I CIALTRONI DELL’ANTICAPITALISMO
(o dei reazionari mascherati da arruffapopoli)
C’è un aspetto davvero odioso nel comportamento dei contestatori da operetta del turbo-capitalismo (intercooler?) col cervello sovralimentato dalla vanità. Quello di lamentarsi in tv, sui giornali, sui loro libri pubblicati dalle principali casi editrici e nelle conferenze universitarie o sponsorizzate da imprese, banche e ricche associazioni di essere ostracizzati, con le loro idee non conformi, dai circuiti dominanti. La contraddizione è evidente a chiunque ma le facce di bronzo di questa presunta intellighenzia non temono vergogna. In realtà, costoro trovano tutta questa eco nei mezzi d’informazione per una chiara ragione: il loro pensiero verboso e vacuo non fa male ad una mosca. Si dicono dialettici ma poi non capiscono la dialettica del potere che concede spazio a chiunque quando la minaccia proveniente da certe critiche è letteralmente spuntata. Piuttosto, esso si serve di tali utili idioti per una maggiore legittimazione che chiama libertà di espressione essendo invece quest’ultima soltanto l’espressione di una libertà isolata concessa ad alcuni singoli parolai per diffondere fandonie. Ed, infatti, di che parlano tali cialtroni? Di concetti senza alcun contenuto che iniziano e finiscono in un valzer di locuzioni irrimediabilmente avvitate su se stesse. Non a caso da questa ripetizione di tautologie e calembour abusati si esce solo sputando sentenze e giudizi moralistici che non inficiano la natura del dominio e non muovono di un millimetro la conoscenza del mondo.
I temi preferiti dai propagandisti della chiacchiera sono da alcuni decenni sempre gli stessi: la globalizzazione che inghiotte la diversità, l’ultimo stadio finanziario del capitalismo che annuncia il suo collasso, la distruzione del pianeta per sperpero di risorse ecc. ecc. Contro queste storture si predica il ritorno ad un senso della misura che era dei greci o di qualsiasi altra collettività premoderna e contadina. Questi signori ben pasciuti non capiscono che è invece è proprio la “dismisura” ad averci fatto fare un salto di qualità, dal regno della scarsità a quello dell’abbondanza (pure se mal distribuita), dalle crisi per penuria a quelle per soprappiù di merci invendute a causa dell’anarchia mercantile (ma una carestia era un evento ben più drammatico di un crollo finanziario). E’ l’eccesso che genera il necessario affrancandoci dalla brutalità della “natura”, o meglio, dell’esistere alla mercé dei suoi capricci, in quanto essa pone la basi di tutto ma non ci regala nulla.
Lamentele e lagne che generalmente si concludono con l’invocazione romantica del rientro ad una purezza umana pre-capitalistica, di tipo comunitario, socialmente mai esistita. Un ennesimo mito dell’origine che fa il solletico alle dinamiche del potere, un feudalesimo di preconcetti che giustamente Marx definiva “metà lamentazione e metà pasquinata, metà riecheggiamento del passato e metà minaccia del futuro … che riesce sempre comico e ridicolo per la sua assoluta incapacità di comprendere l’andamento della storia moderna”. Ma il passato non torna e questo Marx lo diceva ogni due per tre. Occorre, pertanto, accettare, almeno in parte, l’’idea che il profitto capitalistico, per quanto ingiusto, rappresenti una forma storica del fenomeno più generale per cui l’uomo tende a produrre più di quanto è necessario a mantenere l’umanità, “con livelli di vita via via crescenti e importanti sviluppi e trasformazioni delle strutture sociali”. (La Grassa). Altro che misura! Non possiamo negare questa evidenza che ha migliorato le nostre vite pur se il capitalismo non ci piace, pena una caduta rovinosa nel ridicolo. Ma gli intellettuali non temono il ridicolo e vanno indietro per la loro strada. Anche quando parlano di mettere la museruola ai mercati con maggiori regolazioni o ricorrendo all’etica, per calmierare gli animal spirits imprenditoriali, non si rendono conto di ricadere in diatribe già liquidate da Marx e Engels. Quest’ultimo scrisse che: “Da quando la produzione delle merci ha assunto le dimensioni del mercato mondiale, l’equilibrio fra i singoli produttori, i quali producono secondo un calcolo privato, ed il mercato per il quale essi producono, di cui ignorano in effetti la domanda sia qualitativa che quantitativa, si stabilisce in seguito di uno sconvolgimento del mercato mondiale, in seguito ad una crisi commerciali. Impedire alla concorrenza di far conoscere ai singoli produttori, attraverso il rialzo e il ribasso dei prezzi, le reali condizioni del mercato, significa renderli completamente ciechi”. E così Marx rincarava la dose: “Coloro che, come Sismondi, vogliono ritornare alla giusta proporzionalità della produzione mantenendo le basi attuali della società, sono dei reazionari in quanto, coerentemente, debbono voler restaurare anche tutte le altre condizioni dell’industria dei tempi passati. Che cosa manteneva in quei tempi la produzione nelle giuste proporzioni, o quasi? Era la domanda, che aveva la prevalenza sull’offerta ed anzi la precedeva. La produzione seguiva passo passo il consumo. La grande industria, costretta a produrre su scala sempre maggiore proprio dagli strumenti di cui dispone, non può più stare al passo con la domanda. La produzione precede il consumo, l’offerta forza la domanda. Nella società attuale, in una industria basata sugli scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è la causa di tanta miseria, è al tempo stesso la fonte di ogni progresso.
