CRISI ECONOMICHE E MUTAMENTI GEOPOLITICI DI G. LA GRASSA
INDICE
Introduzione
Capitolo I Elementi di teoria delle crisi
Capitolo II Crisi, sviluppo, trasformazione e trapasso d’epoca
Capitolo III la crisi: si brancola nel buio (in primis gli esperti)
Capitolo IV Riflessioni storico-teoriche sulla crisi
Capitolo V Critica dell’economicismo
Appendice I Un discorso “di fase”
Appendice II Contro il neoromanticismo economico
Introduzione, di Gianni Petrosillo
E’ l’eccesso che genera il necessario[…] Senza la speculazione non si farebbero affari. Perché diavolo pensate che tiri fuori i soldi, che rischi di perdere la mia ricchezza se non mi ripromettessi un piacere straordinario, una felicità improvvisa che mi spalanchi il cielo? Col compenso legittimo e mediocre del lavoro, il saggio equilibrio delle transazioni quotidiane, l’esistenza diventa un deserto di una terribile piattezza, una palude in cui l’energia affonda e imputridisce. Se invece, all’improvviso, fate risplendere all’orizzonte un sogno, promettete che con un soldo, se ne vinceranno cento, offrite a tutti quegli addormentati nella palude di mettersi a caccia dell’impossibile, e parlate loro dei milioni conquistati in due ore, in mezzo ai rischi più terribili, vedrete che la corsa comincia subito, le energie sono moltiplicate, il parapiglia è tale che la gente sgobbando per il puro piacere di sgobbare, riesce talvolta a fare dei bambini, cioè delle cose grandi, belle, ricche di vita…Ah, perbacco! E’ vero che ci sono tante porcherie inutili, ma è anche vero che, senza quelle porcherie, il mondo finirebbe. E. Zola, L’Argent.
1. Questo libro nasce da un’esigenza, quella di decifrare il problema delle crisi economiche nella società capitalistica. Teoricamente e storicamente. Il pensiero economicistico prevalente, cosiddetto neoliberista e “globalista”, ancorato ai suoi miti fondativi, la mano invisibile, le robinsonate “asociali”, gli equilibri(smi) del mercato ecc., si scontra con scuole più critiche che contestano la funzionalità dei cosiddetti correttivi automatici del “sistema”. Alcune di queste sperano di poter depurare il capitalismo dalle sue deformazioni, bilanciando pubblico e privato, aumentando la presenza istituzionale in settori socialmente sensibili (sanità, grandi infrastrutture, ecc.), altre di approfittare delle crescenti contraddizioni per una “resa dei conti” ed una trasformazione dei rapporti sociali. I neokeynesiani (come i loro predecessori keynesiani), per esempio, perorano un maggiore interventismo dello Stato (inteso erroneamente quale organo contemperatore degli interessi di tutta la società) per frenare l’anarchia dei mercati, altre tendenze più radicali (sedicenti comuniste o socialiste) intravedono nella speculazione fuori controllo un tratto irreversibile della degenerazione dei tempi, per contrastare il quale occorre ritornare a legami comunitari, anche rinnegando i progressi conseguiti. Sia l’esegesi ufficiale che quelle antagonistiche, o pseudo tali, appaiono però ristrette e fuorvianti. Esse non comprendono il carattere ricorsivo della crisi economica nei capitalismi e i mutamenti che questa segnala. In ogni caso, restano nell’orizzonte di una “realtà costituita” che obnubila cause ed effetti di funzionamento delle nostre società. In questo saggio, invece, si tenta di fare una disamina diversa del fenomeno, andando oltre le apparenze superficiali e studiando i mutamenti nei rapporti di forza che avvengono in simili periodi.
Ho suggerito l’idea di questo testo a Gianfranco La Grassa proprio perché mi sembrava giunto il momento di una vera battaglia teoretica e culturale, finalizzata a rompere gli “schemi” di un’epoca che si annuncia pregna di cambiamenti, nella quale occorrerà imbracciare le armi della critica ma, soprattutto, come si sarebbe detto un tempo, la critica delle armi, per provare ad incidere sui prossimi inevitabili eventi. Si sente dire, dai sostenitori dello statu quo, che il capitalismo (definizione di comodo che non spiega il passaggio di questo “modo di ri-produzione sociale” dal modello inglese a quello americano), nella sua versione globalizzata, sia un orizzonte invalicabile della Storia (a dir il vero, il tiro è stato ultimamente corretto, allorché le ottimistiche previsioni di conciliazione mondiale, dopo l’implosione del blocco socialista, si sono scontrate con ulteriori sfide e conflitti che hanno inaugurato il III millennio). Si tratterebbe, al massimo, di migliorare le sue performance inficiate dal carattere degli attori sociali, non sempre razionali e piuttosto inclini al vizio o al cedimento morale. Questo traguardo giustifica, inoltre, l’esportazione, a suon di bombe, della democrazia, allo scopo di togliere di mezzo chi non accetta la libertà in tutte le sue forme, quella della circolazione dei capitali, delle idee, degli uomini, dei beni e delle conoscenze tutt’altro che neutrali.
Avverso questa visione dell’ “open society“ si scagliano gli “antiglobalisti”, i quali però anziché focalizzarsi sull’aspetto (geo)politico della questione (il fatto che la guida, per fornire di tali superiori principi l’umanità, non sia altrettanto collegiale ma, anzi, basata sulla forza di un unico Paese e dei suoi alleati subdominanti: gli USA e le altre formazioni dell’area occidentale), sulla battaglia per le sfere d’influenza tra Stati, riapertasi col multipolarismo (in virtù dell’emergere e del riemergere di potenze revisionistiche dell’ordine mondiale), oppongono a tale rappresentazione del mondo narrazioni parimenti distorte. Si tratta di “storielle” di vario tipo, economiche, sociali, culturali. Si accetta, insomma, il concetto che, effettivamente, il potere risieda in élite apolidi, operanti nella sfera finanziaria, imponenti una “dittatura” del denaro spersonalizzante e antiumanistica. La lotta contro questa aristocrazia dello “strozzinaggio” è ritenuta prioritaria per salvaguardare il destino dell’Uomo (inevitabile la lettera maiuscola, perché l’umanitarismo non concepisce gli individui nella loro connessione e suddivisione sociale, variabile di era in era, ma solo soggetti destoricizzati). Occorre, invece, negare la sussistenza di questo potere sovranazionale finanziario, di cui tutti gli Stati sarebbero strumenti passivi, in via di estinzione. Se così fosse, non ci sarebbe un Paese predominante che trascina gli altri nei suoi conflitti, producendo disordine crescente, in conseguenza di una perdita di controllo delle sue tradizionali sfere d’influenza, a vantaggio di concorrenti in ripresa di potenza. Esisterebbe, invece, un coordinamento internazionale unificato, le crisi non diventerebbero così profonde e sarebbe sempre agevole trovare delle soluzioni concordate.
