UNA INTERVISTA VECCHIOTTA, MA….. di GLG
Questa è un’intervista pubblicata sulla rivista “Indipendenza” un bel po’ di tempo fa. Non ricordo di preciso l’anno, ma penso fosse il 2005. Non vi è dubbio che oggi ho modificato le mie posizioni. Non ci sono però qui affermazioni che disconosco, semplicemente le ritengo ancora ristrette nel superamento di un certo qual economicismo (comunque criticato senza esitazioni). In un’epoca come quella in cui siamo entrati all’inizio del secolo, dopo il crollo del “socialismo reale”, si è avviata una transizione verso ancora non ben individuate forme dei rapporti sociali. In ogni caso, è caduta la rigidità tipica del sistema “bipolare” e si è entrati in quel “multipolarismo”, che è fonte di fibrillazioni e sconvolgimenti poco prevedibili. Un anno dei tempi odierni vale quanto un multiplo di quelli dell’epoca che fu. Quindi anche le elaborazioni teoriche entrano in uno stato di “sobbollimento” con modificazioni successive e abbastanza rapide di quanto sostenuto in tempi di poco precedenti. Quanto qui viene sostenuto è comunque da me ritenuto ancora valido per una buona “percentuale”. Soprattutto mi sembra ampiamente aperto a ulteriori cambiamenti e sviluppi; quelli che vi ho apportato io negli anni successivi (sperando di continuare a farlo anche in futuro) e magari altri (diversi) da chi fosse eventualmente sollecitato dalla lettura di queste righe.
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DALLA PROPRIETÀ AL CONFLITTO STRATEGICO
-superare il marxismo tradizionale per una nuova teoria anticapitalistica-
Dalla proprietà privata dei mezzi di produzione al conflitto strategico. Sostituendo il secondo concetto al primo, Gianfranco La Grassa, nel suo ultimo lavoro (Il capitalismo oggi, Petite Plaisance Pistoia 2004), intende indicare una strada per la ricostruzione di una teoria critica del capitalismo. Cosa intendano ed implichino questi due concetti, è argomento di questa intervista. (introduzione della redazione della rivista)
INTERVISTA
Perché questo cambio d’impostazione?
Il fallimento totale del comunismo storico novecentesco insegna che nessuna formazione sociale potrà mai trasformare e superare quella capitalistica se si insegue l’illusione di annullare il conflitto tra classi con la pianificazione centrale e la proprietà statale dei mezzi di produzione. Se il fulcro del modo di produzione capitalistico viene fondato sulla proprietà dei mezzi di produzione, come nel marxismo tradizionale, si finisce con il ritenere che la dinamica intrinseca del capitalismo determini una scissione dicotomica della società in pochi dominanti, proprietari di capitali, e in una gran massa di dominati, in possesso delle effettive capacità (intellettuali e manuali) inerenti alla produzione. Da qui, la convinzione della necessaria funzione rivoluzionaria e trasformatrice – con transizione ad altra società, socialista e comunista – dei dominati, una volta che essi si sbarazzino dei proprietari capitalisti e dirigano collettivamente l’intero sistema produttivo ormai organizzato e coordinato (pianificato).
Cosa intendi per “marxismo tradizionale”?
Una formazione teorico-ideologica le cui basi furono gettate da Engels e soprattutto da Karl Kautsky, stretto collaboratore della socialdemocrazia tedesca e protagonista del congresso di Erfurt del 1891, in cui il partito socialdemocratico tedesco si dà un nuovo programma politico, sostituendo quello risalente al congresso di Gotha del 1875. L’operazione compiuta da Kautsky è la saldatura del pensiero di Marx con il nascente movimento operaio. La teoria del funzionamento del modo di produzione diventa una dottrina che doveva dare alla classe operaia, bisognosa di rappresentanza politica, la sicurezza di essere inserita nella corrente della storia. È questa operazione a far diventare Marx un profeta del comunismo, ed è questo il marxismo alla base del pensiero della stragrande maggioranza dei marxisti, Lenin incluso, che pur ruppe violentemente con l’opportunismo del “Papa rosso” Kautsky. Il quale, ricordiamolo, avallò la scelta del partito socialdemocratico di sostegno alla prima guerra mondiale, che mandò la classe operaia e i popoli al macello, ed accolse con grande ostilità la rivoluzione bolscevica russa.