Ora, di due cose l’una:
O volete le giuste proporzioni dei secoli passati con i mezzi di produzione della nostra epoca, e siete allora dei reazionari e degli utopisti. O volete il progresso senza l’anarchia ed allora, per conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali.
Gli scambi individuali possono conciliarsi solo con la piccola industria dei secoli passati e con il suo corollario di «giusta proporzione» o anche con la grande industria, però con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia”.
Così funziona ancora la nostra società (pur se si è modificata la sua segmentazione spaziale e stratificazione sociale, le sue strutture ecc. ecc.) e ciò non può essere ignorato se si vuole “progredire”, a meno che non si sappia con cosa sostituire, già da domani, quello che si vuole abbattere oggi. Se la risposta dei sapientoni è il buon tempo andato e i suoi legami comunitari devono andare solo affanculo. Siete tutti autorizzati ad inviarceli perché sono dei bugiardi buffoni.
Quando gli stessi fanno elucubrazioni speculari sulla dismisura finanziaria, trasformando questa in stadio terminale del sistema, ormai al calar della sua esistenza, non si discostano da simili modi di sragionare già affossati da Marx un secolo e mezzo fa. Vedete quanto sono decrepiti i nostri nouveaux philosophes che guidano l’umanità a bruciarsi nel sol dell’avvenire per fermare la “glebalizzazione”? Sono gli autentici servi del sistema, persino della sua parte peggiore. Mistificatori di professione che fanno danari ingannando il prossimo.
Ma qui lascio la parola a La Grassa (da un libro sulle crisi economiche, di prossima pubblicazione, che speriamo possa sia di supporto a quanti, seriamente, vogliano iniziare a comprendere la nostra epoca): “Intanto, da quando c’è il capitalismo, la crisi inizia sempre dal lato finanziario. Scatenarsi contro il parassitismo dei banchieri, la loro scarsa eticità, il loro affarismo truffaldino, è come prendersela con la pioggia perché bagna. Nessuno si augura una stagione completamente secca, poiché si estenderebbe il deserto. Tuttavia, se piove, non possiamo pretendere che mai diluvi e non ci siano anche, periodicamente, allagamenti; e, se non produciamo impermeabili e ombrelli, o non si esce di casa oppure ci si inzuppa ben bene. La finanza è indispensabile – soprattutto in epoche di grandi cambiamenti e trasformazioni – poiché nel capitalismo la gran parte di ciò che è prodotto è merce e si deve scambiare mediante denaro. Senza quest’ultimo non solo non ci sono scambi, ma nemmeno investimenti e innovazioni, e neppure avanzata ricerca scientifico-tecnica; soprattutto non c’è la potenza, termine entro cui ricomprendo tutta l’attività politica, nel senso più lato possibile, senza la quale non ci si sviluppa né ci si difende dalla crisi e dall’arretramento di posizioni di fronte ai competitori.
Quando però c’è necessità di un dato mezzo, chi lo possiede ne approfitterà, in specie quando i bisogni d’esso aumentano (appunto nelle epoche di trasformazione); e approfittarne significa credere ad un certo punto di poter fare denaro tramite denaro, inventare trucchi, imbrogli, creare le famose “bolle speculative”, ecc. La “distorsione” del sistema è intrinseca al funzionamento specifico d’esso. Il settore che manovra denaro tende ad autonomizzarsi rispetto al resto, ha le sue imprese, ecc; quindi chi dirige queste ultime agisce come se tutto il mondo fosse solo quello della finanza.
Lo ripeto: inutile lamentarsi, chiedendo allora nuove regole, una nuova etica, ecc. Più semplicemente, vanno messi “a regime” gli apparati finanziari; ma ciò avverrà fino alla prossima trasformazione con nuove grandi esigenze di mezzi monetari. La “storia” si ripeterà quindi con le solite modalità (anche se i subprime e i derivati sostituiscono altre precedenti forme di “malaffare” e saranno sostituiti, la prossima volta, da qualcosa d’altro)”.