Contrariamente a dette ubbie, bisogna piuttosto comprendere che gli Stati, in quanto sistemi di apparati, sono strumenti nelle mani di agenti strategici dominanti (in competizione fra loro), di tipo nazionale, che confliggono con quelli di altri Stati. Tale conflitto prevede, certamente, delle alleanze ma queste sono sempre orientate a meglio posizionarsi nella lotta di tutti contro tutti, che in alcune fasi diventa guerra aperta, come accaduto per due volte nel XX secolo. Ovviamente, man mano che ci si avvicina a detto momento si acuiscono gli scoordinamenti nelle varie sfere sociali, a partire da quella che, nei sistemi capitalistici, prende il davanti della scena: la sfera economica, suddivisa in produttiva e finanziaria. Il multipolarismo crescente è il segnale che gli assetti mondiali sono in via di riconfigurazione. E’ difficile prevedere gli esiti ultimi di questo movimento carsico che per ora scuote solo l’epidermide delle formazione capitalistica globale, organizzativamente non omogenea al suo interno (si pensi, ad esempio, a Paesi come Russia e Cina, i quali si fondano su presupposti economici speculari a quelli occidentali ma, politicamente, essi sono meno impastoiati nei rituali democratici o negli umori dell’opinione generale). Gli economisti, ormai volgarmente più tecnici che scienziati, credono di cogliere queste profonde trasformazioni sociali con grafici e statistiche, recitano il mantra dei conti da tenere in ordine, cercando con ciò di legare le mani agli Stati e alle loro strategie di lotta. Ma quello che si approssima sarà un periodo in cui gli organi di vertice dei Paesi torneranno a “spendere”, non lesinando energie finanziarie e strategiche, senza curarsi troppo dei bilanci, al fine di far aumentare la propria capacità di proiezione internazionale. E’ probabile che di questo si avvantaggino gli strati popolari, da coinvolgere emotivamente nello sforzo delle élite in “singolar tenzone”, in questi ultimi anni tosati da dirigenze di scarso coraggio politico. Laddove, si installeranno drappelli dominanti, con una più ampia visione dei processi storici, i quali avranno necessità di creare nuovi blocchi sociali per compattare le nazioni nella lotta, è possibile migliori anche la condizione di quei ceti che fin qui hanno pagato la crisi per tutti. Chi non sarà in grado di fare questo salto di qualità resterà vittima del chiacchiericcio degli economisti, quasi tutti di formazione anglosassone (et pour cause), e si impoverirà maggiormente.
2. Purtroppo, c’è chi tira in ballo Marx per legittimare affrettate conclusioni sul capitalismo giunto al suo ultimo stadio di “volatilità” finanziaria. Ma le cose non stanno esattamente così. Secondo Marx, la lotta nel libero mercato tra capitalisti avrebbe favorito processi di concentrazione (prima) e di centralizzazione (poi) dei capitali, con espropriazione di molti proprietari, i quali sarebbero stati risospinti tra i salariati (anche se di più alto livello). Contestualmente, la socializzazione dei diversi processi produttivi, favorita dalla prima circostanza, non avrebbe incontrato più ostacoli, determinando la formazione, nella produzione, di un nuovo soggetto collettivo, il quale avrebbe avuto tutto il controllo delle fasi lavorative, dalla progettazione all’esecuzione. La proprietà si separava dalle potenze mentali della produzione che andavano a ricongiungersi alle forze manuali. Non v’è però in ciò alcun livellamento gerarchico, tra manager “ideatori” e operai “attuatori”, non esiste orchestra che possa suonare senza il coordinamento di un direttore, ma vi è sostanziale comunità d’intenti, emergente da relazioni sociali di fatto. Al contempo, si determina però una netta dissociazione nella collettività, tra redditieri (proprietari degli impianti industriali, secondo modalità finanziaria di controllo) e salariati in senso lato, ovvero, se si vuole usare una terminologia desueta, “colletti bianchi” e “tute blu”, in crescente combinazione (il lavoratore collettivo cooperativo).
Marx spiega che questa classe di rentier, ancora strapotente nei gangli statali, risulta essere in decadenza, per via del fatto che la base materiale (produttiva) sfugge alla sua egemonia ed esiste esclusivamente grazie al controllo politico degli apparati di coercizione dello Stato. Il rapporto sociale generale è, pertanto, diventato favorevole al lavoratore associato che rappresenta il grosso della società, la sua parte più dinamica e propulsiva. I pochi capitalisti finanziari sopravvissuti sarebbero stati, dunque, eliminati da detta compagine collettiva che avrebbe dato, infine, la spallata allo Stato, in cui erano asserragliati gli ultimi prepotenti, rovesciandoli una volta per tutte. Questo sosteneva Marx nel III libro del Capitale, inequivocabilmente. Sono le circostanze in cui ci troviamo adesso? Per quelli che si fermano agli sconquassi sui mercati, evidentemente sì, il “finanzcapitalismo” dimostrerebbe che il clero monetario si è ormai costituito in classe intermodale (una sorta di rivoluzione dentro il Capitale) originando la transizione da un capitalismo industriale a uno cedolare. Ma sono allucinazioni. Addirittura, si sarebbe concretizzata anche la profezia marxiana di una definitiva separazione tra proprietà e produttori, preludio al crollo dell’ “impero del Capitale”.
Lorsignori, non hanno compreso che l’ipotesi marxiana prevedeva qualcosa di ben più articolato rispetto alle loro facili approssimazioni, infatti, la divaricazione sociale tra possessori del denaro, nelle sue varie specificazioni, e utilizzatori delle macchine, avrebbe favorito il formarsi, nel processo produttivo, di una vera classe intermodale portatrice di un rapporto sociale non più fondato sull’estorsione del plusvalore ma sulla piena razionalità dei processi e l’equa appropriazione dei prodotti. Il General Intellect si sarebbe riprodotto socialmente sugli automatismi di un rapporto di tipo comunistico, del quale però v’è traccia, non ai tempi di Marx (che pure sembrava vederlo operare nel grembo di un capitalismo ormai maturo), non ora (che è stato smentito dalla riconfigurazione capitalistica). Per questo, occorre decisamente contestare la presunta egemonia della Finanza, acefala e anomica, sull’industria, sullo Stato e sulla società. Forse, essa ha gioco facile a sottomettere quei Paesi incapaci di sviluppare politiche autonome e che si lasciano attaccare dalle banche e dalle multinazionali estere, ma anche la Finanza è inserita in un preciso contesto nazionale, al quale rende inevitabilmente conto.
Dobbiamo, pertanto, affermare che nella produzione non si è saldato il lavoratore combinato proprio perché il “destino” del capitalismo è stato di attraversare l’oceano e di americanizzarsi, innestandosi su peculiarità sociali sconosciute in Europa. E’ oggi evidentissimo che gli strati alti del management produttivo (non parliamo di quello strategico) sono parte integrante dei gruppi dirigenti dominanti. I redditieri per Marx erano, invece, quelli estraniati dalla produzione, spossessati delle potenze mentali. Con la sola ricchezza, inoltre, non si domina un bel nulla. Perciò, tutto quello che viene attribuito a Marx, in questa falsa interpretazione del suo pensiero, è campato in aria. Il pensatore tedesco non era stato così rozzo e antiscientifico nell’esprimersi, non aveva mai vaneggiato di massonerie danarose che dominano il pianeta. Quando il profitto si stacca nettamente dal “salario di direzione”, quando il capitalista si tramuta in mero proprietario di azioni, che si arricchisce rapinando in borsa i suoi simili, cessa anche la sua spinta innovativa nella produzione. Il capitalismo comincia, allora, a deperire, perché si svigorisce il rapporto sociale di sostegno, esplode la contraddizione tra accrescimento della potenza sociale del lavoro (con uno sviluppo inarrestabile delle forze produttive unificate nel General Intellect) e appropriazione privata dei prodotti sul mercato, a favore di una sempre più ristretta classi di proprietari (modo della produzione e modo dello scambio subiscono un cortocircuito). A fronte di questa potente elaborazione di Marx, comunque smentita dai fatti, gli attuali critici del Capitale, blaterano di finanzcapitalismo, in ciò facilitando il gioco dell’ideologia dominante, ben adusa a sostenere tali emerite idiozie, dando addosso ai finanzieri “cattivoni”, per depistare la critica, condurla su un penoso piano moralistico, oltre che sterilmente economicistico. E’ impossibile, pertanto, digerire quanto annunziato da questi “rodomonti” che occupano la scena pubblica, dalla televisione all’editoria.