Quali le differenze con il pensiero di Marx?
Un punto principale è che, nel capitalismo secondo Marx, la riproduzione dei rapporti fondamentali avviene in un ambiente sociale comunque caratterizzato dalla lotta tra capitalisti, che impedisce ogni ricomposizione dello spazio produttivo ad unità, sotto la direzione di un unico centro. Non così per Kautsky, che parlerà persino di ultraimperialismo, cioè di un centro unico mondiale del capitalismo. Secondo Kautsky, si sarebbe verificato a livello mondiale un processo di centralizzazione dei capitali (cioè l’accentramento della proprietà) che avrebbe portato, sia pure in via tendenziale, alla formazione di un unico trust capitalistico ed alla fine di ogni competizione. Si tratta, va detto, di una drastica e unilaterale estremizzazione della tendenza alla centralizzazione dei capitali teorizzata da Marx. Se Marx avesse però pensato in termini appena vicini a quelli dell’ultraimperialismo, non avrebbe propugnato la rivoluzione dei dominati. Sarebbe bastato aspettare l’esito finale del processo, ed il capitalismo sarebbe sprofondato, un po’ come è poi invece accaduto al “socialismo reale” nel 1989-91. Senza competizione non sussiste, nella concezione di Marx, possibilità di riproduzione dei rapporti caratterizzanti la società capitalistica. Ma il punto cruciale dell’ortodossia kautskyana è un altro.
Quale?
La supposta oggettiva funzione emancipatrice universale della Classe Operaia. Concependola come soggetto intermodale (di passaggio, cioè, da un modo di produzione all’altro), Kautsky sostituisce la classe operaia al concetto marxiano di lavoratore collettivo cooperativo. Con l’ultraimperialismo da un lato e la funzione intermodale della classe operaia dall’altro, la rivoluzione sarebbe stata nelle cose: la classe dominante si sarebbe ridotta ad un pugno di pochi parassiti finanziari, sempre più screditati e privi di reale consenso, contrapposti ad una smisurata massa di sfruttati dotata di padronanza sull’organismo produttivo e pronta a compiere la rivoluzione globale.
Anche Marx, ai tempi del Manifesto del 1848, parlava di classe operaia, ma nel cosiddetto capitolo VI inedito, testo facente parte de Il Capitale pur se non dato alle stampe, preciserà cosa intendeva, trattando del lavoratore collettivo cooperativo. I marxisti dell’epoca, anche i più grandi come Lenin, non hanno però messo in discussione la capacità rivoluzionaria della classe operaia. Furono invece formulate una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, che condusse infine al ripiegamento, in Urss a partire dagli anni ’30, su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialista di Stato Lassalle, aspramente criticato e sbeffeggiato a suo tempo da Marx.
La mancata funzione intermodale della classe operaia è dunque il punto cruciale di impantanamento del marxismo cosiddetto tradizionale. Anche le correnti critiche che hanno provato ad uscire dall’impasse, sono però rimaste vittima del miraggio della ricerca della classe rivoluzionaria in sé. Si è continuato a pensare fondamentalmente all’esistenza di due soli, decisivi e fondamentali soggetti antagonistici: ieri “classe operaia contro classe borghese”, oggi la versione negriana “moltitudini contro impero”.
La concezione della funzione intermodale della classe operaia poteva sembrare valida nelle prime fasi dello sviluppo del capitalismo, dato che questa classe aveva conservato a lungo, modificandoli gradualmente, i suoi legami, diretti o solo indiretti e parziali (di mentalità, di costume, di abitudini, di tradizioni), con il mondo contadino e con quello artigiano. Essa era quindi culturalmente, e socialmente, autonoma rispetto alla borghesia industriale. Ma la società capitalistica avanzata odierna sembra (ripeto: sembra) costituita da ceti medi a diversi e fortemente differenziati livelli di reddito; la concezione marxista tradizionale non è più di gran aiuto per la distinzione e valutazione dei conflitti sociali e delle contraddizioni tra dominanti e dominati.
Un fenomeno, la formazione dei ceti medi, non compreso dal marxismo.
