli altri paesi a quello più forte, impedendo alle collettività surclassate dalla rivoluzione industriale (di ieri e di oggi) di fare concorrenza ai padroni, limitandosi ad essere zone di smercio dei prodotti tecnologici di questi e semplici fornitori di materie prime o di altri beni (meno progrediti o anche di lusso). Ora, che Ricardo l’inglese facesse un favore alla sua terra con simili analisi è vicenda comprensibile. Ma il francese Bastiat? Due volte somaro (detto simpaticamente), la prima perché non aveva capito la portata di tali teorie pensate per assuefare i concorrenti dell’Inghilterra ad un ruolo perennemente subalterno, la seconda perché, aderendovi egli totalmente e volendo influenzare i decisori francesi, danneggiava l’economia del suolo natio. Un altro economista, questa volta tedesco, coevo di Bastiat, aveva invece intuito perfettamente l’ “inganno”. Parliamo di Friedrich List: “List… non contesta in toto la teoria del libero commercio internazionale; ed è probabilmente per questo che non prende in specifica considerazione la ricardiana teoria dei costi (e vantaggi) comparati giacché in fondo l’accetta con una piccola modifica: prima di arrivare ad un effettivo libero scambio tra i vari paesi, che sia profittevole per tutti i partecipanti, è necessario passare per un periodo intermedio in cui questi ultimi abbiano potuto raggiungere lo stesso grado di sviluppo industriale del first comer; altrimenti è da “temere che le nazioni più forti usino lo strumento della ‘libertà di commercio’ per ridurre in stato di dipendenza il commercio e l’industria delle nazioni deboli”. Va intanto rilevato che tesi del genere si dovevano scontrare, già in Germania (come negli USA), con le classi dominanti di tipo mercantile e agrario, interessate al libero commercio così come lo intendeva la scuola classica inglese: alla Gran Bretagna la specializzazione in manufatti industriali (da esportare in tutto il mondo), agli altri paesi l’assicurazione di uno sviluppo dell’agricoltura e delle miniere – implicanti una concomitante espansione del settore commerciale – indispensabili a fornire al paese industriale le derrate alimentari e le materie prime necessarie, ma con ampie ricadute utili anche per mercanti e proprietari terrieri degli altri paesi.
List si opponeva a questa concezione, che individuava correttamente come la consacrazione della dipendenza di tutti i paesi rispetto all’Inghilterra”. (La Grassa).
Rinvio al libro “Finanza e Poteri” dello stesso La Grassa per gli approfondimenti.
Infine, vorrei segnalare che anche Marx prese un brutto abbaglio su List. Marx scrive nel 1845 (quindi non ancora “maturo”) che le concezioni di List sono un puro mascheramento degli interessi dei borghesi tedeschi. Il che non è del tutto falso ma, appunto, List intendeva creare una nuova corrente di pensiero che salvaguardasse il suo Paese dalle ideologie dominanti di matrice anglosassone che si spacciavano per neutrali e che incidevano sulle scelte di politica economica del governo, dirottandole su principi errati. Sicuramente, Smith e Ricardo erano superiori a List quanto ad elaborazione teorica ma ciò non toglie che quest’ultimo avesse colto quegli elementi dell’economica dominante che se, pedissequamente applicati, si sarebbero ritorti contro i paesi che arrancavano dietro alla rivoluzione industriale con epicentro inglese.
Ps. Lottieri su Il Foglio, commentando Bastiat, arriva a dire che un valore delle merci, in senso oggettivo, non esiste e che ogni bene è diversamente giudicato da ogni individuo. Quindi ognuno stabilisce come vuole il valore de Il Foglio, per esempio? Provi a metterlo in edicola per un miliardo di euro e vediamo quanti ne riesce a vendere. E’ probabile che i più pretendano di essere pagati per leggere siffatte idiozie. Ecco come buttare a mare secoli di economia con una frase insulsa.