Nelle loro disamine c’è una incomprensione profonda del modo di riproduzione sociale in essere. Innanzitutto, il carattere più generale della crisi capitalistica è la sovrapproduzione, infatti, non vi è scarsità o penuria di beni, come spesso accadeva in passato, ma loro eccesso rispetto alla domanda. Si tratta, senz’altro, di una crisi che determina impoverimento delle più larghe masse popolari ma, pur sempre, in un contesto di avanzamento produttivo, in cui si susseguono scoperte tecnologiche, miglioramenti di processo e, soprattutto, realizzazione di nuovi prodotti, cui però non corrisponde l’aumento della capacità di acquisto delle masse. Molte merci restano invendute, le imprese capitalistiche soffrono perdite, sono costrette a ridurre la produzione e le unità lavorative occupate; molte devono chiudere o persino fallire. Questa è la tendenza generale contrastata però dalla proliferazione di settori inesplorati, destinati, presto o tardi, a decollare. E’ in corso un’altra rivoluzione che non ha ancora mostrato tutte le sue potenzialità ma a breve i risultati si noteranno.
Certamente, chi perde il lavoro non consuma, facendo crollare ulteriormente la domanda di tali prodotti, a loro volta le imprese riducono quella dei beni di produzione smettendo d’investire. La crisi si estende. E’ giusto pensare a forme di aiuto per i ceti deboli ma ciò non basterà ad invertire la rotta. Solo l’occhio più superficiale non comprende che nella crisi si manifesta il sintomo di una ristrutturazione o riconfigurazione che, in certi frangenti storici, va ben oltre i confini dell’economia.
La seconda rivoluzione industriale, verificatasi tra fine Ottocento e inizio Novecento, fu attraversata da una lunghissima stagnazione, proprio mentre si gettavano le basi di un grande balzo tecnologico e di profondi mutamenti geopolitici. Poiché la società capitalistica appare come un grande ammasso di merci è ovvio che i suoi terremoti più profondi si presentino in superficie con sconvolgimenti in questa sfera, prima a livello finanziario, poi della cosiddetta “economia reale” ed, infine, nei rapporti di forza tra aggregati statali (a livello della sfera politica, dove si trova il vero nucleo della complessità sociale e dei suoi decisivi conflitti per la preminenza). A seconda delle fasi, le crisi possono risolversi con aggiustamenti che non intaccano il funzionamento generale dell’economia, ed in questo caso si parla più che altro di recessioni, (di solito si tratta di correttivi utili a migliorare la situazione all’interno di un’area ad egemonia stabilizzata, avente un centro regolatore pienamente operante) oppure, in epoche di incertezza geopolitica, la crisi, dipendente da una strenua competizione interstatale, che fa saltare le regole del gioco. Noi ci troviamo all’imbocco di un’epoca di quest’ultimo tipo, poiché siamo passati da una stagione monocentrica, con assoluta supremazia statunitense, ad una multipolare con crescita di elementi regionali (Russia, Cina) che impediscono alla superpotenza di essere unilaterale nelle sue decisioni. La crisi contemporanea è dunque débâcle da sregolazione geopolitica (accompagnata da importanti novità a livello tecnologico e produttivo, la cui portata si vedrà col tempo) che non annuncia il definitivo precipitare del capitalismo (il termine è ormai riduttivo per definire il nostro modo di riproduzione sociale, forgiato sul modello statunitense) nel finanziarismo parassitario, bensì l’inizio di una acerrima conflittualità tra aree per la supremazia mondiale, politica e, in subordine (o meglio, contestualmente), anche economica.
3. E’ passato un decennio dall’esplosione della bolla immobiliare americana del 2008 che diede avvio alla crisi. Dal principio, in altri saggi, sostenemmo che la débâcle economico-finanziaria non si sarebbe risolta molto presto perché la sua natura era prevalentemente (geo)politica. Mentre i grandi sapienti della triste scienza si dividevano in due correnti, quelli che minimizzavano (assicurando che la tempesta sarebbe stata superata con le dovute regolazioni ed il ripristino della fiducia nel mercato) e quelli che allarmavano (prevedendo l’ennesimo crollo del sistema), a seconda della scuola di pensiero a cui erano collegati, noi ipotizzavamo l’avvento di un non breve periodo di stagnazione, molto simile a quello iniziato nel 1873 e conclusosi solo nel 1896, senza che, tuttavia, i problemi strutturali degli assetti internazionali si sciogliessero. Furono le successive guerre mondiali del XIX secolo, che decretarono il tramonto del predominio inglese a favore di Usa e Urss, a mettere le “cose a posto”. In generale, in questi momenti d’instabilità, gli scienziati dell’economia non ne azzeccano una ma confidano sulla scarsa memoria di tutti per dispensare consigli e aumentare i loro cachet. Essi arrivano persino a convincersi, soprattutto ex-post, che siano state le loro ricette tecniche a bonificare la palude in cui si versava.
La insormontabile diatriba, caratteristica di queste congiunture, tra sostenitori delle politiche “dell’offerta”, e loro oppositori concentrati sul sostegno alla “domanda”, è solo fumo negli occhi. Occorrerebbe lasciar perdere le prime impressioni che si ricavano dai dati economici e gettare uno sguardo critico sul succedersi vorticoso degli avvenimenti. Scrive La Grassa:
Oggi, per esempio, la crisi si riflette ovviamente in una caduta dei redditi di una buona parte della popolazione. Si tenga intanto presente che si tratta certo della maggioranza d’essa, ma ce n’è una quota non indifferente (io credo almeno un quinto se non un quarto) che della crisi in atto non soffrirà troppo; e ne uscirà non dico indenne, ma sempre con un tenore di vita elevato e con consumi ‘opulenti’. La maggioranza andrà però incontro a forti disagi. Per ragioni di equità e per opportuna strategia politica (che richiede anche quella delle ‘alleanze’ o ‘blocchi sociali’), è lecito venir incontro al malessere di questa gran parte della popolazione; sapendo che non è però composta di soli lavoratori dipendenti. C’è invece chi chiede puramente e semplicemente l’aumento salariale, e soprattutto per ragioni economiche, perché aumentando i consumi si combatterebbe la crisi. Mi dispiace ma questo è un errore; i consumi, se eccessivi e dediti solo ai beni di prima necessità, indeboliscono un sistema-paese e lo fanno uscire dalla crisi – che è inevitabile e ci si deve rassegnare a passarla – in condizioni assai peggiori rispetto ad altri. La crisi sarà in definitiva per tale paese più lunga, più spossante, lo lascerà in balia di quelli capaci di sfuggire al banale populismo di simili proposte. Un certo aiuto ai ceti bassi e medio-bassi è doveroso e utile per impedire scollamenti e lacerazioni del tessuto sociale che lascino un paese in balia del caos e disordine, con accentuazione della sua caduta ‘in basso’ e la possibile ascesa di ‘avventuristi’ che potrebbero condurlo al disastro (non economico, bensì proprio sociale e politico) totale.