I marxisti non hanno in genere afferrato compiutamente la portata dell’enorme, e assolutamente irreversibile, sviluppo dei ceti medi, cioè l’ampio settore piccolo-imprenditoriale sia industriale, sia commerciale e sia, fattore ancor più decisivo, dei servizi: non semplicemente quelli delle tradizionali libere professioni (comunque in crescita e sempre importanti sia economicamente che politicamente), ma anche quelli di settori decisamente nuovi. Pensiamo al marketing, alla consulenza finanziaria, alla pubblicità, al design, alla programmazione informatica, eccetera. Impossibile stare dietro a tutti questi specialismi, di cui vivono e prosperano decine e centinaia di migliaia di imprese, piccolissime e anche individuali.
Alcuni marxisti sostengono che sarebbe l’enorme aumento della produttività degli operai a rendere possibile il sostentamento dei “ceti medi” di cui sopra. Che ne pensi?
Sostenere che, grazie alla cospicua crescita del saggio (e della massa) del plusvalore estorto alla classe operaia, si consente il mantenimento della schiera sempre più vasta di ceti medi (una congerie di ruoli e funzioni del tutto polverizzata, non certo facilmente aggregabile in un concetto purchessia di “soggetto collettivo”), è affermazione del tutto inutile. Dimostra l’ormai esauritasi capacità conoscitiva di certo marxismo ormai ridotto ad ideologia identitaria di piccole sette di credenti. Bisogna prendere atto della conclusione fallimentare di oltre un secolo di movimento comunista, e partire da una impostazione che, ad esempio, non consideri qualsiasi fase di sviluppo del capitalismo come fosse l’ultima.
Proponi dunque di partire dal conflitto strategico. Puoi meglio precisare questo concetto?
Ogni società umana è caratterizzata dal conflitto tra classi: dominanti e dominate, ma soprattutto tra classi (e frazioni di classi) dominanti. Secondo l’impostazione del problema da me scelta, in ogni forma di società il conflitto più acuto e permanente è proprio quello intradominanti. Le loro strategie di conflitto – sempre presenti in ogni epoca della società umana, ma penetrate all’interno della sfera economica nella transizione al capitalismo – sono decisive per quanto concerne la dinamica e il mutamento delle diverse formazioni sociali. La nozione di conflitto strategico focalizza l’attenzione soprattutto sulle modalità della competizione tra dominanti per l’egemonia – cioè la capacità di imporre le proprie decisioni – nella società tutta. E spiega, al contempo, il perché dell’impossibilità permanente, nella sfera economica, di porre termine alla separatezza delle unità produttive in lotta (per i mercati, in prima istanza) fra di loro. Esse si alleano e cooperano soltanto al fine di confliggere con altre. E quando alcune vincono e altre soccombono, uscendo dal mercato o venendo inglobate dalle vincitrici, non si realizza affatto una riduzione dei competitori ad un numero sempre minore di gruppi proprietari di crescenti dimensioni, fino al pieno accentramento della proprietà stessa.
Fondamentale è pure la considerazione delle innovazioni di prodotto, che creano nuovi settori produttivi (ad es., oggi, informatica e telecomunicazioni, biotecnologie, ecc.) che lanciano nuove epoche di espansione. Queste dimostrano come nel capitalismo non è insita la stagnazione. Tali innovazioni non solo ampliano la dimensione quantitativa del mercato, ma ne infittiscono la rete intersettoriale con un numero crescente di branche produttrici dei nuovi prodotti; nascono così molte nuove imprese di differenti dimensioni: ad es. quelle leader dei nuovi settori e quelle del cosiddetto indotto, ecc.
Affermi che il conflitto di classe soprattutto intradominanti ha caratterizzato ogni società umana. Anche nel defunto “socialismo reale”?
Sì. Venuto a mancare nella sfera economica, poiché schiacciato dalla pianificazione centrale, il conflitto intradominanti, sotto la copertura della salvaguardia dell’unità del partito (definito avanguardia degli operai e dei contadini), si è trasferito nella sfera politica e in quella ideologica, strettamente condizionata dal catechismo del marxismo-leninismo.
Come si è realizzato questo processo?