Andrebbe messa da parte la sterile lite tra liberisti e keynesiani che torna ricorrente in ogni congiuntura di difficoltà. Costoro si alternano a prendersi la ragione ed a scambiarsi il torto, senza soluzione di continuità. Il libero mercato e le politiche dell’offerta sono i principi ineludibili sui quali si appoggiano i primi. Oggi che sono contestati ovunque riprendono fiato quelli antitetici kyenesiani, che predicano meno mercato e più sostegno alla domanda da parte degli organi pubblici. E’ un circolo vizioso che gira in un senso e poi nell’altro, senza passi in avanti. La crisi però non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (Keynes almeno tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva e pare meno rozzo dei suoi epigoni). Ovviamente, i ceti subalterni devono essere protetti più di quelli superiori dagli squilibri mercantili che su di essi si scaricano con maggiore virulenza ma deve essere altrettanto chiaro che l’immissione di potere d’acquisto in una situazione di crisi non inverte la tendenza negativa. Può lenire ma non risolvere, perché la partita si disputa ad un altro livello: nel grande gioco della potenze per la supremazia mondiale.
La crisi economica è una specie di terremoto che nasce da attriti, più o meno profondi, sotto la superficie sociale. Nella presente epoca, l’impatto tra masse geopolitiche avviene a profondità importanti e l’energia che si scarica in alto è piuttosto potente. Può provocare dei bei disastri ma questi sono conseguenza di sconvolgimenti nei rapporti di forza tra Stati. E’ essenziale distinguere una crisi di simile portata da quelle cagionate dalla volatilità dei titoli. Anzi, su quest’ultimi si possono innestare “manovre” politiche per mettere con le spalle al muro i Governi o le loro imprese strategiche. Chiosa La Grassa che:
Le vere crisi economiche – caratterizzate da crolli improvvisi e catastrofici (tipo 1929) o invece da un lungo periodo di sostanziale stagnazione (tipo quella di fine secolo XIX, 1873-96, cui tende sempre più ad assomigliare la recente crisi generale di sistema del 2008) – non sono affatto controllabili e manovrabili da nessuna forza economica e politica.
In una società dominata dalla forma merce, qual è quella capitalistica, è normale che i primi sconquassi appaiano a livello finanziario. La parte finanziaria, legata alla moneta e alla sue duplicazioni, subisce per prima gli effetti dello scoordinamento sociale, data la generalizzazione della forma di merce nel capitalismo e il conseguente uso necessario del denaro nel ciclo continuo M-D-M. Quando qualcosa interrompe la sequenza (può trattarsi di un evento economico o extraeconomico, come stiamo evidenziando nei nostri ragionamenti) sono i mercati in cui circola il denaro, che è tanto intermediario nello scambio di merci che merce a sua volta (D-D’, cioè denaro che equivale a più denaro, senza anello intermedio, è la formula generale del Capitale), a subire l’iniziale contraccolpo. Queste problematiche, se non dipendono da puri azzardi speculativi, posso riversarsi sui cosiddetti settori dell’economia reale, di beni e servizi, ed allora la situazione può divenire grave.
Ad ogni modo, occorre capire qual è il livello di stabilità politica delle dinamiche storico-sociali, generanti i disequilibri in quella specifica congiuntura, e come si ripercuotono a livello economico, per “classificare” la natura della crisi. Quando non sono messi in questione i rapporti di forza su cui si regge il “sistema” è agevole trovare, entro la stessa sfera economico-finanziaria, delle contromisure di riaggiustamento, operando con gli strumenti normalmente a disposizione. In detti frangenti, anche le iniezioni di fiducia (per rassicurare consumatori e imprenditori), con provvedimenti ad hoc emessi dagli organi istituzionali (un minor carico fiscale sulle aziende o qualche privilegio concesso alle famiglie, per citare qualcosa) possono sortire dei risultati. Invece, se ci si trova nel bel mezzo di uno scontro per le sfere d’influenza, tra Stati in ripristino di sovranità o in recupero di potenza che sfidano un egemone di più lungo corso, gli accorgimenti “amministrativi” risultano inefficaci. Non a caso, la crisi perdura e si aggrava perché i palliativi non possono cambiare il corso storico. Nella nostra fase la strategia (geo)politica conta più dell’economia e dei suoi dettami “contabilistici”.
Chi non comprende la sfida verrà spazzato via dalla furia degli eventi. Per questo possiamo mettere tutti sullo stesso piano, i (neo)liberisti, i(neo) keynesiani e anche i rimasugli (neo)marxisti che fraintendendo Marx, blaterano di predominio della finanza senza patria. Sono scuole di de-pensiero, ormai ossificate, che non hanno più nulla da insegnarci.
4. Per renderci più adeguato lo studio dei fenomeni sociali ed il loro mutare nel tempo, bisogna procedere “sezionando” quella che chiamiamo realtà. Ovviamente, la scelta dei “tagli” e delle scomposizioni del “reale”, con i quali tentiamo di afferrare il mondo, è sicuramente soggettiva ma le teorie si costruiscono facendo inevitabilmente delle scelte, basandosi su intuizioni che concepiscono uno specifico campo di azione, sul quale calare “strutture” costruite mentalmente, le quali non sono proprie dell’oggetto preso in considerazione. Per questo si crea sempre uno scarto tra ipotesi conoscitiva e andamento degli eventi. Altrove, La Grassa ha scritto che questi campi possono risultare saldi per intere fasi storiche ma mai immutabili in quanto colpiti dal flusso conflittuale che li attraversa e li deforma, fino a trasfigurarli. Le teorie che individuano il campo sono il primo passo per stabilizzare l’azione dei soggetti che in esso intendono agire (in quanto trasportati dal flusso squilibrante) al fine di cogliere e poi servirsi delle sue dinamiche, per posizionarsi al di sopra di altri gruppi che si contendono la preminenza. Anticipato il metodo possiamo, dunque, suddividere la società in cui operiamo in tre sfere interrelate: economica (produttiva e finanziaria nel capitalismo), politica (con il suo prolungamento bellico e d’intellicence), culturale (ideologica). La realtà in cui gli individui agiscono non è statica ma è flusso continuo, è getto incessante, è, appunto, “storia”, pertanto, è lo squilibrio la sua unica “costante”.
Gli individui non possono immergersi direttamente in questo scorrimento continuo se vogliono avere una visione più ampia dei processi sociali, devono gettare ormeggi in vari punti, scegliere postazioni di osservazione privilegiate, alzare la testa dall’”acqua”. La realtà è movimento di cui immaginare parti in relazione interattiva, essa è fondata sul conflitto, quale causa di un sotteso squilibrio sempre operante. Lo squilibrio è ciò che innesca le dinamiche del conflitto strategico. Gli attori non possono sottrarsi a tale sorte ed in quanto maschere di rapporti sociali agiscono nel mondo circostante solo dentro queste tendenze. Cioè sono agiti da tali impulsi. La stessa cooperazione nasce dall’esigenza di avere più spinta nel conflitto, contro determinati avversari, o almeno quelli che si percepiscono come antagonisti sulla strada dei propri scopi, allorché si perseguono certi obiettivi. Persino sentimenti come l’amicizia, potremmo supporre, principiano dagli incerti dell’esistenza che spingono a legarsi, con una o più persone, in ”comitive”, per non essere soli nel momento del bisogno. Poi, certamente, su questo movente egoistico, dettato dal timore di essere in balia dei casi della vita, germogliano trasporti e sentimenti sinceri. Per agire, dunque, i soggetti hanno bisogno di fissare un ventaglio d’iniziative su un campo delimitato d’azione, in questo “perimetro” di lotta nascono le loro strategie per la riuscita nei loro intenti.
L’attività strategica è Politica. La Politica è fascio di mosse strategiche necessario ad operare in ogni sfera sociale. Sono Politiche le condotte per primeggiare nella sfera detta politica (lo Stato, i suoi apparati, e tutti gli altri organismi che esplicitamente dichiarano di voler influenzare le scelte in quest’arena), è politica l’ “investimento” di energie per conquistare il mercato nella sfera economica (anche con mezzi extraeconomici), è politica la produzione di idee per egemonizzare la sfera ideologico-culturale (la battaglia delle tesi, attraverso media, editoria ecc. ecc.). Lo Stato viene impropriamente considerato un “soggetto” unitario – questa falsa interpretazione dà sempre adito a molti malintesi, sui suoi compiti e le sue funzioni – mentre esso è invece costituito da centri di elaborazione di strategie in urto fra loro. Ugualmente le imprese, trattate abitualmente quali entità armoniche, sono gestite e suddivise gerarchicamente, sviluppano strategie conflittuali (non esclusivamente collegate ad una razionalità strumentale, quella del minimo mezzo per il massimo risultato, come generalmente si crede studiando questi organismi, che, invece, ricorrono come tutti gli altri, operanti in altre ambiti, ad una più dispendiosa razionalità strategica per avere ragione dei concorrenti, anche rimettendoci qualcosa subito per conseguire un più alto traguardo domani), sia internamente che esternamente, ed il mercato non sta loro accanto, come qualcosa di estraneo, ma è il terreno su cui sono innestate, da cui sono anche composte, in quanto fatte con la stessa “materia”.
Lo squilibrio innesca il conflitto, indipendentemente dai desideri pacifici degli esseri umani, la vibrazione squilibrante scuote la società e produce frizioni che si riflettono socialmente. Ciascuno pensa che sia l’altro a voler prevaricare, ciò vale sia per i singoli individui che per gli enti in cui questi si organizzano, ma è il flusso del reale che li sospinge al confronto/scontro. Dal predetto svolgimento, e dalla differente risposta dei “soggetti”, scaturiscono rapporti di forza dissimmetrici; chi si sente soverchiato vuole recuperare e rovesciarli, chi gode di condizioni favorevoli vuole preservarle. Anzi, quest’ultimo costruisce, sui suoi privilegi, delle narrazioni universali, con le quali condizionare interi blocchi sociali (la cintura protettiva del suo dominio, egemonica ma, quando occorre, anche coercitiva) e stigmatizzare le eventuali alterazioni di questi “equilibri” portate dai gruppi avversi, che solo per il tentativo di insidiarli nel primato diventano immorali, irresponsabili e, persino, terroristi.
Poiché c’è sempre la possibilità di uno sbilanciamento delle forze in campo, si cercano delle alleanze, da parte dei dominanti per tutelarsi contro le “trame” dei nemici o dei (sub)dominanti o non ancora dominanti per ridurre il gap di potenza verso gli egemoni. Trasferendo questo ragionamento nell’agone mondiale si comprende perché si verifichino le crisi internazionali (che immancabilmente principiano dal versante economico) e, in alcuni momenti, si arrivi alle guerre, regionali o mondiali. Quindi, esiste sempre una conflittualità, che può essere latente o pronunciata, a seconda dei periodi, degli individui nei gruppi, dei gruppi nelle formazioni particolari (paesi o aree a “struttura” considerata sufficientemente omogenea), e di queste ultime nell’arena globale, cioè nella formazione capitalistica mondiale. Ad ogni modo, è anche bene chiarire che non è mai possibile stabilire a priori la supremazia di una sfera sociale sull’altra perché è la stessa lotta per la supremazia, in ogni sfera sociale, l’elemento determinante. Questa lotta è lotta di strategie politiche, anche quando non avviene nella sfera detta politica. E’ possibile, forse, stabilire una predominanza relativa della sfera politico-militare sulle altre proprio perché il conflitto portato al suo più alto livello attiene agli Stati e a gruppi che agiscono in esso. E’ il conflitto per la preminenza geopolitica che richiede un coordinamento ed uno sforzo direzionato di tutti i settori sociali verso quell’obiettivo. Tuttavia, lo sguardo “primitivo” si focalizza sul quel che vede di primo acchito, cioè sulla generalizzazione dello scambio mercantile che sembra pervadere il complesso sociale, addirittura mutando antropologicamente gli uomini, come usano dire i filosofi. Ogni cosa è ridotta a compra-vendita, alla logica del profitto, raggiunto col minimo sforzo per il massimo esito. Da questa visione la storia è letteralmente espulsa e non si tiene in considerazione un dato generale, valevole per tutte le epoche (benché quello specifico muti in ciascuna di esse), cioè che il potere è sempre stato in mano a chi ha avuto il monopolio della forza, del consenso, nonché la maggiore intelligenza del rapporto che regola l’architettura sociale.
Non è mai stata la ricchezza (o la moneta) il fulcro di tutto, nonostante sia sempre questa ad oliare gli ingranaggi di un sistema, a “finanziare” i progetti strategici. Si continua a confondere uno strumento con il fine (cosa che individualmente può anche avere un senso ma di certo lo ha meno socialmente). Molti credono a questa fantasmagoria del denaro (e dei suoi duplicati) che proietterebbe ovunque la sua potenza, tanto da attribuire alla finanza il vulnus della crisi, incoraggiati dai veri dominanti, i quali hanno ogni interesse ad insegretire l’essenza del potere. Anche questa è una strategia di chi domina: provocare lo sdegno per l’isolato banchiere truffaldino, al massimo per la banda di speculatori che scippa gli azionisti, piuttosto che dipanare le mosse conflittuali con le quali essi si tengono in sella, disattendendo ai principi propinati alla massa. Quest’ultima deve sempre credere che l’errore sia di qualcuno che fa il furbo e non dell’intero apparato e delle sue logiche di funzionamento. Del resto, i conflitti, erano più visibili in passato, quando la struttura sociale risultava meno articolata e la lotta per il potere si svolgeva principalmente nella sfera politica e in quella ideologica.
Col capitalismo la conflittualità si sposta nella sfera economica, diventa “competizione” per il profitto (cioè appropriazione privata di pluslavoro nella forma del plusvalore), almeno in apparenza. Senz’altro, questo è un meccanismo più sofisticato per appropriarsi del surplus sociale (di cui abbisognavano anche Re, Nobili e Clero per muovere gli eserciti) ma la novità è un’altra, lo stesso sovrappiù, generato dalle classi subordinate e ad esse non pagato, cresce esponenzialmente permettendo di condensare una energia collettiva mai vista. La lotta per la predominanza fa un salto di qualità, si perfezionano le strategie, i mezzi per confliggere, le armi per distruggere. Eppure, questi elementi svaniscono alla vista, restano a lungo dietro il paravento dei movimenti economici, degli affari, dei commerci, del denaro, per apparire solo raramente nei momenti di massima tensione del conflitto, allorché diventa inevitabile far risuonare i cannoni. Essenziale è primeggiare, non guadagnare.
5.Ci troviamo indubitabilmente al bivio di una nuova fase storica di cui la crisi economica segnala la presenza. L’attuale formazione sociale occidentale, sorta dal capitalismo borghese di matrice inglese (La Grassa la denomina formazione dei funzionari privati del capitale, a matrice statunitense, in mancanza di definizione più adeguata), sta perdendo terreno a causa dell’ingresso in una dimensione multipolare (con l’affacciarsi e il riaffacciarsi sulla scena di formazioni particolari in competizione con il predominio statunitense) che annuncia un più profondo policentrismo, non ancora prevedibile nei tempi di effettiva concretazione. La crisi è di fatto il risultato di questo scontro in profondità tra placche tettoniche (aree di paesi) che segnala l’emergere di una diversa configurazione mondiale. Il crollo finanziario, e poi anche reale, è l’aspetto più appariscente, su questo si concentrano gli economisti e gli “esperti” finanziari con le loro ricette risolutive, ma sempre più contorte, che durano l’espace d’un matin. La crisi, presa dal punto di vista strettamente economico, è inevitabile aumento delle sproporzioni tra settori, a causa dell’anarchia nel mondo delle merci.