Il punto di partenza è la mancata formazione del lavoratore collettivo cooperativo (tutto il corpo lavorativo della fabbrica: dal primo dirigente all’ultimo manovale, cioè un complesso di lavoro direttivo ed esecutivo, intellettuale e manuale), che era per Marx il soggetto collettivo decisivo ai fini della trasformazione verso il socialismo. Marx riteneva che la dinamica di sviluppo della grande industria avrebbe portato ad una scissione antagonistica tra i soggetti portatori della capacità di produrre (il cosiddetto general intellect, le potenze mentali della produzione, i saperi di scienza e tecnica) e quelli proprietari, considerati in progressivo distacco da ogni funzione utile nella produzione. Secondo Marx, la formazione sociale non sarebbe più stata in grado, in simili condizioni, di sviluppare le proprie forze produttive, entrando così in fase di degrado e putrescenza. La proprietà sarebbe stata individuata senza più veli come una causa ormai estrinseca di conflittualità e disarmonia, connessa al suo puro carattere finanziario di possesso azionario e di godimento di profitti.
Il lavoratore collettivo cooperativo – definibile anche come collettività dei produttori, basato sulla piena cooperazione tra dirigenti ed esecutori – che si sarebbe dovuto formare in base ai processi di centralizzazione dei capitali, non è però mai venuto ad esistenza. Le stesse rivoluzioni sedicenti “proletarie” si sono affermate non in formazioni sociali ad alto livello di sviluppo delle forze produttive e di diffusione delle grandi imprese, bensì in quelle in cui la netta preminenza spettava a rapporti sociali di forma ancora precapitalistica.
Della mancata formazione del lavoratore collettivo cooperativo non se ne prese però atto nella Russia postrivoluzione.
Si è ritenuto invece che, per realizzare il passaggio alla formazione della collettività dei produttori, occorresse innanzitutto raggiungere uno sviluppo delle forze produttive, in specie industriali, tale da condurre verso la fine dei problemi della “scarsità” dei beni prodotti. Scarsità alla quale invece non è mai stata data soluzione.
Due a questo punto i passaggi decisivi del marxismo-leninismo tradizionale. Primo: porre fine all’autonomia e separatezza delle unità produttive in modo da non creare discrepanze e squilibri, da cui nascono le crisi del capitalismo. Secondo: identificazione della proprietà collettiva con quella statale, per porre termine alla separatezza in questione mediante pianificazione centrale attuata d’imperio.
Per i marxisti, tutto il male (il conflitto) nasceva dalla proprietà “individuale” (anche di gruppi di individui proprietari dei mezzi di produzione), considerata la causa fondamentale della separatezza tra le unità produttive, con tutto ciò che ne consegue: impossibilità di rendere coerentemente complementari le varie attività e di coordinare ed armonizzare le diverse produzioni onde evitare squilibri, crisi, eccetera, con i loro costi sociali. Si presumeva che la centralizzazione monopolistica della proprietà avrebbe reso chiara ed esplicita la necessità della complementarietà e cooperazione tra i vari collettivi di produttori (lavoratori salariati, sia direttivi che esecutivi). Un’idea rivelatasi errata.
Ecco dunque calare dall’alto la pianificazione centrale.
Nei paesi postrivoluzionari sono stati affidati i compiti di coordinamento e armonizzazione tra le produzioni “individuali” ad un organo centrale (statale), dal quale promanava una pianificazione corazzata di coercizione, repressione e punizione di ogni “scarto” rispetto alle direttive centrali. Si è così annullato il conflitto infradominanti in campo economico, per trasferirlo in quello politico, di cui si è tentato di mantenere l’assoluta unità e compattezza, supponendola necessaria al coordinamento d’imperio poc’anzi descritto. Dietro una patina d’unità, esplodevano però terribili lotte intestine, oscure, senza lucida visione delle difficoltà cui le società del “socialismo reale” andavano sempre più incontro, entrando in un periodo di stagnazione e putrescenza crescenti. C’erano solo accuse di tradimento, di subdolo tentativo di incrinare l’unità dell’istituzione considerata il fulcro del coordinamento centrale: il partito comunista, all’interno del cui vertice dirigente avvenivano, per ondate successive, lotte cruente per l’eliminazione di tutti gli “impuri” ed i “traditori”.
Concludendo: bisogna mettere da parte la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione centrale, per non ricadere nell’errore di riprodurre le aberranti politiche condotte in passato nell’ambito degli apparati partitico-statali. Bisogna partire dal conflitto strategico, a mio avviso il concetto chiave attorno al quale interpretare le strutture e le dinamiche riproduttive dei vari raggruppamenti – “classi” di ruoli e funzioni – che compongono il modo sociale di produzione capitalistico, l’oggetto teorico cruciale dell’elaborazione di Marx.
Ritieni ancora essenziale il concetto di modo di produzione per l’interpretazione della società odierna?