Lo aveva descritto già Marx che, tuttavia, coglieva la superiorità di questo rapporto sociale rispetto ai precedenti:
Nella società attuale, in una industria basata sugli scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è la causa di tanta miseria, è al tempo stesso la fonte di ogni progresso. Ora, di due cose l’una: O volete le giuste proporzioni dei secoli passati con i mezzi di produzione della nostra epoca, e siete allora dei reazionari e degli utopisti. O volete il progresso senza l’anarchia ed allora, per conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali. Gli scambi individuali possono conciliarsi solo con la piccola industria dei secoli passati e con il suo corollario di ‘giusta proporzione’ o anche con la grande industria, però con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia.
Questa è la regola, ad ogni modo, in altra situazione, è possibile avere un migliore controllo del fenomeno, quando i mercati sono sotto l’egida di un unico Paese, cioè nelle cosiddette epoche monocentriche. Le stesse però durano per un po’, poi lo scompenso prende il sopravvento e la crisi si ripresenta in tutta la sua prorompenza, facendo saltare anche le istituzioni create per stabilizzare quel dato quadro di rapporti di forza. La Grassa spiega che la produzione di merci implica la duplicazione monetaria, ciò fa emergere il settore finanziario, il quale si autonomizza da quello reale (al quale fornisce importanti risorse), in virtù di ritmi ben più vorticosi. Qui è possibile realizzare guadagni con un semplice clic su una testiera, comprando e vendendo titoli in pochi secondi, spostando ingenti capitali per speculare, quindi i tempi della sua realizzazione sono rapidissimi in rapporto a quelli necessari nei settori della produzione materiale. I castelli di carta, prima o poi, finiscono per avvitarsi su se stessi, a causa dell’estrema volatilità del settore e dello iato che si crea con la base produttiva. Quest’ultima non sa come assorbire gli ipertrofici mezzi finanziari, che in altre circostanze sono fondamentali per realizzare i grandi progetti industriali, le infrastrutture più costose, ecc. ecc.
Le crisi finanziarie possono essere ripetute, ma non sempre sono devastanti per l’organismo economico, in quanto colpiscono comparti delimitati e non si estendono a tutta l’intelaiatura sociale. Se invece il disagio perdura, con crolli continui in borsa, con l’inceppamento dei principali circuiti economici, con ripercussioni sulla produzione ecc. ecc. ciò diviene indice di tutt’altre problematiche che oltrepassano la sfera economica. Il momento storico è allora quello di una lotta per la predominanza, che coinvolge gli Stati e che si manifesta primieramente sul lato economico, perché la società capitalistica si presenta come “un’enorme raccolta di merci”, con determinazioni sociali coperte e mediate da quelle “cosali”.
6. Le crisi, che spesso precedono le guerre (anche se non è sempre detto), sono la conseguenza del conflitto intercapitalistico tra gruppi di decisori ai più alti livelli delle sfere sociali. E’ lo sviluppo ineguale dei capitalismi a provocare queste situazioni che devono risolversi in scontri sempre più accesi. La grande crisi del 1929-33, in seguito al declino inglese, determinò l’ingresso in una fase policentrica che, a sua volta, ebbe come conseguenza la guerra mondiale, per la preminenza. Solo dopo l’ultimo conflitto si entra in una fase molto lunga di stabilizzazione, fondata sul bipolarismo Usa-Urss, non un equilibrio di potere perfetto, tanto che a lungo andare la supremazia di Washington emerge, anche per l’incapacità del blocco socialista di tenere il passo con l’avversario (non dobbiamo credere che sia stata la corsa agli armamenti o l’assertività di Reagan a far implodere l’Unione Sovietica, corrosasi dall’interno). In questo periodo di relativa stabilità geopolitica, non scoppiano crisi radicali, nemmeno allorché collassa la Russia e si entra in una breve epoca di monocentrismo Usa, a partire dagli anni ’90. Con l’estendersi dell’impero americano alle aree che rientravano nel campo nemico, inizia tutta una narrazione ideologica di pace, cooperazione, governo mondiale dell’economia di cui l’apice è l’incontrovertibile globalizzazione, portatrice di vantaggi per tutti i partner del consesso internazionale, finalmente unificato negli interessi commerciali e comunitari. Ma, appunto, parliamo di un racconto ad usum populi.
Nel ‘800, quando era Londra la capitale dei traffici, delle produzioni e degli eserciti, spopolava la teoria dei costi comparati di David Ricardo, secondo la quale ogni Paese avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione e nella vendita di merci che, per elementi naturali ed artificiali, lo rendessero più adatto a crescere in quei determinati ambiti merceologici in cui erano impareggiabili, integrati nell’economia mondiale. Per cui se i portoghesi eccellevano nel vino avrebbero dovuto concentrarsi su quello, scambiando bottiglie con i beni che non realizzavano in proprio. Ciò avrebbe ostacolato lo sviluppo in altri settori, magari i più avanzati.
Lo scopo di queste teorie è quello di giustificare, ammantando di scienza l’ideologia, la sottomissione di tutti gli altri paesi a quello più forte, impedendo alle collettività surclassate dalla rivoluzione industriale (ieri come oggi) di fare concorrenza ai meglio attrezzati, limitandosi ad essere zone di smercio dei prodotti tecnologici di questi o semplici fornitori di materie prime o di altri beni frugali (anche se di lusso). Friedrich List, contraltare di David Ricardo in Germania, parlava invece di protezione dell’“industria nascente”, alla quale riservare il sostegno dello Stato, affinché anche in un contesto inizialmente sfavorito potessero concretizzarsi le condizioni di uno sviluppo impetuoso delle forze produttive, per ridurre il gap con i First Comers. La globalizzazione, mutatis mutandis, è la versione del modello ricardiano dei nostri giorni. I periodi unipolari, in ogni caso, non durano in eterno e quello americano sembra già alla fine, insieme al suo idealismo “secolare” di supporto (si annunciava un New American Century, esauritosi in un misero decennio di hiperpuissance). Due lustri di assoluto monocentrismo Usa e già si è aperta una fase multipolare che sfocerà, tra non molto, in un più veemente policentrismo. Oggi, l’antagonista principale del Paese predominante è la Russia, seguita dalla Cina, gigante economico che però militarmente risulta ancora non all’altezza dei due diretti contendenti. Altre nazioni cercano un rafforzamento approfittando dei cambiamenti in corso. E’ chiaro che in un mondo così in movimento si crea uno scoordinamento, visibile, prima facie, dal lato finanziario. La crisi è tornata ad incombere, con un andamento altalenante, tuttavia, il mare resterà burrascoso, con qualche breve schiarita, ancora per un pezzo. Occorre che lo scontro politico si approssimi alle sue estreme conseguenze, con sbilanciamento progressivo dei rapporti di forza tra i poli conflittuali, perché i pilastri dell’economia vadano in frantumi.
Si parla tanto del declino statunitense ma per ora è molto relativo, essendo Washington a guida di un’area ancora potente, militarmente, scientificamente e tecnologicamente. Vi è certamente una discesa che ha imposto una revisione strategica per arginare la perdita di influenza. Il conflitto in Siria, e i suoi esiti poco favorevoli all’amministrazione Usa, è la testimonianza di quanto dichiariamo. L’unilateralità alla quale abbiamo assistito nella gestione dei conflitti, all’indomani del tracollo sovietico, è solo un ricordo.
7. Alla luce di queste spiegazioni, risultano del tutto fuori bersaglio le critiche rivolte dai famigerati “antiglobalisti” alla cosiddetta “élite liquido-finanziaria”, guidata da figure inserite in una specie di “spectre”, come George Soros. Se il problema fosse puramente soggettivo basterebbe sbarazzarsi di qualche farabutto per ripristinare un minimo di tranquillità sociale.
Ma qui, non è in questione il giudizio sulle persone, bensì la definizione delle funzioni e dei rapporti sociali che le determinano. Per capire il ruolo giocato dalla finanza è necessario dipanare l’intreccio delle relazioni interdominanti nella complessiva articolazione delle formazioni particolari, inserite nella formazione globale o mondiale. Quella finanziaria è un’interfaccia che prende il centro del palcoscenico sociale ma ciò che avviene dietro al sipario è certamente più decisivo. I “giochi” realmente determinanti si svolgono negli apparati della sfera politica; questi, peraltro, si condensano in virtù dei conflitti in cui gli attori sono coinvolti, sospinti dal flusso squilibrante della realtà. Volendo riassumere possiamo dire che la formazione capitalistica si presenta con una “base”, la produzione di merci, che crea la massa di mezzi necessaria a confliggere (anche se questo scontro si mostra come più blanda concorrenza per il profitto); da ciò si genera, a sua volta, una sfera finanziaria che distribuisce tali mezzi, qui assume centralità il denaro, in quanto duplicato della merce (tanto forza-lavoro che prodotti); le risorse generate affluiscono alle sovrastrutture politiche e culturali, dove la lotta tra agenti strategici rivela le sue mete supreme. La “sovrastruttura” politica, in questo senso, non deriva semplicisticamente dalla struttura economica della società, come si è a lungo pensato, il rapporto va persino rovesciato, sono le lotte tra agenti strategici nella prima che scuotono “la base materiale” e ne modificano spesso i presupposti, soprattutto quando l’egemonia passa da una nazione particolare all’altra.
Il capitalismo americano, verbigrazia, non è la stessa cosa di quello inglese, come già abbiamo accennato. Il capitalismo, in realtà, rispetto a formazioni sociali precedenti, ha portato la funzione strategica all’ambito economico-produttivo. Qui essa è prorotta, per caratteristiche intrinseche al modo di produzione, in conflitti multipli tra i molteplici attori del mercato, cosicché nient’altro sembra avere lo stesso rilievo, “determinante in ultima istanza”. Invece, l’orizzonte strategico si restringe se ci si convince che tutto si risolva nella sfera economico-finanziaria; questo è l’errore più grave che i politici commettono ai nostri giorni, soprattutto, quelli dei Paesi che nascondono la loro mancanza d’iniziativa e d’indipendenza dietro astrusità come le spread o i parametri di Maastricht. Sono proprio costoro a permettere le aggressioni ai danni dei loro paesi da parte del capitale finanziario, ostacolando, invece, l’attività di industrie strategiche che fornirebbero vitalità a iniziative politiche, orientate al superamento della vecchia sudditanza internazionale.
La finanza è consustanziale al capitalismo, non può essere demonizzata né eticizzata. Va contestualizzata, lasciata libera di procurare risorse a favore delle attività del Paese o ridimensionata quando diventa una quinta colonna al fianco di potenze straniere con le quali depreda le risorse nazionali. Vanno respinte al mittente certe definizioni della finanza in voga nei vecchi ambienti marxisti o in quelli di sinistra. Penso a come essa viene intesa dallo scomparso Luciano Gallino:
Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.
Per Gallino, e per tanti altri, purtroppo anche sedicenti marxisti, il Capitale non è rapporto sociale, come ci aveva insegnato Marx, ma “cosa”, mega-macchina, Moloch imperscrutabile, sfinge imbattibile “che, attraverso i suoi sistemi intermedi – le grandi imprese finanziarie e non – e le sue servo-unità di base, gli uomini economici, procede a estrarre valore, oltre che dagli esseri umani, pure dalla natura”.
Nel Capitalismo non esiste una finale preminenza di una sfera sociale sull’altra anche se, a seconda delle fasi, una di queste può prendere il davanti della scena o condizionare maggiormente le dinamiche complessive del panorama sistemico. Ovviamente, questa divisione in sfere del capitalismo (meglio sarebbe parlare di uno specifico sistema a predominanza americana, sviluppatosi insieme alla potenza e proiezione geopolitica-economica-militare Usa) è “artificiale” (ipotetico) e segue un determinato taglio della realtà ai fini di una decomplessificazione dei suoi elementi (ritenuti più importanti, sempre secondo l’epoca). Come detto le tre sfere in questione sono quella politico(-militare), economico(-produttivo-finanziaria), ideologico(-culturale).
La superiorità è semmai della politica, in quanto insieme di mosse strategiche per primeggiare in un ambiente conflittuale, che scuote ogni ambito societario (nelle sfere predette) modificando i rapporti di forza tra gruppi decisori (verso i quali sono attirate anche le masse).
L’ipertrofia finanziaria e le contraddizioni che seguono, contrariamente a quanto pensano molti intellettuali, non sono il sintomo dell’ormai irreversibile parassitismo da cui sarebbe caratterizzato il Capitale, che avrebbe perciò raggiunto il massimo livello possibile di sviluppo. Le crisi annunciano mutamenti storici, riportano, persino, sulla scena i popoli, cooptati con miraggi e poi usati come carne da macello, mentre gli agenti dominanti si avvicinano alla “battaglia finale”.
Il parassitismo finanziario, pur se prende visibilità esorbitante, non è comunque fulcrale rispetto a quanto accade nella società, quando iniziano a cedere gli equilibri nei rapporti di forza tra agenti dominanti che lottano per il primato in ogni sfera sociale. Indubbiamente, l’ipertrofia finanziaria accentua, ma non scatena, una situazione di lotte già attiva nella sfera politica e, in second’ordine, in quella ideologica, in virtù di un flusso conflittuale sempre operante.
Piuttosto, è interessante capire come l’intreccio relazionale tra attori finanziari (ed economici) e politici influisce nella costruzione di una comune politica di potenza, considerando, per esempio, che l’amministrazione Usa spinge le sue multinazionali del denaro (o altre imprese) ad aggredire i paesi attirati nella propria orbita egemonica, al fine di controllarne i sistemi produttivi. Diversamente, non si spiegherebbero i timori che si manifestano in Europa, ed in Italia in particolare, per lo spread o le valutazioni delle agenzie di rating, quasi tutte appartenenti al mondo anglosassone. Ha ragione Steve Bannon, ex stratega della campagna presidenziale di Donald Trump ed ora animatore dell’internazionale populista, a dire che solo in Italia la gente parla di spread, a causa di campagne martellanti dei giornali e dei media, collegati al vecchio establishment Usa democratico-neocon, in primo luogo per portare al Governo quei famigerati tecnici (istruiti nelle centrali finanziarie statunitensi) che hanno poi depredato i ceti medio-bassi, in ossequio a scelte provenienti da Oltre-Atlantico, prim’ancora che dall’Ue (a rimorchio dei suoi padroni).