Certamente. Il modo di produzione non consiste però in un semplice modo tecnico-organizzativo di produrre i beni, come lo si interpreta normalmente in ambito sindacale. Per Marx significava una (storicamente) specifica forma di appropriazione/trasformazione della natura per i bisogni della vita degli uomini in società. Si tratta, cioè, di una appropriazione che si svolge solo in presenza di particolari strutture di rapporti sociali, nel cui ambito vengono soddisfatti i bisogni umani e generato quel plusprodotto di cui si appropriano, in tutte le società storicamente conosciute, date classi sociali dominanti.
Che intendi per plusprodotto?
Il plusprodotto (nel capitalismo, plusvalore) è definibile come quel di più che, in determinate condizioni storico-sociali di “sopravvivenza”, viene generato in eccesso rispetto alla riproduzione di un certo standard materiale relativo alla vita sociale di quell’epoca. Il plusprodotto, creato dal lavoro dei dominati, è la base materiale del conflitto intradominanti. In tutte le società precapitalistiche, esso veniva appropriato dai dominanti all’esterno della sfera economico-produttiva, e cioè nelle sfere – cosiddette “sovrastrutturali” – del potere politico e culturale. Qui i dominanti conducevano i loro conflitti, prendendo ogni decisione in merito a tutto ciò che concerneva le direzioni d’uso del plusprodotto. Nella società capitalistica, invece, il plusprodotto – nella sua forma di valore, che è la forma generale in cui si presentano i beni prodotti quali merci – viene prelevato dentro i processi produttivi.
Quali elementi conformano il modo di produzione capitalistico?
Le forze produttive e i rapporti sociali di produzione. Tra essi sussiste intreccio, per molti versi reciproco condizionamento, ma anche autonomia, che esige perciò un’indagine distinta. Ogni produzione/appropriazione deve avvalersi di determinate forze produttive: la capacità lavorativa umana, in particolare quella intellettiva e creativa, che orienta la ricerca di nuovi materiali e di nuovi strumenti, ed i mezzi di produzione (strumenti, materie prime, fonti di energia, eccetera). Il nucleo centrale del concetto di modo di produzione è costituito comunque dai rapporti sociali di produzione che intercorrono tra uomini nel corso di detta produzione/appropriazione. Rapporti che hanno forme peculiari, differenti da epoca ad epoca, da modo di produzione a modo di produzione.
Rapporti comunque conflittuali.
Sicuramente. Nel capitalismo, la competizione riguarda soprattutto gli agenti strategico-imprenditoriali della sfera economica-produttiva. Tale conflittualità è decisiva per la riproduzione, pur anarchica e disordinata, dei rapporti di questa “storicamente determinata” forma di società, e contribuisce alla forte crescita delle forze produttive: sia quantitativa che qualitativa, in termini di innovazioni di processo (marxisticamente parlando, i metodi del plusvalore relativo) ma soprattutto di prodotto, cioè scoperta di nuovi settori produttivi trainanti. Proprio la forte crescita delle forze produttive caratterizza l’attuale forma di società rispetto a quelle precedenti. A dispetto del marxismo, la disorganizzazione della produzione non implica quindi crolli o permanente putrescenza del capitalismo, bensì provoca congiunture di crisi. In sintesi: la lotta decisiva nel capitalismo non è quella condotta tra chi produce il plusprodotto (plusvalore) e chi se ne impossessa (“Proletariato” e “Borghesia”), bensì quella tra le varie frazioni dei dominanti che lo utilizzano nel loro reciproco conflitto, per la predominanza sociale complessiva.
A quali frazioni di classe dominante ti riferisci? Agli agenti strategico-imprenditoriali?
Non solo a loro. Io preferisco parlare di blocco dominante, costituito non solo dalle classi dominanti “economiche”, ma anche da quelle “politico-militari” e “ideologico-culturali”. La visione degli agenti strategico-imprenditoriali, tesi alla conquista della massima potenza economica – cioè delle quote di mercato, del controllo finanziario e delle direzioni e aree di investimento dei capitali – è spesso abbastanza limitata. La stessa conquista della massima potenza economica non può essere conseguita se la si isola dal dominio complessivo nella società. Gli agenti dominanti strategico-imprenditoriali sono dunque sempre coadiuvati, pur con periodi di reciproca tensione e differenza di strategie, da quelli di tipo politico – con le appendici militari, specializzate nell’uso più diretto e immediato della forza – ma anche da quelli ideologico-culturali. Gli agenti “politici”, proprio per il “luogo” (sociale) in cui si trovano ad agire, possiedono in molti casi una più ampia visione in merito alle strategie di dominio complessivo.