8. Giungiamo, dunque, alla conclusione di questa introduzione che ha cercato di toccare, anche se non esaustivamente, molti argomenti del libro di La Grassa. Chi si fa accecare dalla crisi finanziaria (ed in generale economica), crederà effettivamente che la via d’uscita alla débâcle consisterà nel mettere la museruola ad apparati finanziari transnazionali, guidati da approfittatori immorali, sfuggiti al controllo degli organi pubblici. Per questo, da un lato, si fanno proposte per una maggiore cooperazione tra sistemi economici a fini perequativi mentre dall’altro, cadendo in palese contraddizione, si chiede insistentemente l’introduzione di dazi e tasse doganali (non sarebbe irrazionale ricorrere a tali mezzi, come indicato da Friedrich List, per salvaguardare le imprese di punta, inutile è, invece, pretenderli per salvaguardare il riso nostrano dall’invasione di quello asiatico, come recentemente proposto da Matteo Salvini), salvo accorgersi che la situazione non muta ed, anzi, peggiora. Bisogna rompere la gabbia d’acciaio dell’economicismo e comprendere che il caos attuale deriva dal riaccendersi di una conflittualità (geo)politica internazionale. E’ la potenza, come intreccio tra funzioni politiche (militari), economiche (finanziarie), e ideologiche(culturali), di un Paese o di un’area di Paesi omogenea, che deciderà delle sue sorti nella crisi sistemica globale.
L’incertezza è la cifra geopolitica della nostra epoca storica. Diversamente non si può concettualizzare l’assenza di regolarità con cui si manifestano i vari fenomeni politici e i loro sviluppi concreti a livello sociale, in un’era di certificato trapasso. Gianfranco La Grassa è stato sicuramente tra i primi a pronosticare quanto si sarebbe determinato sulla scacchiera geografica, con l’ingresso in una nuova fase di conflittualità multipolare e policentrica. Quando La Grassa annunciava questi presentimenti, derivati dai suoi studi sulle formazioni sociali in ambito capitalistico, erano ancora molto in voga le grandi narrazioni sulla fine della storia, sulla globalizzazione livellatrice dei diritti e doveri collettivi, al di là delle distinzioni etniche e culturali, e sulla proficua cooperazione tra le nazioni (i cui organi statali si sarebbero dissolti nel governo mondiale), tutti elementi rassicuranti venuti a galla dopo la caduta dell’Urss e l’ingresso nella monodimensionalità Occidentale. Ma, per l’appunto, si trattava di una forzatura ideologica, dettata dall’assoluta supremazia di “una parte” (quella vittoriosa nella Guerra Fredda) emersa trionfante dal mondo bipolare. Proprio il pensatore veneto, già qualche lustro fa, scrisse che la cosiddetta geopolitica del caos era stata innescata da una dinamica oggettiva di conflittualità, sempre operante sotto la crosta sociale, la quale, nonostante il teleologismo dei vincitori, avrebbe sfaldato gli equilibri (a dominanza statunitense) ritenuti irreversibili dai vessilliferi dei poteri costituiti, aprendo un ventaglio di scelte strategiche internazionali, diramanti da questo flusso destabilizzatore, con successiva ridefinizione dei rapporti di forza tra formazioni globali e regionali.
Vennero in auge nuove potenze politiche ed economiche, come la Cina, e riemerse dagli abissi in cui l’avevano sprofondata i traditori del socialismo ir(realizzato) anche la Russia, ora principale concorrente antiamericano nel riassestamento del planisfero. Anche su questo La Grassa fu anticipatore, mentre tutti puntavano su Pechino quale vero antagonista di Washington. In ogni caso l’intuizione lagrassiana è stata confermata nella sua essenzialità. Il primo dato ad emergere prepotentemente, con l’entrata in questa nuova fase, è lo scoordinamento finanziario e l’avvento di un periodo di stagnazione economica, quasi dappertutto.
Gli economicisti hanno interpretato questo fatto come basilare, il fattore scatenante del disordine odierno. Ma si tratta, invece, di una conseguenza superficiale che segue e non precede la fine del tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) e la crescita di potenza di paesi competitori dell’America (in particolare, ancora Russia e Cina). L’età in corso sembra avvicinarsi alla Grande Stagnazione che caratterizzò il quarto di secolo dal 1873-96, una periodo in cui, scrive La Grassa,
[…] Si andarono preparando eventi estremamente drammatici quali quelli che si produssero nella prima metà del secolo XX: le grandi crisi economiche (soprattutto, come già detto, quella del ’29) e, in particolare, le due guerre mondiali[…] A partire dalla seconda metà del XIX secolo, e specialmente dal 1870, si accentuò lo scontro tra i vari paesi capitalistici avanzati per la conquista delle colonie; e per la redistribuzione di quelle già acquisite (ci si ricordi che anche la Francia aveva possessi coloniali di rilievo pur se si era indebolita, come già messo in luce, con la sconfitta nella guerra del 1870-71)[…] la lunga depressione del 1873-96 è stata il sintomo (e l’effetto) della messa in discussione della primazia inglese, dell’ascesa di alcune nuove potenze ormai concorrenti nell’aspirazione a prevalere.
Detto ciò, possiamo fare dei parallelismi con la situazione attuale, dal momento in cui la superpotenza statunitense (proprio come quella inglese al calar del XIX secolo), fatica a conservare un primato mondiale che però, fondamentalmente, resta tale.
Gli Usa detengono un vantaggio posizionale sui “concorrenti” ma ugualmente avanza la sregolazione del sistema internazionale, che preannuncia ben altri conflitti.
Per intanto, l’opposizione tra player geopolitici si manifesta come guerra dei mercati, ma quando gli scarti di potere, tra gli Usa e i suoi sfidanti, si saranno avvicinati, le tensioni assumeranno la loro precipua veste politica e militare. Vicini a questo “stadio” la crisi risulterà irricomponibile, nessuna riforma potrà salvare un sistema superato nelle sue stesse gerarchie e (inter)dipendenze, verrà squarciato il velo di sofisticazioni economiche che rivestono l’abito delle relazioni tra le nazioni ed i nudi rapporti di forza saranno maggiormente visibili.
L’epoca della grande depressione, volendo restare al paragone storico precedente, cioè quella della fine degli anni ’20 del secolo XX, coincide con il conclamato indebolimento (e poi declino) di Londra. Questo decadimento però era cominciato da più lontano, dalla stagnazione di fine ‘800, si era inasprito con una guerra mondiale, a cui era seguita un’altra depressione profondissima e quest’ultima si era risolta, a sua volta, in una seconda guerra generalizzata che doveva mettere fine alla supremazia dell’impero inglese sul globo, a favore di Usa (nel campo occidentale) e Urss (in quello orientale). Senza essere troppo finalistici, né nella narrazione degli eventi passati (ai quali risaliamo post festum), né di quelli futuri (non escludendo, anzitempo, che gli Usa stiano andando incontro a questo destino ma nemmeno dandolo per scontato) parrebbe di essere sulla soglia di un’epoca di ulteriore scoordinamento, i cui risvolti sono intuibili con approssimazione ma non dettabili con certezza. La storia non si ripete allo stesso modo, per quanto ricorsiva sia. La conflittualità tra nazioni e rispettivi gruppi dirigenti negli apparati di Stato sarà il leitmotiv dei prossimi anni, lontana da infingimenti multilaterali. Il policentrismo è inevitabile approdo di ciò. Sarà ancora guerra totale? Tra dieci o vent’anni lo sapremo, ma non si sfugge mai alla logica dei conflitti che rinnovano la vita e la Storia.