Quale funzione assegni allora alla sfera economica?
La sfera economico-produttiva è quella in cui si genera, attraverso la vendita delle merci prodotte da unità produttive in competizione, l’alimento primario, il mezzo fondamentale per il conflitto tra raggruppamenti sociali (in linguaggio marxiano, la riproduzione dei rapporti sociali): il denaro, nelle sue varie figure monetarie e finanziarie. Per procurarselo, bisogna approntare e vendere merci. Tale denaro rappresenta la realizzazione di quel plusvalore, “prodotto” all’interno dell’impresa, senza cui i dominanti non potrebbero combattere fra loro per la supremazia sociale e territoriale. Realizzazione che avviene esclusivamente per il tramite del conflitto tra imprese.
Qui sta l’importanza degli agenti strategico-imprenditoriali. Di tali gruppi strategici non si può dire quel che disse Marx dei capitalisti (dirigenti in quanto proprietari dei mezzi produttivi), e cioè che contribuiscono alla creazione di ciò (plusprodotto in forma di valore) di cui poi si appropriano. Chi semmai contribuisce a questa creazione è il management “tecnico”, la “direzione tecnica”, che svolge funzioni interne all’impresa ed agisce in base alla razionalità strumentale, prevalentemente calcolante, del “massimo profitto” (del massimo ricavo o del minimo costo).
Gli agenti strategico-imprenditoriali si caratterizzerebbero invece per un’altra razionalità.
La funzione degli agenti strategico-imprenditoriali – che siano proprietari, manager, ecc. – è rivolta all’esterno dell’unità produttiva/impresa (da analizzare come unità del prelievo del plusvalore in competizione con le altre). La loro razionalità si manifesta spesso come astuzia, raggiro, inganno, corruzione; in ogni caso come flessibilità tattico-strategica, la cui forma apparente è la contrattazione e la mediazione. Mai però per comporre il conflitto, bensì per collocarsi in una posizione di vantaggio – o di riduzione di uno svantaggio – da cui ripartire in futuro per nuovi conflitti. Non esiste riproduzione capitalistica (dei rapporti, non di mere quantità prodotte) senza la centralità, nella società, della funzione di detti agenti. Se quest’ultima viene messa in discussione, si entra in una situazione di crisi proprio perché diviene più difficoltosa la realizzazione del plusvalore, processo decisivo per le classi che intendano assumere la preminenza nella società. Verrebbe nel contempo ostacolata l’azione delle direzioni tecniche tesa, all’interno stesso dell’impresa e delle varie divisioni produttive di cui questa consta, alla formazione del plusprodotto-plusvalore da prelevare e successivamente da realizzare nel mercato.
Quale classe, all’interno del blocco dominante, assume la supremazia?
Non credo sia concettualmente individuabile uno strato realmente dominante. Ho l’impressione che non sia possibile una effettiva teoria generale al proposito. In tale insieme di gruppi dominanti, a seconda delle congiunture, può prevalere ora una tipologia di agenti strategici, ora un’altra. Questo è un problema di verifica empirico-storica, non di mera definizione teorica. Tuttavia, è possibile indicare la probabilità della prevalenza ora dell’una ora dell’altra tipologia di agenti strategici in differenti congiunture storico-strutturali della formazione sociale capitalistica. Da questo punto di vista, è però necessaria una più ampia visione della competizione intercapitalistica, cioè intradominanti, che consideri insieme, pur distinguendo e articolando le rispettive funzioni, i tre strati di agenti dominanti: economico-imprenditoriali, politico-militari, ideologico-culturali. Va superata la considerazione secondo cui i dominanti sono sempre gli agenti della sfera economica-produttiva e finanziaria. L’idea che il potere economico sia in ogni occasione del tutto preminente, che “gli industriali” comandino e i gruppi politici, spesso racchiusi nella sintetica dizione di Stato, eseguano, è banale e superficiale, sebbene possa essere realistica in determinate congiunture storiche, come l’attuale in Italia, ed in certi paesi con una determinata struttura degli apparati e dei blocchi di potere.
Assodati i limiti del marxismo tradizionale per la comprensione della società odierna, ritieni ci sia comunque qualche strumento interpretativo da salvare?
Del marxismo tradizionale resta l’importanza del concetto di prelievo del plusvalore – e dei metodi dello stesso (plusvalore assoluto e relativo) – ai fini del conflitto tra classi, gruppi, eccetera. La teoria del valore-lavoro conserva una sua validità. A condizione che la si intenda correttamente come uno strumento al servizio dell’articolazione del concetto di modo (sociale) di produzione capitalistico e della riproduzione dei suoi rapporti cruciali. Uno strumento analitico che dimostra come, ad ogni ciclo produttivo, da una parte esca il capitalista arricchito del plusvalore, e dall’altra il lavoratore salariato, manuale e intellettuale. Il quale può vedere accresciuta, in date congiunture, la sua remunerazione e dunque il suo tenore di vita, ma resta comunque un venditore di forza lavorativa. La differenza tra il valore (lavoro) delle merci prodotte dai lavoratori, ed il valore delle merci necessarie alla riproduzione della vita di questi ultimi (in sostanza, il salario loro elargito), costituisce appunto il plusprodotto/plusvalore. Il marxismo, pur quello economicistico, ha messo in luce questa differenza, che costituisce la fonte del profitto – da realizzare poi nella conflittualità intercapitalistica – degli agenti strategico-imprenditoriali. Questo è un merito…
Però…
…non giustifica l’idea di due soggetti antagonistici, borghesia e proletariato, ben delineati e sostanzialmente compatti, la cui lotta sarebbe quella che massimamente caratterizzerebbe la dinamica capitalistica. Non esiste il Capitale, ma i tanti capitali in conflitto reciproco: il loro è il conflitto che apre possibilità (non necessità) di trasformazioni sociali, mentre quello che si svolge tra capitale e lavoro è generalmente di tipo redistributivo nell’ambito del modo capitalistico di produrre (e di riprodurre i rapporti sociali decisivi di quest’ultimo). È inoltre valido a mio avviso il concetto di estrazione del plusvalore; da ciò non consegue però che la classe operaia sia il soggetto rivoluzionario per eccellenza. La storia del novecento ha anzi mostrato che spesso la contraddizione principale non è stata quella tra Capitale e Lavoro, bensì quella tra imperialismo e masse popolari. E’ però necessario, in ogni caso, intendere quest’ultimo quale fase (non certo ultima o suprema) del capitalismo. E’ necessario analizzare la struttura sociale del capitalismo odierno, l’interrelazione conflittuale tra le sue varie “sezioni” geografico-sociali, l’attuale “piramide” imperialistica (non mai ultraimperialistica!), onde non cadere nella genericità della contrapposizione all’imperialismo come si trattasse di una mera politica di certi strati sociali e di certe frazioni di agenti strategici. Tanto meno è accettabile che si sia semplicemente antimperialisti in quanto antistatunitensi. Spero di non mai sentire dagli antimperialisti (ma solo perché anticapitalisti!), sia pure in un gergo aggiornato – e quindi meno facilmente comprensibile – qualche sparata analoga a quella degli anni trenta contro le “plutocrazie demo-giudaico-massoni”, ecc.
In conclusione?
In conclusione: più che cercare di individuare un improbabile soggetto portatore della rivoluzione, propongo di ragionare in termini di dominanti e dominati. È un preciso passo indietro, verso una sobria genericità, per sgombrare il campo dalle fasulle aspettative di una rivoluzione globale che rappresenterebbe una sorta di fine della storia. Anche l’eventuale futura forma di società sarà, con tutta probabilità, caratterizzata dalle lotte di classi, di gruppi o frazioni delle stesse, eccetera. Questa presa d’atto mi sembra comunque più incoraggiante di tanta mal riposta fede nel comunismo. Il “socialismo reale” è definitivamente crollato e, salvo che dai ciechi, non può essere rimpianto da nessuno come alternativa credibile al modo di produzione capitalistico. Bisogna abbandonare certi “vecchi lidi”. Teoricamente, occorrono nuove “mosse”. Io ne ho compiuta una: porre al centro della rete concettuale il conflitto di strategia tra agenti dominanti di tipologie diverse (non semplicemente quelli attivi nella sfera produttivo-finanziaria). Si tratta però solo di un inizio.